Domenica, 13 Aprile 2025 08:07

Serra in idea. Una storia troppe volte negata

Scritto da Tonino Ceravolo*
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  • Dalla cartografia storica e dalle fonti sulla Calabria precedenti il terremoto settecentesco emergono talvolta errori e parzialità nella descrizione del paese bruniano. Che pur avendo avuto già dal tardo medioevo una propria “storia civile”, spesso è stato messo in ombra, se non addirittura fagocitato, dall’imponente storia della Certosa

Di una “Calabria in idea” ha discorso Augusto Placanica, in un suo notissimo contributo dal medesimo titolo, per dire di quel “mito arcaico”, fondato sulla “primitività” e selvatichezza della regione, che si sarebbe variamente evoluto e configurato nel corso dell’età moderna. E di una “Serra in idea” proveremo a dire noi adesso secondo una diversa prospettiva di quel termine “idea”, per sottolineare come, anche a causa di una sua specificità data dall’essere sorto nelle adiacenze del monastero certosino, il paese abbia stentato a essere “riconosciuto” in quanto tale ed è come se, pur avendo avuto già dal tardo medioevo una propria “storia civile”, sia stato fagocitato dalla più evidente e imponente storia della Certosa, dietro la quale, tante volte, è “scomparso” o è stato posto, da chi ne ha scritto, in ombra.

Sulle Serre esercizi di geografia fantastica

Se ne ha una palese testimonianza già quando si osservi superficialmente la cartografia storica calabrese, dovendo notare come la raffigurazione dell’area delle Serre e del suo principale agglomerato urbano scontino deformazioni e parzialità, che si spingono fino alla mancata segnalazione del luogo, secondo un’ottica che tende a privilegiare l’insediamento monastico certosino (centro della storia religiosa) a scapito dello spazio civile. Esempi: nella ricca carta di Pro­spero Parisio, stampata a Roma nel 1589, troviamo S. Stefano (questa è la denominazione del monastero dei certosini) e non Serra; la stessa cosa ac­cade nella più tarda mappa del reame di Napoli del 1702, firmata da P. Ganière, così come nella carta della Calabria Ultra inserita nella ristampa annotata da Tommaso Aceti del De antiquitate et situ Calabriae di Gabriele Barrio. Alla cancellazione del nome (e con esso, contestualmente, della cosa per chi avesse guardato e letto da lontano) si po­trebbe affiancare una seconda tipologia deformante, forse meno radicale, ma altrettanto rivelativa dei quadri mentali a partire dai quali veniva prodotta la mappatura del territo­rio. Nella Geographia Blauiana di Johannis Blaeu – e in diverse altre carte esemplate come questa su un archetipo di Giovanni Antonio Magini – troviamo una successione dei luoghi delle Serre del tutto inattendibile. Infatti, da nord a sud, la successione raffigurata propone “Zimba­rio”, “La Serra”, “Pizoni”, “S. Steffanio” (a cui sta allineato a oriente “Spatola”), “Soria­no”, “Ninfo”, Ierocarne”. Ci si trova dinanzi, in altri termini, a esercizi di geografia fantastica che negando (misconoscendo) il nome o il luogo negavano, al contempo, il suo principium individuationis, disconoscevano la sua “essenza”, occultavano (mediante cancellazioni o deformazioni) ciò che fa sì che cia­scuna cosa (ciascun luogo) sia ciò che è. 

E da Barrio, Fiore e Marafioti brevi cenni su Serra (ma compare la “mastranza”)

Non troppo diversamente vanno le cose se si scorrono le fonti sulla Calabria precedenti il terremoto settecentesco, a iniziare dal XVI secolo con quell’opera capostipite che è il già citato De antiquitate et situ Calabriae di Gabriele Barrio (1571), poi riedito nel 1737 con prolegomeni di Tommaso Aceti e osservazioni di Sertorio Quattromani. Qui, nella pagina dedicata all’area delle Serre, si riducono a pochissimi righi le osservazioni sul territorio (“Presso la chiesa nasce l’ossidiana […]. Gli abitanti si servono di questa pietra negli edifici. Nell’agro del monastero si scava la pietra ofite, gli scalpellini la chiamano granito”), mentre la gran parte dello spazio viene destinata al monastero della Certosa e, soprattutto, al reliquiario di origine normanna e ai suoi reperti notevoli. Né si avverte alcun significativo mutamento, tre decenni dopo, quando Girolamo Marafioti pubblica il suo Croniche et antichità di Calabria (Padova, Ad Instanza de gl’Uniti, 1601). Infatti, detto delle “pompose e belle fabriche” della Certosa e soprattutto (e molto più lungamente) di San Bruno, sono molto scarne le rimanenti note sui paesi: “Ne’ circonvicini paesi del monasterio predetto si ritrovano questi Casali, la Serra, Spatola, Bofongi, Zimbario, e più in alto, Montauro. In Zimbario si ritrova la pietra obsidama, in Bofungi vi sono le minere dell’oro, e del ferro; E Montauro è così detto, perch’in esso anticamente furono preciosissimi tesori ascosti, e quivi per beneficio singolare di natura nascono gli asparagi in ogni mese dell’anno. In tutti questi luoghi si veggono le selve abbondantissime di castagne, e ghiande, & copia d’ogni sorte di caccia. Et è da sapere ch’anticamente, sendo queste montagne incolte, & dalla prattica humana escluse, davano ricetto à gli orsi, ma rari al presente vi sono, e la copia, che v’è di caccia, è di cervi, di capre, d’istrici, di linci, di lupi, & d’altri animali selvaggi di manco valore. In queste montagne le quercie annose producono l’agarico perfettissimo”. Non del tutto sulla medesima scia si pone, invece, il voluminoso e postumo Della Calabria Illustrata (1691 il primo volume e 1743 il secondo) di padre Giovanni Fiore da Cropani, che non manca di richiamare il rapporto tra Ruggero d’Altavilla e San Bruno e ricorda il battesimo del secondo Ruggero, figlio del Gran Conte e di Adelasia, impartito, secondo una ben nota leggenda agiografica, dallo stesso Bruno, riportando pure l’inno composto dal monaco Maraldo per l’occasione. Passa, quindi, a ricostruire la storia dell’insediamento monastico - dopo aver descritto la “virtù maravigliosa” del busto reliquiario di San Bruno nel mettere in fuga gli spiriti maligni - e nel contesto di tale storia Serra la fa apparire solo in un cenno quando scrive che “oggidì è l’uno de’ più rinomati Monasterj non pur della Calabria, ma, e del Regno, e dell’Italia; conciosiache con amendue le spade comanda a cinque grosse abitazioni, la Serra, Spatola, Bivongi, Gasparina, e Montauro, e con la sola temporale a due altre Montepaone, e la Rocca di Neto”. Vero è, tuttavia, che a Serra è dedicato, come alle altre “abitazioni” della Calabria, uno specifico paragrafo, il LXXVIII, del Libro I del primo volume, ma innanzitutto per dire che “non fanno raccordo di questa abitazione, non Barrio, non Mariafioti, diligentissimi in quelli affari” (che è un po’ come affermare, se quelli erano da considerarsi “diligentissimi”, che sarà un limite del paese e non loro se di esso non trattano) e per richiamare l’ipotesi di Camillo Tutini sulla sua “prima origine” per effetto della presenza del monastero: “Questi dunque per ritrovarsi pronti a’ servizii del monasterio, abitarono ivi vicino, e vie più moltiplicandosi, accrebbero la Calabria di questa nuova abitazione; la quale oggidì è delle più popolate della provincia, con civiltà, e mastranze di ogni sorte”. Ecco, se c’è una cosa davvero interessante su Serra in questa pagina di padre Fiore è proprio quel termine “mastranze”, attestato, qui, in pieno XVII secolo (il Fiore era nato a Cropani nel 1622 e lì era deceduto nel 1683). Bisognerebbe condurre un’indagine filologica per appurare se sia la prima volta che la parola compare associata a Serra, ma quel che è certo è che il termine avrebbe goduto di grande fortuna nelle epoche successive e almeno fino alla conclusione dell’Ottocento, sino a diventare un contrassegno degli abitanti del paese, la proverbiale “mastranza di la Serra”. 

Pacichelli e il suo “picciol nome” in Certosa e a Serra

Corse nel tempio (ovviamente della Certosa) “ad adorar sotto l’Altare del braccio sinistro, fra le undeci Cappelle, e le altre due quasi nascoste, le ossa di S. Brunone chiuse in humil forma”, Giovan Battista Pacichelli (Roma, 1641 – Roma, 1695), dove, udita la Messa, andò a raggiungerlo “per notitia” del suo “picciol nome” Dom Luigi d’Aragona, “un de più accreditati e compliti Procuratori”, per condurlo in “un Quarto Prelatizio, con Lettiera di Damasco: distinguendosi in tre forme le stanze nobili per gli alloggi”. E se forse è un po’ presuntuosa quella sottolineatura di Pacichelli intorno al suo “picciol nome”, volendo naturalmente dire (e dirsi da sé) che era grande e ben conosciuto quel nome, bisogna considerare che era davvero un notevole personaggio quello che aveva messo piede nel monastero e che, nominato uditore generale alla nunziatura apostolica di Colonia, si era rivelato anche un grande viaggiatore: “Negli anni della nunziatura, effettuò numerosi viaggi nell’Europa centrale, settentrionale e meridionale, ed «ebbe occasione [...] di trattare con diversi principi, e ministri di Stato, come anche di osservare le migliori biblioteche, e conoscere i più distinti letterati, che in vari luoghi fiorivano» (Soria, Memorie storico-critiche degli storici napoletani, 1781, p. 462). Nel luglio 1673 visitò il Belgio e l’Olanda; nel marzo 1674 si recò a Utrecht, tornò a Colonia e ripartì a maggio per Rotterdam, l’Aia e Amsterdam. Tornato in Germania, andò a Brema, Amburgo e Lubecca. A giugno si spostò a Bruges e quindi in Francia, dove visitò Parigi, la Champagne e l’Artois, per poi giungere nelle Fiandre. Tornato in Germania, continuò a viaggiare fra la Westfalia e la Sassonia, nell’autunno 1674 si recò a Colmar e a Magonza. Nella primavera del 1675 fu la volta dell’Inghilterra, della Scozia e dell’Irlanda; quindi, preso il mare da Dover, giunse in Portogallo e di lì passò in Spagna. Rientrato brevemente a Colonia, nel 1676 intraprese un lungo viaggio attraverso la Svezia, la Danimarca, l’Austria, la Polonia e l’Ungheria. L’anno seguente visitò la Provenza, il Delfinato, la Savoia e ritornò in Italia, dove continuò a spostarsi fra Venezia, Ferrara, Bologna, Modena e Reggio” (così il DBI della Treccani). E tra le tante cose c’è da segnalare come, proprio nell’anno della sua morte, avessero visto la luce a Napoli queste Lettere familiari, istoriche, & erudite, tratte dalle memorie recondite dell’abate d. Gio. Battista Pacichelli in occasione de’ suoi Studj, Viaggi, e Ministeri in cui si può leggere il resoconto del suo viaggio a Serra. Viaggio in cui forse qualche traccia in più del paese, rispetto ai precedenti scrittori, è possibile reperirla, sebbene baricentro del discorso di Pacichelli sia pur sempre la Certosa, rispetto alla quale il visitatore si concede una parentesi per ricordare come avesse avuto “lungo, e grato discorso con un de’ Carafeschi Baroni, venuto à posta da Napoli, con diversi Padri di Soriano, & altri Forastieri, finche, apparecchiato esquisitamente, di picciole Trotte de’ lor Laghi, altro Pesce, Frittate con olio, Pizze di Ricotta e miele, Frutti, Fraole, e Vin freddo, il tutto in un tempo, da un Laico e da un servidore, co’ servigi di Majolica, fui chiamato in camera e al riposo”. Visitò la Certosa sotto la guida di Dom Luigi D’Aragona e il passaggio dal forno gli divenne occasione per collegare Serra al monastero: “Curioso il luogo per il Pane che ogni notte s’impasta di quattro specie da’ Fratelli nello spatio di tre, o quattr’hore, impiegato ne’ Divini Ufizj da’Padri: distribuendosi tre volte la settimana ad hora di Compieta, a’ poveri Vassalli, massimamente à centinaja di Fanciulli della Serra, una delle Terre del Monistero, popolata con molti Ferrai, e Intagliatori di legno, che andai à veder due miglia discosta. E si alimentavan quivi fino à cent’huomini, frà Operaj, e Giornalieri. Eranvi due Molini ad acqua, uno mosso dal cavallo; e un Instromento novello composto da un Monaco, per segar le pietre con l’Acqua, supplendo questa in due hore con l’ajuto di un huomo, all’attione lenta di tre”. Serra avrebbe di nuovo fatto capolino nell’opera postuma, dal chilometrico titolo Il Regno di Napoli in prospettiva, diviso in dodici provincie, in cui si descrivono la sua metropoli, le sue 148 città, e tutte quelle terre delle quali se ne sono avute notizie, colle loro vedute diligentemente scolpite in rame, oltre alla carta generale del Regno, e quelle delle dodici provincie, uscita a Napoli nel 1703, nella quale si dedicavano al paese queste poche righe: “Antico donativo del Conte Rogiero alla Certosa di Santo Stefano del Bosco. È situata nelle Montagne, ove i Forastieri vi trasportan ciò che la Vita humana ricerca. Vi si alimentan persone civili, e industriosi Artisti di ogni specie. Col Castello di Spatula riconosce la Regal Corte per 221. Fuochi. De’ Legnami delle sue Selve, e de’ Marmi graniti medesimi del Panteone famoso di Roma qui cresciuti e scavati, scrive bene il Barrio”. Oltre un secolo dopo, alla fine, pur sempre a Barrio, da cui tutto era iniziato, si ritornava.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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