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“Un paese ci vuole”, scrive Cesare Pavese nella Luna e i falò (Einaudi, 1950), “non fosse che per il gusto di andarsene via”. L’idea del paese, dell’appartenenza e dello stare, aggiunge Pavese poco più avanti, implica anche l’idea del fuggire e del cercare l’altrove, perché esso è un luogo in cui “non è facile starci tranquilli”, qualcosa da cui scappare non appena si può, che “sfugge di mano”. Sostare e fuggire, stare e scappare, avere un paese e andarsene lontano, rappresentano una specie di endiadi anche per il Corrado Alvaro del Treno del Sud (Bompiani, 1958; Rubbettino, 2016), “nuvola di carta” del mese di settembre: “La fuga è, dunque, oggi, il tema della vita calabrese. […] E una tale fuga il calabrese se la compie anche se sta seduto a un posto, in un ufficio o dietro uno sportello. È raro vedere qualcuno che si trovi realmente là dove sta. Fisicamente o fantasticamente, la Calabria è oggi in fuga da se stessa”.
L’Ancinale davanti e dietro la montagna che frana
In Calabria, fa vedere Alvaro, è in perpetuo movimento persino la natura, che con i terremoti, le frane e le alluvioni trasforma la vita dei paesi. Pure i paesi, per quanto recalcitranti, fuggono, si spostano, sono costretti a trasferirsi e a cambiare di sede, quando, per esempio, infuria l’urlo del torrente e “da tutte le parti la montagna scarica i suoi rigagnoli e i suoi canali”. Così accade che l’Ancinale salga al livello della strada, invada i paesi alti “raggiungendo il livello dell’acquasantiera delle chiese” e trascinando “una trentina di vittime sulla riva del mare”. E Cardinale, nelle Serre, è uno di quei paesi che hanno “la sepoltura pronta”, perché “l’Ancinale gli scorre davanti; dietro la sua montagna frana”. E tuttavia, nonostante sia condannata, esita a trasferirsi nel nuovo paese (quello che oggi conosciamo come Novalba di Cardinale) a tre o quattro chilometri di distanza, dalle lunghe file di “edifici gialli, paralleli, monotoni, che ricordano i campi di concentramento o i padiglioni di qualche città di malati poveri”. La popolazione di Cardinale resiste, “al suo vecchio paese ha una chiesetta rustica ma col suo colore, ha qualche casuale prospettiva di vicoli, un poggiolo, una colonnina, che attestano una vita povera ma intima. Sotto la frana cullano i loro bambini; i vecchi sulla soglia, in cima alla scala esterna, guardano la luce; le donne sui poggioli filano; i bambini ruzzano, i focolari fumano”. Dovrebbe fuggire altrove la vecchia Cardinale e, invece, vuole rimanere dov’è, pure se il pericolo che il colle frani è imminente, perché il problema vero non è il colle, ma il bosco prima dato dal Comune per i lavori della gente e adesso ceduto in appalto.
Serra, un paese di liberi e uguali
Anche a Serra c’è traccia di fughe dei paesani, ma, innanzitutto, se si coglie un desiderio di altrove è quello dello scrittore mentre visita il monastero dei certosini (“La Certosa tra gli abeti” del titolo del brano) e dice a sé stesso, per placare lo straniamento che lo coglie, «Sta’ tranquillo: non ti sei ancora fatto monaco certosino»: “Me lo dicevo davanti agli alberi carichi di frutti non colti e puliti, senza una foglia o un frutto appassiti; sui prati netti come in un affresco dell’Angelico; me lo dicevo nelle celle, che sono ognuna un appartamento spazioso, con laboratorio, stanza da letto e studio e inginocchiatoio, proprio come nei quadri, e con giardinetto privato fra quattro alte mura. Me lo dicevo nella cappella, dove un frate tirava la fune della campana che pende da un foro del soffitto, e il suono veniva di lontano, soffocato, vincendo con difficoltà il silenzio. L’impressione era di essere uscito dal tempo”. Spaesamento dentro il monastero che si trasforma in una “riconciliazione” con il mondo circostante lungo le strade dell’abitato, tanto da fargli dire che “Serra San Bruno, è il paese di Calabria in cui si vorrebbe sostare”. E Alvaro lo spiega, prima e dopo, questo desiderio di sosta, già nella considerazione del fatto che Serra “non si trascina dietro l’eredità feudale delle Calabrie; vi si sente una società d’uguali e intimamente libera; il paese ha urbanisticamente un senso, e nella stessa abitazione esprime una vita senza contrasti. Vi sono tre chiese graziose in cui le epoche dell’arte maggiore europea sono rivissute con l’ingegno e l’ingenuità e la fantasia d’un’arte provinciale che ha un suo gusto”. E infine, a completare il quadro: “Ha un colore alpino e vi arriva spiritosa l’aria del mare. E poi è nell’atmosfera di una delle più autentiche tradizioni calabresi, il monachesimo”. Così persistente questa “tradizione” monastica che in Calabria non è difficile imbattersi in “gente vestita da monaco di nessun ordine”, che si ritira in romitaggi di montagna al modo degli eremiti medioevali e se ne va “alla cerca portando un serpente in una cassetta”. Eppure da questo paese in cui si vorrebbe sostare c’è anche gente che fugge e sono gli artigiani che “hanno chiuso bottega e hanno emigrato”. Serra condivide il “destino” storico della Calabria in fuga, da cui scompaiono sempre più le tracce dell’antico artigianato. L’artigianato calabrese non è altro che “uno dei tanti poetici ritiri di individui solitari” o delle donne non sposate che diventano monache di casa e “creano quelle coperte coi disegni tradizionali, di canapa, o di lana, o di ginestra, e i damaschi rosso granato, giallo oro, bianco gelato”. Ancora si sente da qualche parte qualche telaio e ancora si fanno gli orci, le giare, le cuccume di creta, ma l’artigianato è scomparso. I paesi fuggono per la furia degli elementi naturali che li sospinge in altri luoghi, mentre gli uomini fuggono dalla povertà e per l’erosione di un universo storico ormai mutato. Tra gli uomini ci sarebbe, poi, anche la fuga degli intellettuali calabresi che si rifugiano nella retorica di un passato di colonie greche, di Sibari e Locri, che non esiste più, ma qui si aprirebbe un diverso capitolo.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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