Domenica, 30 Giugno 2024 07:45

Un agronomo trentino a Serra. La “maraviglia” dell’abete e il “prodigioso” faggio/1

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Una nuvoletta di carta è quella di cui parliamo alla fine di questo mese, uno sbuffo di appena una quindicina di pagine, emerso tra tanti articoli che si muovono tra l’Italia e l’Europa: i boschi del “littorale austriaco” e il “rimboschimento del Carso”, le stazioni sperimentali in Germania e in Austria, la lava delle Murge Baresi. In mezzo a questi altri sbuffi è anche di questa zona che si parla, perché di Serra e di Serre si occupa uno di essi e le osserva con gli occhi di un agronomo, guardandole, diversamente da altri giunti in questi luoghi, soprattutto in quanto geografia fisica, natura, boschi, minerali, piante, tutte cose, direbbe il Norman Douglas di Old Calabria, che farebbero felice l’utilitarista. E si tratta del resoconto di un viaggio, di un breve itinerario compiuto tra i boschi delle Serre da un autore forse non notissimo: Da Monasterace a Serra San Bruno (Calabria). Considerazioni economico-forestali è il titolo dell’articolo, uscito, insieme con quelli che abbiamo citato all’inizio, nel 1886 nella Nuova Rivista Forestale “pubblicata per cura dei professori dell’Istituto Forestale di Vallombrosa diretta dall’ingegnere Comm. F. Piccioli”, come recita il suo frontespizio. Mentre sull’autore dell’articolo, l’agronomo Agostino Lunardoni (1858 – 1933), ricaviamo le notizie fondamentali dall’Archivio dei possessori della Biblioteca Marciana di Venezia, dove sono registrate alcune sue firme di possesso su pubblicazioni: “Nato a Borgo Valsugana, portò a termine gli studi tecnici a Rovereto e si laureò presso la Scuola forestale di Vienna. Fu dapprima designato agli Uffici montanistici di Trieste dove rimase due anni, passò poi ai servizi dello stato Italiano. Lavorò presso il Ministero dell’Agricoltura, dove raggiunse i massimi livelli fino a diventare ispettore generale. Venne incaricato direttamente dall’allora ministro di riorganizzare i servizi agrari della Venezia Tridentina. Cessò il lavoro nel 1929, per raggiunti limiti d’età. Fu studioso appassionato di entomologia agraria e forestale e autore di molti testi sull’argomento”. 

Oasi in mezzo a un deserto

Un viaggio che, al pari di quelli di tanti altri suoi illustri e meno illustri predecessori, si trasforma sin da subito in una scoperta, accompagnata dallo stupore e dalla meraviglia, per un mondo, in questo caso vegetale, che forse non si presentiva e non si immaginava in quel modo: “Arrivato a Monasterace e dato uno sguardo alla squallida rada ed ai nudi monti che a tergo la cingono, cominciai a dubitare sì dell’esattezza degli statisti, che delle affermazioni dei calabresi. Che al di là di quelle pendici solcate ed erose dalle acque, denudate dal sole cocente e dal pascolo vagante, ove solo pochi alberi sparsi o radi gruppi rimangono a memoria dell’antico splendore ed a rimprovero quasi dell’attuale abbandono, che dietro quelle creste vegetassero simili oasi in mezzo ad un deserto creato dall’uomo dei bei boschi, mi sembrava impossibile, tanto che già mi figuravo di trovarvi delle terre popolate da alberi, ma non mai delle foreste”. Quante specie, quante varietà, quanti paesaggi, si dispongono dinanzi allo sguardo dello stupito viaggiatore percorrendo le erte che dalla marina lo conducono sopra i boschi delle Serre: “Una gita da Monasterace a Serra San Bruno non può non destare l’attenzione del dendronomo, ché come in una mostra sfilano davanti a lui le piante della flora africana fino a quelle proprie della zona del faggio e dell’abeto comune. Ed infatti voltando le spalle al mare e volgendosi verso i monti all’agave, al fico d’India ed alla palma di S. Pier Martire tengon dietro gli aranci, i limoni, il pistacchio, la vite, il corbezzolo, il melagrano, gli ulivi, il leccio, le querci a foglie caduche, il castagno, il pino laricio e finalmente il faggio, il carpine, l’acero, l’abeto ed il tasso. Passato Stilo e volte le spalle a Pazzano, dopo forse un’ora di cammino ci s’accorge d’esser entrati nella regione montana riservata ai boschi, ché al pacifico ulivo divenuto raro ed alla vite sparuta, segue il castagno ed il leccio contrastandosi il dominio. Già a quell’altezza s’incomincia a scorgere a destra ed a manca, lontane macchie di roveri, di elci e di faggi, o aggrappate a scoscese pendici solcate in mille guise da burroni e burroncelli, o site a cavaliere dei monti, quasi altrettanti castelli sfidanti le ingiurie meteoriche ed il tempo. Giunti sulla cresta del monte, ove la strada comincia a pianeggiare, si entra nel dominio del faggio e dell’abeto bianco ed il viaggiatore vede stendersi e spiccare fra boscaglie rade e pendici brulle, la bella faggeta detta di Stilo e di Assi. Proseguendo il cammino verso Serra, passato Monte Pecoraro, che è il punto più elevato di questa regione, a sinistra della strada, si distende il bosco d’Archiforo, facente corpo coi tre primi e costituito da faggi ed abeti. Più in là, verso occidente, su una collina a dolce pendio si stacca maestosa la bella abetina di S. Maria, unica reliquia salvata dalle ugne degli speculatori e disgiunta dai mentovati boschi da una lingua di terra, parte incolta e coperta di felci ed eriche, parte coltivata a cereali o patate. Più lungi sì nella valle di Serra, che sui colli che la formano e coronano da tre lati, troviamo i rimasugli di foreste che furono ed i patenti indizii della incuria presente. Quella valle, altre volte certamente bella ed ubertosa, è oggi colpita dallo squallore del deserto ed ove lussureggiavano i faggi e gli abeti e fruttificavano i castagni ed i roveri, non troviamo che eriche e frutti di nessun conto”. Non ci si lasci soltanto trascinare da questa passeggiata per foreste e boschi che potrebbe incoraggiare un atteggiamento puramente estetico, se si può cogliere nelle parole di Lunardoni, prima di addentrarsi nelle sue considerazioni, un giudizio non esattamente da encomio sulla parte serrese di questo scenario naturale. Le unghie degli speculatori, l’abetina di Santa Maria sola “reliquia” sfuggita alle loro grinfie, lo squallore del deserto, là dove, un tempo, si vedeva una valle “bella e ubertosa”, sono parole che lasciano il segno e presentano una realtà che il viaggiatore, alla fine del XIX secolo, coglieva nelle sue non positive trasformazioni.

Una vegetazione arborea lussuriosa

Non dimentica le vicende storiche, Lunardoni, prima di passare alla geologia, alla botanica, all’economia e ricorda che “la storia di questi boschi è quella della maggior parte dei boschi che ancor esistono in Italia. Ruggero I donò al Monastero di S. Stefano del Bosco, fondato da S. Brunone nel 1097, insieme ad altri vasti possedimenti le circostanti foreste. Distrutto quel grandioso Cenobio dal terremoto del 5 febbraio del 1783 i boschi vennero, in parte, incamerati dallo Stato e dati in dotazione alle ferriere di Mongiana e Ferdinandea, in parte ai Comuni a titolo di affrancazione di certi diritti accordati loro fin da tempi remoti dai Padri Certosini feudatari”. E pazienza se qualche data gli esce sbagliata come nel caso del 1097, anche perché non fu Bruno a fondare il monastero di S. Stefano del Bosco (ma per l’epoca tutto questo può considerarsi abbastanza normale), pazienza se sbriga tutta la faccenda storica in pochi passaggi frettolosi. Trascureremo la discussione mineralogica, su rocce calcari e granito e acido silicico e feldspati, per dire, invece, delle conclusioni che Lunardoni ne ricava, poiché osserva che proprio per quei feldspati, proprio perché il terreno era ricco di “potassa e d’allumina” e per le sue proprietà fisiche, mai aveva visto “né nella rinomata Selva di Vienna, né nella Slesia, né sui colli croati e meno ancora sulle Alpi” una vegetazione arborea “più lussuriosa”, con le sue essenze del faggio e dell’abete bianco, del rovere, del leccio e del castagno. Con il faggio che nei boschi di Stilo, di Assi e “Diname” prospera “in modo prodigioso”: “E dico prodigioso perché, l’annuo accrescimento diametrale medio, oscilla fra i 16 e i 20 mm., vale a dire di circa un terzo superiore all’accrescimento diametrale medio del faggio delle più floride faggete di Germania”. Più della Germania, un risultato per le periferiche e malandate Serre non da poco. 

Come Vallombrosa e come Camaldoli

Non soltanto le faggete, ma pure le abetine sollecitano Lunardoni a considerazioni degne di segnalazione: “L’Abetina di S. Maria, che come dissi è staccata dal bosco d’Archiforo da pochi coltivi e da alcuni felceti, non è molto estesa (circa 800 ettari), ma altrettanto bella. Essa non merita quest’attributo perché ben governata, ma per la sua splendida vegetazione. Soli pochi appezzamenti, rovinati dall’inscienza dei passati amministratori o dall’avidità di speculatori e che verranno fra breve rimboschiti, ricordano i malandati boschi comunali alpini, il resto richiama al nostro pensiero le celebri abetine dell’Appennino toscano, come quelle di Vallombrosa, Camaldoli, Boscolungo, ecc. Trattata a dirado senza regola, né principî, in essa troviamo soggetti di tutte le età e dimensioni, dai semenzali di pochi mesi e di pochi centimetri, alle piante stravecchie, grosse perfino 2 m. ed alte 40 m. È fuor di dubbio che pochi o forse nessun altro bosco italiano può oggi fornire legnami di grossa mole, quali l’abetina di S. Maria. Ma essa non è solo fornita a dovizia di abeti dalle colossali dimensioni, ma possiede ancora alcune centinaia di migliaia di piante mature ed andanti eccellenti per le costruzioni edilizie d’ogni genere, per le idrauliche e per le navali. Il legname da costruzione e da opera maturo, esistente in quest’abetina, vien giudicato da competenti ammontare a circa 300,000 m. c.”. E si notino, ancora una volta, i termini di paragone e il risultato della comparazione: Santa Maria come Vallombrosa, come Camaldoli, come Boscolungo e le dimensioni del suo legname quasi senza pari sul suolo italiano, anche se – nello sforzo di distinguere ciò che è opera umana e ciò che è frutto naturale - non per merito dell’uomo, bensì e solo della natura. E a fare da ostacolo alla proficua utilizzazione dei prodotti di tali boschi non era certo la mancanza di strade, osserva Lunardoni: molte “stradicciuole boscherecce” servivano a “smacchiare il legname di dotazione delle segherie ed al trasporto del carbone”, esisteva una “stupenda” strada nazionale che immetteva al porto di Pizzo e ai porti e alle stazioni di Soverato e Monasterace e l’abetina di Santa Maria “oltre alle molte rozze straducole boschereccie, possiede due tronchi di ferrovia a scartamento ridotto, uno costrutto dai Cadorini che lavorarono in quei boschi per le Amministrazioni passate, l’altro più economico e razionale costrutto dall’Amministrazione presente. Il nuovo tronco, che verrà prolungato e che dividerà l’abetina in due, riuscirà di grandissimo vantaggio, vuoi per il trasporto dei tronchi di 4 metri, destinati alla produzione di materiale da filo, vuoi per quello delle lunghe travi, alberi maestri, antenne, ecc.”. 1/continua

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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