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Una pausa per Natale, dalla Calabria e dalle sue mille e una storie, dalle “nuvole” che si addensano leggere e vaghe o fosche e minacciose su questo piccolo lembo di terra, per parlare una volta tanto di altro e un po’ anche di me. Questo perché vorrei dire ai venticinque lettori di questa rubrica (e so bene che l’espressione è usurata, ma è sempre bella, carica di tante cose) di un fatto privatissimo e di nessuna importanza generale, ma a cui il Natale mi riporta ogni anno e che è il libro che in ogni Natale leggo, poiché a Natale devo leggere almeno un libro che parla del Natale. In generale, leggere libri penso faccia sempre bene, ma a Natale, per così dire, ancora di più, perché aiuta a stare da soli con sé stessi e a formare isole di silenzio, incoraggia la meditazione e i pensieri. Qualcuno di questi libri l’ho affrontato per una sola e unica volta (così è stato un po’ di tempo fa per il bellissimo volume dedicato da Maurizio Bettini al presepe: Il presepio. Antropologia e storia della cultura, Einaudi, 2018), qualche altro, nel tempo, l’ho letto e riletto in diversi Natali e quindi in diversi anni, qualche altro ancora mi accompagna, posso dire, da sempre.
Storie di Natale
Quest’ultimo è il caso dei cosiddetti Vangeli apocrifi (e naturalmente degli apocrifi sull’infanzia di Gesù), scoperti molto giovane grazie alla “mediazione” di un geniale Fabrizio De Andrè (La buona novella), ai quali chi voglia andare alle origini del patrimonio culturale della cristianità per forza deve attingere, affiancando la loro lettura a quella dei “canonici”. È lì che, insieme con il racconto dell’evangelista Matteo, “nascono” in misura importante i Magi come noi li conosciamo ed è sempre lì che si raccontano episodi dell’infanzia di Gesù che nei “canonici” non si trovano. Un Gesù persino “monello” (e come avrebbe potuto non esserlo se, assumendo integralmente la dimensione umana, si era fatto prima bambino, tanto da vivere questa condizione, raccontano gli apocrifi, fino in fondo?) e irriverente, addirittura “dispettoso”, insomma una specie di birbone, non sempre facile da sopportare. Cosa dire, se non consigliare a chi ancora non l’abbia fatto di precipitarsi a leggerli questi apocrifi, di immergersi in quella grazia, di lasciarsi trascinare dalle meraviglie di cui sono prodighi? Ma letto più volte è stato anche quel Canto di Natale di Dickens che continua a commuovere generazioni di lettori (e di spettatori delle sue tante versioni cinematografiche) e che ha in Scrooge un personaggio indimenticabile, sia nella sua cattiveria sia nella successiva conversione alla bontà, forse persino mielosa e stucchevole nel suo essere senza ombre e tutta d’un pezzo. Allo stesso modo sono ritornato due o tre volte (voglio dire in due o tre diversi Natali) su un piccolo volume del più importante scrittore cattolico del secondo Novecento italiano (dico di Mario Pomilio, autore di capolavori quali La compromissione e Il quinto evangelio, forse oggi non sempre adeguatamente ricordato) che a un altro ancor più grande scrittore e poeta cristiano, ai suoi tormenti e ai suoi dubbi sulla fede (naturalmente Alessandro Manzoni), ritornava nel Natale del 1833, a partire dalla morte di Enrichetta Blondel, prima moglie di Manzoni, proprio il 25 dicembre di quell’anno (Rusconi, 1983). Pagine di diffusa malinconia, di dolorose cogitazioni private, di intensa e persino drammatica spiritualità, che riportano a un universo famigliare insieme pubblico e “segreto”, al cospetto del Dio che, come sempre, “atterra e suscita”, “affanna e consola”.
A Natale, nell’ora del silenzio
Quest’anno è la volta di Rainer Maria Rilke - il sublime poeta delle Elegie Duinesi e dei Sonetti a Orfeo, il mirabile prosatore dei Quaderni di Malte Laurids Brigge - e delle sue Lettere di Natale alla madre, 1900 - 1925 (Passigli Editore, 1996). Un incontro del tutto fortuito, sollecitato dall’interferenza di un altro libro, che non di Natale parla bensì di solitudine e di solitudini estraendo una citazione dalle Lettere che fa venir voglia di prendere in mano il volume intero. Lettere di Natale che per ventisei anni Rilke spedisce alla madre Sophia Entz con la quale celebra, in comunione spirituale con lei, quell’ora sacra e immersa nel silenzio che per entrambi, la madre e il figlio, sono le sei del pomeriggio del 24 dicembre. Un’ora in cui, pur lontani, spiritualmente si ritrovano ogni anno nel raccoglimento per l’attesa della nascita, per l’apertura dei reciproci doni (ammesso che qualche contrattempo non ne impedisca l’arrivo nelle rispettive destinazioni), per la lettura emozionata delle lettere che a ogni Natale si scambiano (ed è un peccato che il lettore del volume possa leggere solo le lettere di Rainer e non anche quelle di sua madre). Celebrare la festa dentro di sé, trovare un “posticino dentro di noi dove siamo semplicemente bambini”, preparare “per la celebrazione più santa dell’anno” un presepe nel cuore: è questo il segreto che Rainer (anzi René, come firma le lettere) rivela alla madre. Fare ritorno in sé stessi (“noli foras ire, in te ipsum redi”, aveva già detto Sant’Agostino nelle Confessioni), per avere un posto recondito, un angolo, nel centro del proprio animo, dove possa essere Natale e dove il bambino possa nascere per ciascuno. Rilke lo dice in mille modi e in mille forme, come un autentico leit-motiv di queste scritture private, riallacciando anche il filo dei propri ricordi infantili, quando la madre addobbava e arricchiva quella santa sera, quando il cuore gli batteva eccitato sino al pomeriggio del 24, il momento in cui la “tempesta che più violenta non si può” lasciava il posto a quella “bonaccia che negli esseri umani segue la tempesta e la cui calma pura era poi interrotta dalle campane e dai carillons”. Un motivo che ritorna persino nel Natale del 1914, primo anno della Grande Guerra, di cui nelle parole di Rilke si avverte il dramma: “Ci si chiede se quest’anno possa esserci Natale, quando quasi da ogni casa sono strappati uomini, padri e figli, dove in molti regna la certezza e in tutti la minaccia che essi non faranno ritorno?”. E tuttavia, se le case non potranno farlo, ancora una volta saranno i cuori ad accogliere la festa nella notte di Natale, poiché è lì, nei loro recessi, che potrà essere celebrata e magnificata. E alla fine, conclude Rilke, sarà un progresso, se le feste “rinunceranno a ogni paludamento per realizzarsi nell’invisibile”.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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