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La documentazione rintracciata nell’Archivio del Comune di Serra San Bruno e della quale Il Vizzarro ha dato molto opportunamente notizia (qui l'articolo) contribuisce ad aggiungere un ulteriore tassello alla ricostruzione, quanto mai necessaria, della vicenda plurisecolare della dispersione del patrimonio culturale della Certosa di S. Stefano del Bosco dopo il terremoto del 1783, che autorizza a parlare di una vera e propria “Certosa perduta” anche ben lontano dal territorio serrese. Basti pensare, per limitarci a due soli rilevanti esempi, ai vasi della farmacia del monastero (prodotti dal notissimo opificio di ceramiche della famiglia Grue di Castelli in Abruzzo, attivo tra XVII e XVIII secolo) i cui esemplari superstiti si possono oggi ritrovare nel Museo Nazionale di Reggio Calabria, nel Museo Civico di Rovereto e presso collezioni private calabresi oppure alle statue mancanti del ciborio di Cosimo Fanzago, traslate a Vibo Valentia agli inizi del XIX secolo e visibili nelle sale del Museo di San Leoluca. Certo è che ad avere un ruolo in tale vicenda fu proprio Achille Fazzari (Stalettì, 1839 – Copanello, 1910), padre di quel Moltke che Il Vizzarro, nel suo articolo sui “tesori perduti”, ha segnalato all’attenzione dei lettori per il breve carteggio sui cosiddetti “leoncini” di Santa Maria conservato nell’Archivio comunale di Serra. Garibaldino di primissimo piano, imprenditore e deputato nella XII e XVI legislatura, Achille Fazzari strinse importanti relazioni con la Certosa e fu proprietario della tenuta e della segheria della Ferdinandea, per la quale utilizzò anche ingenti finanziamenti della Banca Romana che gli valsero l’attenzione non marginale della Commissione parlamentare d’inchiesta istituita dopo lo scandalo della banca (dicembre 1892).
Fazzari e la “Certosa perduta”
Singolare figura di dichiarato benefattore nei momenti della ricostruzione ottocentesca post-sisma, Fazzari non fu estraneo alla dispersione di parti del patrimonio del monastero che andarono a costituire, come si diceva prima, una “Certosa perduta”, sia nel senso di una Certosa della quale, oggi, alla lettera, sono andate smarrite le tracce sia in quello di una Certosa (ossia dei suoi “oggetti”) non irrimediabilmente svanita, bensì ricollocata in altri luoghi. Se ne hanno i riscontri, per esempio, in una cronaca di Dom Elie M. Poinsotte, in cui, riferendosi a un giorno non precisato del 1894, il monaco annota: “Un medaglione d’oro viene trovato nello scavo del vecchio cimitero della Certosa, allorché si cominciavano i lavori di restaurazione. Quel medaglione, a man destra, rappresenta un Certosino (S. Brunone), a man sinistra S. Stefano. Poi, aprendone le sue portiere, si vede rappresentato, a man destra, la Madonna, a man sinistra, nostro Signore Gesù Cristo. Questa pittura finissima fu regalata all’Ill.mo Signor Achille Fazzari. Poi, Achille Fazzari la regalò al Re Vittorio Emanuele III, allorché, dopo il gran terremoto del 1905, stava in giro, per rimediare a’ disastri”. Di un altro ritrovamento beneficia Achille Fazzari nel gennaio 1895, allorquando, proseguendo i lavori di ricostruzione del monastero, viene rinvenuta (e gli viene donata) “una pietra tombale di sette piedi di lunghezza, che rappresenta il Conte Ruggero morente. Il principe è armato con la sua spada e il suo pugnale, mentre due cani sono coricati ai suoi piedi”. Si ha un ulteriore riscontro di tale ritrovamento anche nella cronaca manoscritta del priore dell’epoca, Dom Bulliat, che osserva: “Abbiamo trovato dentro un muro una pietra tombale che porta in rilievo il Conte Ruggero nel momento della morte. Ci sono due cani di normale grandezza ai suoi piedi. Il signor Fazzari l’ha richiesta e noi gliela abbiamo donata”. La “pietra” ritrovata nella Certosa venne, poi, trasferita da Fazzari alla Ferdinandea, per far perdere in epoche più recenti le proprie tracce. E ancora il nome di Achille Fazzari ritorna, in una nota marginale al testo di Dom Poinsotte, per indicare nella sua persona il possibile tramite per l’alienazione della cinquecentesca Platea manoscritta della Certosa di S. Stefano, che venne successivamente acquistata dall’archeologo Paolo Orsi e fu quindi acquisita, dopo un periodo di permanenza presso la Soprintendenza delle Antichità di Siracusa, al Museo Nazionale di Reggio Calabria, dove è ancora conservata, il 5 febbraio del 1952. Sembra, peraltro, di qualche interesse osservare che l’occasione di tale nota marginale era stata data a Poinsotte dalla presenza in Certosa, l’11 agosto del 1921, di Francesco Valenti “ingegnere architetto, sopraintendente a’ monumenti della Calabria, Sicilia e Basilicata” il quale disse ai certosini “che a Palermo, dove risiedeva, c’era ‘la Platea’ de’ nostri Padri, che è il documento autentico della reintegrazione di tutti i loro beni (nel 1534), 29 anni dopo il loro ritorno”. Valenti era accompagnato, come si dice poco oltre, proprio dal già richiamato Paolo Orsi.
“Graniti gratuiti, pagati ripetutamente”
Il fatto è che questa vicenda va adeguatamente collocata, per essere compresa, nell’intero quadro dei rapporti tra Achille Fazzari e la Certosa, che furono, indiscutibilmente, di stima e considerazione da parte dei certosini, come non manca di registrare la cronaca del monastero serrese di Dom Poinsotte qui più volte citata: “L’Ill.mo Sig. Achille Fazzari, Benefattore della Certosa, addì 20 maggio 1897, viene registrato fra le persone che hanno il Diploma e la Partecipazione alle preghiere dell’Ordine. La sua pia consorte, Anna Manny Fazzari – Gemma Larussa Fazzari e i figli del Sig. Achille Fazzari godono pure i benefizi della Partecipazione”. Per aggiungere qualche rigo più sotto, in data 27 luglio 1897: “In quel giorno, i Padri essendo andati pel grande passeggio a Ferdinandea, il V. P. D. Ambrogio Bulliat, Priore della Certosa de’ Santi Stefano e Brunone, presenta all’On. Sig. Achille Fazzari la Lettera di Partecipazione, bellamente incorniciata e disegnata con delicate miniature dal V. P. Pasquale Pron”, registrandone anche, in corrispondenza del giorno 19 novembre 1910, la morte e ricordando che “verso 1860 Garibaldi, per ricompensare la sua prodezza gli aveva donato i Boschi del Pecoraro colla tenuta di Ferdinandea”. In tale contesto va posta anche la questione dei graniti utilizzati per le fabbriche del monastero: “Il sig. A. Fazzari - scrive Dom Poinsotte - che meritatamente consideriamo come un nostro benefattore, offrì spontaneamente le pietre di granito delle sue cave al V.P.D. Ambrogio Bulliat per la riedificazione della Certosa”. Difficilmente, considerato quanto sopra esposto riguardo alle vicissitudini del patrimonio artistico e culturale del monastero, si riesce, però, a dar torto al compianto bibliotecario e archivista della Certosa di Serra San Bruno, Dom Basilio M. Caminada, quando, in relazione a tale vicenda, lapidariamente osserva: “Graniti gratuiti, pagati ripetutamente!”.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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