Domenica, 07 Luglio 2024 07:58

Meglio dell’Austria e della Germania. Un agronomo trentino a Serra/2

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Non meno interessanti di quelle riportate nella prima parte di questa “nuvola” di carta (che potete leggere cliccando qui) erano le considerazioni che l’agronomo trentino Agostino Lunardoni (1858 – 1933), nell’articolo uscito nel 1886 sulla Nuova Rivista Forestale, riservava, “prima di ammainare le vele”, alla popolazione e ai prodotti del bosco e dell’industria forestale. La riportiamo, nella parte dedicata agli abitanti, quasi per intero: “La popolazione del territorio di Serra San Bruno vive pei boschi e per le industrie che ad essi s’annettono. Dalle terre coltivate e dalla pastorizia essa non trae che i prodotti sufficienti per forse due mesi. Se un grave incendio od una speculazione disastrosa distruggesse quei boschi, una emigrazione in massa ne sarebbe la dolorosa conseguenza. Dopo che la fabbrica d’armi di Mongiana sospese i suoi lavori e gli alti forni restrinsero la loro attività, quasi tutti gli armaioli ed artigiani in ferro, dovettero andare a Terni, e nel paese restarono i segatori, i carbonai, gli accettaiuoli ed i bovari. Gli accettaiuoli ed i carbonari non si uniscono in squadre di venti o più sotto la direzione d’un capo e con mensa comune come si pratica nelle Alpi ed in molti altri paesi, ma le compagnie si restringono a due od al più tre individui legati o da vincoli di sangue o da vecchia amicizia. I lavori del bosco, vale a dire, atterramento degli alberi, facitura dei tronchi, sramatura, sminuzzamento del legname da carbone e cottura di questo, si fanno per contratto a tanto al pezzo per la sbozzatura dei tronchi ed a tanto il cantaro (85 klg.) per il carbone. Le lavorazioni vengono assunte da uno o due dei più anziani od intelligenti fra gli accettaiuoli o carbonai, i quali a ricompensa delle loro particolari prestazioni e responsabilità si ritengono un percento sugli incassi. Il boscaiuolo calabrese fuori della sobrietà non possiede particolari doti da distinguerlo, ma è discreto ed intelligente lavoratore. La capacità loro nel maneggiare l’accetta e nel dirigere la caduta dell’albero, non è certo da paragonare a quella che spiega il boscaiuolo cadorino o slavo, ma non è nemmeno sprezzabile. Dalla squadra di boscaiuoli cadorini, portata dalle Amministrazioni passate e che vi dimorò parecchi anni, essi appresero il modo di tagliare basso, la maniera di costruir le risine, le strade boschereccie, le ferrovie, i ponti e tante indispensabili cose inerenti alla razionale utilizzazione dei prodotti boschivi. Gli attrezzi adoperati dagli accettaiuoli si riducono a due mannaie ben acciaiate e pesanti, uno zappino e della corda per i cosiddetti boschieri. Il lavoro è diviso in maniera che agli accettaiuoli tocca l’atterramento degli alberi, la diramatura e la sbozzatura dei tronchi, ed ai boschieri la costruzione delle risine, delle strade, e la smacchiatura col mezzo dei bovi dei tronchi dai luoghi più difficili. Seguono quindi i carbonai, i quali, preparata la legna, e composta la carbonaia, vi appiccano il fuoco col metodo tedesco, vale a dire dal di sopra. I macchinisti, fuochisti, segatori ed allievi sono pure giovini del paese che appresero dai Veneti il mestiere che oggi procaccia loro un sicuro pane. Questi operai meritano lode, perché intelligenti, probi e laboriosi, ma potrebber viver meglio ed assicurarsi una vita migliore nella vecchiaia, sagrificando un po’ quelle numerose feste”. Detto dei bovi, dei somari, degli asini che venivano impiegati per gli spostamenti del legname e del carbone, spicca il dato delle 700 o 800 “povere contadine” occupate per il trasporto della legna da ardere e ancora del carbone, per il loro consumo famigliare o per la vendita e per un guadagno giornaliero che oscillava tra i 50 e i 70 centesimi. Un quadro, è appena il caso di sottolinearlo, che nell’asciuttezza di questi dati lascia intravedere lo squarcio di una difficile realtà sociale.

Alberi maestri, antenne, travi e tavole 

Lasciamo ancora la parola a Lunardoni per la conclusiva e densa analisi della presenza delle segherie nel territorio delle Serre, una rassegna puntuale, meticolosa, che costituisce un sintetico capitolo di storia di archeologia industriale e di economia di questa montagna: “Le lavorazioni al bosco cominciano di solito alla metà di ottobre e fanno sosta nei mesi di gennaio e febbraio causa la neve, per ricominciare poi in marzo e terminare in aprile. La fabbricazione del carbone si continua tutto l’anno, eccettuati i mesi di gran neve. Sotto il cessato Governo borbonico i prodotti dei boschi di cui parliamo servivano esclusivamente agli Stabilimenti metallurgici di Mongiana e Ferdinandea, ed ai bisogni della Real Marina. Ora le cose si sono completamente mutate ed il legname viene sotto forma di alberi maestri, antenne, travi, tavole, tavoloni, ed altri assortimenti, ecc., messo in commercio. Le segherie a vapore impiantate dalla ditta Arbey di Parigi, sono tre, cioè: Santa Maria, Assi ed Archiforo. La prima conta due macchine a vapore, della forza di 16 cavalli l’una e moventi otto telai, due a più lame e sei ad una sola lama, più due seghe circolari; la seconda possiede una sola macchina di 18 cavalli di forza che mette in attività cinque telai ad una lama ed una sega circolare. La terza per ora inattiva ha una macchina a vapore con quattro telai ed una sega circolare. La segheria a vapore di Mangiatorella, posta sulla strada nazionale che mena a Monasterace con un ramo a Ferdinandea, Mongiana e Serra S. Bruno coi due altri, è di recentissima costruzione e consta di una macchina a vapore di 16 cavalli, di un telaio a più lame costruito nella fonderia di Mongiana e di uno ad una lama sistema Arbey. A S. Maria si lavora quasi esclusivamente l’abeto proveniente dal vicinissimo bosco del medesimo nome. In Assi si sega principalmente faggio, ma anche gli aceri, i pioppi, i carpini e le roveri dei boschi vicini; a Mangiatorella solo faggio. Santa Maria, comprese le tre seghe idrauliche, lavora circa 1000 metri cubi di abeto il mese, Assi fa 25000 tavole (corrispondenti a circa 500 m. c.) e Mangiatorella circa 17000. A questo bisogna aggiungere: 1º una sega idraulica a ruota tangenziale, movente due telai, costruita recentemente in mezzo all’Abetina e che funziona molto bene; 2° due seghe pure idrauliche a sistema calabrese che fanno corpo collo Stabilimento di S. Maria; 3° una sega idraulica pure calabrese e che fa comodamente 40000 tavole l’anno posta in fondo la valle d’Assi, luogo destinato a dar nascimento ad una grandiosa segheria idraulica, appena sarà fatta od in costruzione la strada per Guardavalle; 4° tre altre seghe idrauliche, due a sistema veneto ed una a sistema calabrese a Ferdinandea, producenti da 90000 a 100000 tavole l’anno. Anche in Ferdinandea l’amministrazione fece fare gli studi per costruirvi una gran segheria idraulica a turbina orizzontale con telai a più lame. Questa tendenza all’eliminazione delle segherie a vapore trova la sua ragione nell’economia, poiché la manutenzione e l’ammortizzazione del capitale eguaglia l’ammontare del costo di produzione. Dal faggio si confezionano tavoloni per usi diversi, tavole destinate alla fabbricazione delle casse per gli agrumi, bastoncini da sedie ad uso Vienna e ad uso calabrese, dogarelle segaticcie, fogliette per scatole da sigari, ecc. […]. I cimali e rami di diametro inferiore ai 18 cm. e che prima si utilizzavano per far carbone, vengono oggi ridotti a bastoni da sedie, ma più specialmente a dogarelle segaticcie ricercate per la fabbricazione dei barili da merci asciutte. In questa maniera nulla va perduto del legname del faggio, perché quello che non dà tavole commerciali dà dogarelle segaticcie o bastoni da sedie. Dai rami minuti si fa carbone ed i ramoscelli, che bruciati assieme al legno guasto potrebbero dar la potassa, restano a fertilizzare il terreno. La segatura e le scorze vengono utilizzate come combustibili per le macchine a vapore e pei bisogni degli operai. La fabbricazione delle fogliette per le scatole da sigari, delle dogarelle spaccaticcie, degli stacci ecc., sono industrie secondarie e che l’Amministrazione degli Stabilimenti e boschi della Mongiana esercita solo in via eccezionale, vale a dire quando capitano fra mano tronchi fessili diritti e belli. In S. Maria si appronta tavolame d’abeto di ogni assortimento commerciale, alberi maestri, travi, antenne, pilotti, bordonali, ponticelli, palancole, morali, moraletti, ecc. Onde utilizzare i cimali, che non si possono vendere per pali da telegrafo o per usi agricoli, nonché i ritagli, è intenzione di quell’Amministrazione di fornirsi di una macchina per la fabbricazione degli stecchetti da zolfini. La segatura, che non potrà venir impiegata come combustibile per le macchine a vapore, verrà d’ora in avanti portata sul mercato di Napoli per venderla a L. 7,00 il quintale. Così nulla andrà perduto. La produzione attuale di tutte le segherie nominate ammonta a circa 600,000 tavole di faggio, a parecchie centinaia di migliaia di dogarelle segaticcie e bastoni da sedia uso Vienna ed a 12,000 m. c. di materiale assortito di abeto. Le faggete calabresi devono la loro invidiabile rendita alla produzione d’agrumi della vicina isola di Sicilia. Il faggio, che negli altri paesi non somministra che dal 5 al 10 per cento di legname da opera, in Calabria dà dal 60 al 70. In Slavonia ed in molti altri paesi, ove la legna da focaggio non fa difetto, è facile comprare il faggio in piedi a 3,00 lire il m. c., ma in Calabria può rendere da 16 a 18 ed anche a 20 lire il m. c., a seconda della località. Questa anomalia commerciale non è solo data dalla posizione di quei boschi riguardo allo smaltimento, ma anche dalle proprietà tecniche del legno, perché se ciò non fosse i prodotti slavi vi farebbero la concorrenza come la fanno colle tavolette da tramezzo. Il faggio cresciuto su terreno calcare ha struttura jalina e spacca quando un altro corpo come per esempio un chiodo, cerca penetrare nel suo interno. Il faggio calabrese invece, cresciuto su terreno granitico in disgregazione e grasso, è più spugnoso e non spacca quando s’inchioda. Ecco ove risiede la fortuna di quei boschi. Tutto il tavolame di faggio vien imbarcato a Pizzo, Soverato e Monasterace e portato a Palermo o Messina, ove se ne adopera in grandissima quantità per fare casse da spedire agrumi. Quando penso ai molti milioni (circa trenta) di lire che l’Italia manda all’estero per legnami da costruzione e da opera ed allo smercio relativamente ristretto dell’abeto calabrese, dovrei concludere che noi non conosciamo i nostri prodotti”. E con un elogio dell’abete calabrese, di cui non taceva anche i difetti, Lunardoni chiudeva le osservazioni del suo viaggio da Monasterace a Serra, perché se erano vere le difficoltà di lavorazione con la pialla di questa essenza arborea, altrettanto vero era che l’abete calabrese, per la sua maggiore elasticità e durevolezza, era da preferire a quello austriaco per le intelaiature di finestre, porte, pavimenti, casse per la spedizione di merci asciutte. Né era da considerare un “difetto costante” il fatto che l’abete di Calabria si scurisse con facilità, “perché se il soggetto da cui si trae il tavolame, non è stravecchio il legno si mostra d’un bel bianco paglierino, per nulla inferiore a quello degli altri abeti provenienti dall’estero”. E migliore dell’abete delle Alpi e dell’Appennino medio si rivelava la pianta calabrese per il “materiale tondo” (alberi maestri, antenne, ecc.), tanto che in qualche caso la sua conservazione persino in durature condizioni ambientali difficili era così perfetta e compatta da “maravigliare”. 2/fine

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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