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Per una rubrica che si intitola “Nuvole” parlare di carbonaie è come essere invitati a un pranzo di gala. È vero che le nuvole (nembi, cirri, cumuli, strati e le loro articolate combinazioni) sono “creature” essenzialmente celesti, ma non per questo bisogna dimenticare che ne esistono pure di terrestri e che da queste derivano anche non banali effetti visivi. Ogni cosa, nell’universo delle carbonaie, sembra, infatti, evaporare tra le nebbie e le nuvole che la combustione produce e gli uomini paiono trasformarsi in ectoplasmi, ombre evanescenti delle quali, talvolta, si intravedono appena i contorni. Le nuvole delle carbonaie sono nuvole “terrestri” che rinviano, per associazione, pure ad ambiti diversi della storia d’Europa – si pensi alle ciminiere della società industriale – e che fanno anche comprendere come le nuvole, piuttosto che essere soltanto vaporose formazioni celesti e “astratte”, spesso richiamano l’uomo alla propria realtà, alla “prosa” della vita quotidiana, considerato che ciò che l’uomo manda in cielo attraverso la produzione di “vapori” gli viene poi inevitabilmente restituito sotto varie (e non sempre benevole) forme.
Carbonai tra Professione reporter e Striscia la notizia
E così ben radicata da tempi remoti è la presenza delle carbonaie nel territorio delle Serre e talmente oggi visibile la loro rappresentazione mediatica che desta non poca sorpresa la circostanza che il sacerdote Bruno Maria Tedeschi, nella sua ottocentesca “monografia erudita” su Serra e i paesi del circondario, abbia sottovalutato il fenomeno a tal punto da omettere di citare i carbonai nel paragrafo dedicato ai mestieri, accanto a falegnami, ferrai, armieri, scalpellini, fonditori, tintori, mugnai e alle numerose altre categorie richiamate nel suo testo. Vero è che il medesimo Tedeschi, nella breve sezione sulle “malattie dominanti” a Serra, non manca di ricordare i pericoli a cui andavano incontro i carbonai, così come i fabbri e i “legnajuoli”, soggetti, per gli sbalzi atmosferici e per il clima gelido, a pleuriti e a “forti raffreddori, sovente letali”, ma non aver riconosciuto la dignità di mestiere al loro lavoro sembra un fatto meritevole di segnalazione. E forse si sarebbe pentito della sua omissione il Tedeschi se avesse potuto assistere all’attuale attenzione non episodica dei mezzi di comunicazione di massa, già a partire da una puntata di Professione reporter di Milena Gabanelli su Rai Tre nel novembre 1996, nella quale, nella suggestione del bianco e nero e grazie alla “freschezza” di una telecamera portatile (la Video8), i volti dei carbonai delle Serre si proposero a un pubblico vasto nell’inattualità della loro faticosa esistenza. Per proseguire con un reportage di Ettore Mo (Serra San Bruno, terra di carbonai e clausura, “Corriere della Sera”, 8 ottobre 2002) e con le tante trasmissioni televisive (da La giostra della domenica di Rai International a Sereno Variabile di Rai Due e persino a Striscia la notizia) che hanno proposto l’universo delle carbonaie di Serra San Bruno come passaggio obbligato per la conoscenza del luogo in cui esse si trovano, quasi come suo fattore d’identità, contrassegnato dai caratteri della “tipicità”. Per non dire delle “prove” di diverso tipo, come l’importante ricerca fotografica di Bruno Tripodi, il film Le quattro volte di Michelangelo Frammartino o il cortometraggio Fuliggine del giovane regista serrese Domenico Pisani, che propongono materiali di riflessione e conoscenza di suggestivo impatto visivo e, da ultimo, il documentario pubblicato sul sito del New Yorker il 21 agosto 2024 in cui si racconta la storia del giovane immigrato Fofana e della sua esperienza di lavoro nella carbonaia.
Come architetture bizantine
E certamente entrare in contatto con una carbonaia vuol dire compiere un’esperienza singolare, oltre i confini del consueto e della quotidianità. Un lavoro che è costituito di fasi e momenti che sanno l’importanza del tempo nella storia degli uomini e che sembrano quasi una figurazione esemplare di quella lentezza tanto spesso invocata per contrasto con i ritmi rapidi della contemporaneità, come conquista di un diverso modo di esperire gli spazi e la temporalità. Il primo momento è la sistemazione della legna - quattro o cinquecento quintali di elce o di faggio - che viene sovrapposta a formare una cupola (in calabrese scarazzu), all’interno della quale si realizza un fornello centrale per l’alimentazione della carbonaia. Quindi la cupola si ricopre con paglia e terriccio, avendo cura di lasciare tutt’intorno numerosi fori di sfiato (gattuni), prima di procedere all’accensione. Il “metabolismo” della carbonaia ha bisogno di essere sostenuto con un continuo nutrimento e non a caso la fase successiva è chiamata, con una metafora alimentare facilmente comprensibile anche nella sua declinazione dialettale, la civatura. È questo uno degli aspetti essenziali del lungo “dialogo” tra il carbonaio e la sua creatura, un rapporto di quotidiana consuetudine che si conclude solo alla fine di un periodo che può oscillare da venti a venticinque giorni. A questo punto il processo di metamorfosi è completato. La cupola di legno è diventata altro, una nera volta di carbone che può richiamare l’immagine poetica di un’architettura bizantina. Adesso, può avere inizio la scopertura della cupola e la conseguente scarbonatura. Il carbone ottenuto viene insaccato e spedito lontano dalla Calabria, soprattutto in Sardegna e nell’Italia settentrionale.
E se rinunciassimo alla “scoperta” degli “ultimi carbonai”?
Ma non ci sono soltanto i ritmi della carbonaia, c’è pure un’autentica epifania di volti e corpi che ne accompagna l’evoluzione lungo il tempo lento della lavorazione. Momenti di un antico cerimoniale, fatto di gesti posati, quasi rituali: una mano che stringe una fascina di paglia, un’altra che procede all’imboccatura dello scarazzu con nuovo materiale, un’altra ancora che riempie sapientemente i sacchi. E poi i berretti di lana calcati sugli occhi quasi a proteggere i carbonai dal nerofumo; un attimo di pausa o di esplorazione del mondo circostante trascorso in cima allo scarazzu nella perlustrazione dell’orizzonte; il carbone che intride la pelle, la impregna, si diffonde a formare ramificazioni e sentieri che si intrecciano con quelli naturalmente presenti sulla superficie corporea. E così i palmi delle mani sembrano quasi trasformarsi in mappe sulle quali sia incisa la cartografia dell’anima: i solchi profondi delle linee, alle quali la tradizione esoterica pretenderebbe di attribuire vaticini del futuro, detengono la memoria del passato, portano i segni della fatica quotidiana prolungata per mesi e anni. Forse inevitabili le domande. Come fanno a sopravvivere le carbonaie nell’epoca del riscaldamento centralizzato, regolato con display digitali, programmato con precisione nell’ora e nel minuto della desiderata accensione? Come conciliare le mani e le facce sporche di nerofumo dei carbonai, a contatto con la materialità del legno e della terra, con le attuali modalità di lavoro che sembrano essere mediate soltanto dal brulichio inodore dei pixel ed essere diventate pressoché del tutto immateriali? Da qui, probabilmente, da questa inattualità delle carbonaie, anche il loro interesse mediatico, un interesse, tuttavia, che qualche problema lo pone e in primo luogo il rischio di confinare i carbonai in una “ridotta” sotto l’insegna dell’esotismo, quasi fossero un’enclave etnica, un piccolo popolo residuale da osservare prima del suo definitivo “tramonto”. E non altro dicono quei titoli che evocano gli “ultimi carbonai”, quelle spedizioni turistiche sulle loro tracce, quegli atteggiamenti di “scoperta” di un’umanità ritenuta forse contrassegnata da uno stigma di eccentricità, come fosse costituita da adepti di qualche setta seguace di filosofie dell’anti-modernità, portatori di una nostalgica rinuncia al progresso. Tanto che si viene a costituire, non si sa quanto volutamente, un oggetto culturale da offrire, preferibilmente nella stagione estiva, a una folla di curiosi, di turisti del naturalismo prêt-à-porter, che scoprono l’Africa in giardino, “tra l’oleandro e il baobab” e senza nemmeno considerare che, in questo caso, non si propongono all’osservazione soltanto luoghi e cose, ma persone. Una modesta proposta, infine: sarebbe chiedere troppo sperare, almeno, di non leggere ancora titoli sugli “ultimi carbonai” (del tutto analoghi, in questa concezione, all’ultimo Mohicano da snidare)? Rinunciare a considerare i carbonai “beni culturali viventi”, per come si è espresso, alla lettera, un conduttore televisivo, all’evidenza felicemente ignaro della circostanza che nessuna persona, qualunque cosa faccia, è un “bene culturale” di qualsiasi tipo? Porsi la domanda, quando si organizzano spedizioni di gruppo “alla scoperta di…”, del giudizio che daremmo se questi simpatici tour fossero preparati pure per altre “categorie” di persone e se, rovesciando la prospettiva, gli “osservatori” (dei carbonai) dovessero diventare “osservati”?
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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