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Si intitola Calabria nostra. Testi di autori calabresi, testi varii sulla regione raccolti e presentati per gli alunni della scuola media della Calabria (Bietti, 1969) ed è la seconda “nuvola di carta”, anche questa per la scuola, dentro la quale vorremmo far navigare il lettore, un volume, con uno straordinario disegno di donna calabrese di Ernesto Treccani posto in copertina, con cui, peraltro, gli scolari di qualche generazione addietro potrebbero avere una certa familiarità, se è vero che in diverse scuole (è il caso anche della Scuola media di Serra negli anni Settanta del secolo scorso) venne introdotto come libro di testo e che, per qualcuno, potrebbe persino rappresentare un viaggio nella propria memoria, nella dimensione del ricordo, nel recupero, tramite le sue pagine, dell’odore di aule e banchi ormai lontani. Una specie di madeleine, insomma.
Uno scrittore della memoria e del dolore
Ancora un libro di testo, dunque, dopo La Calabria. Libro sussidiario di cultura regionale (Carabba, 1926) di Corrado Alvaro (di cui “Il Vizzarro” ha già dato conto), ancora pagine di antologia, con una certa predilezione per la cultura folklorica (miti, fiabe, canti e racconti popolari, figure e personaggi dell’immaginario collettivo) e con l’intento dichiarato di far conoscere gli scrittori calabresi, “siano essi viventi oppure morti, ma non così da tanto che tuttora qualcuno, a casa o fuori, non ne parli almeno per sentito dire”. E alla cerchia degli scrittori calabresi apparteneva, a pieno titolo, il curatore del volume, Domenico Zappone (Palmi, 19 giugno 1911- 5 novembre 1976), al quale non sarebbero tra l’altro mancate, come si ricava dal profilo che ha proposto Santino Salerno per il Dizionario biografico della Calabria contemporanea dell’ICSAIC, le attenzioni e la stima di Leonardo Sciascia: «Caro Zappone, ho già avuto il tuo primo articolo del viaggio in Calabria. Bello: e ho ritrovato immagini dei miei lunghi soggiorni messinesi. Aspetto gli altri. E aspetto qualche tua cosa per “Galleria”… Grazie e con molti auguri un abbraccio dal tuo Leonardo Sciascia». Uno scrittore soprattutto di scritture brevi Zappone, di racconti, di testi che si esauriscono nello spazio di poche pagine, di cronache per i numerosi giornali a cui prestava la propria collaborazione, debitore, lo sottolinea ancora Salerno, della lezione alvariana: “La sua scrittura svaria manifestando qua e là qualche debito di onesta assimilazione da Pavese, da Hemingway, da Steinbeck e dal primo Giuseppe Berto, ma è Corrado Alvaro che lo seduce fino ad assimilarne gli stilemi, i registri narrativi ma, soprattutto, facendo proprio il culto alvariano della memoria e delle memorie, del tempo innocente e perduto «in cui l’uomo credeva alle favole e aveva altro cuore»”. Anch’egli, come tanti altri scrittori calabresi, tenacemente legato a un luogo, nel suo caso Palmi, da dove proveniva e a cui aveva fatto ritorno dopo una non felicissima esperienza romana, che avrebbe avuto per lui una funzione del tutto analoga alla Bovalino di Mario La Cava o alla Serra San Bruno di Sharo Gambino, una radice difficile da rescindere. Ed è proprio Sharo Gambino, che ebbe modo di approfondire la conoscenza di Zappone anche nella dimensione amicale, nella Presentazione al volume postumo Il mio amico Hemingway e altri racconti (Frama Sud, 1984) a fissarlo come “scrittore della memoria e del dolore”, che intese la “calabresità” come dovere di far conoscere innanzitutto ai calabresi la loro terra e il suo spirito. Da qui l’aggettivo possessivo del titolo di questa antologia per le scuole, quel “nostra” non casuale, pregnante, posto lì per segnalare il rapporto tra lo scrittore e il suo mondo, ma pure la condivisione che cercava con i suoi giovanissimi lettori ai quali il libro era destinato.
Una terra di incanti e magie
Il culto alvariano del tempo innocente in cui l’uomo credeva alle favole, scrive, come abbiamo sopra riportato, Santino Salerno per tracciare un’istantanea dell’universo letterario di Zappone. Inevitabile, perciò, la fascinazione per il fiabesco e per il meraviglioso che attraversa Calabria nostra. Si veda, per averne un esempio paradigmatico, la figura folkorica del folletto (‘u monachieddu, foto in basso) a cui Zappone dedica alcune pagine tratte da un testo di Raffaele Pingitore. “Dio delle case di Calabria”, divinità domestica bizzarra, dalla barba e dai capelli bianchi, gli occhi celesti e il vestito rosso o azzurro, dalla personalità doppia, dispettosa o amorevole: “Buono o cattivo, provvidenziale o vendicativo, fa traboccare la pasta del pane o stappa le damigiane del vino nuovo. Guai però a dubitare del suo straordinario potere o a scorrucciarlo, perché allora, per ripicco, annulla ogni prodigio, come fa con l’olio fatto fuoriuscire dalla giara, allorché intuisce che la sua beneficata è appena titubante”. Sembra quasi il nume tutelare di queste pagine il folletto, colui che incarna, nascosto sotto la scala o sotto il moggio, lo spirito stesso dell’autore, che sembra guardare alla sua leggerezza sfuggente per rappresentare, per il tramite di molti brani scelti, questa terra. Una terra di incanti e di magie, in cui difficili prove da superare, restrizioni rituali, rendono difficile l’accesso ai tesori che conserva, come nella leggenda della chioccia di Nicastro, tipica delle tradizioni plutoniche ben documentate anche in altre aree quali la Sicilia. Qui una chioccia con dodici pulcini d’oro è tenuta prigioniera da una maga “su al Castello” e bisogna superare ostacoli dietro ostacoli perché il tesoro, intatto, venga catturato. Solo allora “il macigno perderà a poco a poco la durezza, si sfalderà, si schiuderà, e ne verrà fuori la chioccia coi pulcini in fila che fanno pio pio. […] Saranno d’oro zecchino, con gli occhi di rubini, il becco di diamante, le zampe di corallo. Appresso al vittorioso in groppa al cavallo, entreranno in città tra evviva e battimani”. Ma non ci sono soltanto il patrimonio leggendario e il “favoloso” ad arricchire, nelle pagine di Zappone, la costellazione folklorica calabrese, come si vede nel caso della festa agraria dei fuochi di San Nicola a Spadola: “Gli abitanti di Spadola, un grazioso paesino sull’altipiano delle Serre, hanno sempre ringraziato il cielo per l’abbondanza dei raccolti, fabbricando grandi pupazzi di paglia di grano – i santoni - oppure innalzando delle croci, pur esse della stessa paglia. Alla fine di luglio, quando il primo rintocco della campana del vespero annunzia l’inizio della novena al patrono, che è san Nicola Vescovo, come annotta santoni e croci vengono bruciati sulle aie o al centro dei campi gialli di stoppie: naturalmente più grosso è il santone o più alta è la croce, più ricco è stato il raccolto e più vivo il sentimento di gratitudine espresso dalle fiamme. E mentre centinaia di fuochi illuminano la notte d’estate, gli anziani, attorno ad essi, sollevano il bicchiere e i ragazzini, vorticando, inneggiano al Santo delle messi”. Certo, poi, c’è molto altro rispetto alle culture popolari, al fiabesco, all’incanto ricercato nelle figure e nelle leggende folkloriche (c’è la Calabria dell’arte, di alcuni suoi passaggi storici nodali, di figure quali Francesco di Paola), ma, forse perché destinato a un’età al passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, sembra essere quello il mood prevalente del libro, la chiave in grado di aprirne i “segreti”.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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