Lunedì, 29 Maggio 2023 09:02

Il viaggio di De Martino nel «piccolo Gange» di Serra San Bruno

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Una delle foto di Franco Pinna pubblicate sull'Espresso Mese a corredo dell'articolo di De Martino (tratto da ernestodemartino.it) Una delle foto di Franco Pinna pubblicate sull'Espresso Mese a corredo dell'articolo di De Martino (tratto da ernestodemartino.it)

Era stato un anno di intensa collaborazione all’Espresso Mese il 1960 per Ernesto De Martino (Napoli, 1908 – Roma, 1965), con una serie di interventi che tra maggio e novembre avevano fatto il punto su alcuni importanti temi al centro dei suoi studi di etnologia: un lungo articolo dedicato al fenomeno del tarantismo salentino su cui l’anno successivo sarebbe uscito La terra del rimorso (Il Saggiatore, 1961), un’indagine sulle cerimonie della mietitura in Lucania (altra area di elezione delle sue ricerche, come il Salento), un ironico contributo su una “seconda apparizione” dell’arcangelo Michele sul Gargano, questa volta in forma di visitatore apostolico giunto per operare, secondo il linguaggio dei giornali del tempo, una “ripulitina” e una “lubrificazione” in quella San Giovanni Rotondo in cui era sorta la Casa sollievo della sofferenza e Padre Pio era, insieme, oggetto di culto e di polemiche per via delle stimmate e delle “bende intrise di sangue miracoloso”. In questo contesto di ricerche sul Meridione la Calabria faceva il proprio ingresso con un articolo – Purificazione di giugno. Nel piccolo Gange di Serra San Bruno – scaturito da un’osservazione etnografica che De Martino aveva condotto, con il fondamentale apporto di Franco Pinna per le fotografie, in occasione della Pentecoste serrese, sulle tracce dei riti di guarigione degli spirdàti

Il piccolo Gange di Serra San Bruno

Il “piccolo Gange”, richiamato nel titolo dell’articolo, altro non era che il laghetto di penitenza a Santa Maria del Bosco nel quale San Bruno, secondo una tradizione locale e come rammentava la scultura in pietra collocata nell’acqua, macerava le sue carni pure in inverno tra la neve e il ghiaccio, anche se il realismo “troppo rozzo e ingenuo” della statua “immersa sino alla cintola” sembrava evocare, per De Martino, “l’immagine di un bizzarro signore che passeggia in una piscina”. E il grande etnologo individuava, senza incertezze, gli elementi di “scenario” fondamentali nel rito di liberazione degli indemoniati: l’acqua del laghetto, appunto, in cui gli spirdàti erano immersi per essere sottoposti all’esorcismo liberatore, il bosco, la grotta “in cui si vede S. Bruno sdraiato in una posizione molto scomoda con la testa appoggiata nel palmo della mano e il gomito su un teschio a sua volta appoggiato su una pietra”. I tre elementi, sottolineava De Martino in maniera lapidaria, si richiamavano a “precedenti pagani”, con un’affermazione certamente fondata, se è vero che anche in Calabria tali elementi implicavano un sottofondo folklorico che parla di essi come luoghi potenzialmente malefici, sedi di spiriti, ricoveri per le apparizioni delle anime dei morti, ma che, nel medesimo tempo, poteva rischiare di apparire riduttiva poiché trascurava le circostanze desu­mibili dall’ambiente storico, rimasto, peraltro, escluso dalle rapide annotazioni del celebre etnologo. È, per esempio, sicuramente vero che il bosco rinvia ad antichi culti di alberi e foreste, non del tutto estirpati nemmeno con l’avvento del cristianesimo, però è altrettanto vero che il bosco che fa da sfondo al rito di guarigione degli spirdàti è il bo­sco scelto da un monaco dell’XI secolo, un bosco che rappresentava la “traduzione” del deserto che in Oriente aveva accolto gli antichi Padri, diventato nel Medioevo deserto-foresta, deserto-selva, luogo di Esodo e terra di esilio in cui Bruno e i suoi compagni si erano ritirati per realizzare la fuga mundi. Sta di fatto che l’interesse di De Martino si concentrava (ed era probabilmente inevitabile che così fosse) sui fenomeni di possessione di cui Santa Maria del Bosco costituiva lo scenario e sul ruolo che nelle guarigioni ricopriva San Bruno: “Ma la potenza taumaturgica di S. Bruno ha un suo proprio campo elettivo, quello delle guarigioni dalla possessione diabolica. Soprattutto in passato il tranquillo laghetto […] è stato più volte testimone di clamorose scene di possessioni e di esorcismi. Gli ossessi, giunti al lago, se erano veramente ossessi (o ‘spiritati’, come si dice in Calabria) si spogliavano con frenetica rapidità, al punto che i vestiti sembravano strappati dal vento; un parente o un carabiniere erano lì pronti a coprire con un lenzuolo le nudità dello spiritato (o della spiritata), dopo di che avveniva il salto in acqua, e lo spiritato diguazzava nel laghetto santificato da S. Bruno e dalle sue penitenze”. La sintetica descrizione del rito costituiva la premessa per un passo ulteriore che De Martino faceva compiere alla sua analisi, quasi certificando un profondo mutamento che era intervenuto.

L’eclissi di un rito di possessione e guarigione

“Da alcuni anni - riprendeva l’etnologo - i casi di possessione si vanno facendo sem­pre più rari, e il diabolico spogliarello non sembra si compia più: tutto si riduce a un casto pediluvio di pellegrini, o a un lavaggio delle mani e della faccia nelle acque salutari, ad un umettarsi il corpo, soprattutto le giunture, sollevando verecondamente di poco le gonne o passando la mano bagnata al di sopra dei vestiti: proprio nulla di sensazionale. Questo mutamento del costume è stato senza dub­bio agevolato dalla crescente resistenza del clero ad accogliere per reali i casi di possessione diabo­lica: gli ossessi che si presentano alla Certosa non trovano ormai l’accoglienza credula d’un tempo, e addirittura qualche certosino non esita a ricorrere a un linguaggio duro per scoraggiare gli spiritati”. Come De Martino scriveva subito dopo, ciò a cui si stava assistendo, dopo una durata plurisecolare del fenomeno della possessione degli spirdàti e della successiva purificazione mediante l’immersione in acqua e l’esorcismo risanatore, altro non era che la “decadenza del diavolo a Serra San Bruno”. Alcune considerazioni sembrano opportune per un più adeguato inquadramento dell’importante contributo demartiniano (ripubblicato a due anni di distanza dalla sua uscita su L’Espresso Mese in Furore simbolo valore, Il Saggiatore, 1962, con nuova edizione nel 2020). Infatti, c’è da ritenere che De Martino, pur nella corretta individuazione del generale mutamento di menta­lità da parte del clero, sopravvalutasse il ruolo avuto dalla Certosa, che si era sensibilmente trasfor­mato, almeno a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo e che neppure in tale epoca si poteva descrivere secondo uno schema uniforme, giacché, come si può rilevare dalla documentazione coeva, oscillava tra un sostanziale scetticismo e l’accoglimento delle guarigioni miracolose, in un periodo di seconda ripresa dell’osservanza certosina in Calabria foriero di diversi accadimenti “prodigiosi”. Oltretutto, il rito calabrese di guarigione degli spirdàti era solo parzialmente riconducibile negli orizzonti del tradizio­nale esorcismo cattolico, poiché la presenza dei guaritori popolari (celeberrimi, a Serra, Roccuzzo e Giannino) ne aveva mutato modalità e caratteri. La stessa prospettiva interpretativa adottata da De Martino, di una “crisi della teologia cattolica in fatto di possessione” in conseguenza degli sviluppi della moderna psichiatria, non appare interamente applicabile a un rito che si svolse an­che al di fuori del controllo ecclesiastico, anzi, nel XX secolo, di fatto al di fuori di tale controllo, considerato che i suoi officianti, in occasione della Pentecoste, erano i guaritori popolari e che il rituale seguito poco aveva da spartire con l’esorcismo canonico (dalle formule verbali utilizzate alle battiture o ancora al dialogo tra il guaritore e lo “spirito” sulla “via d’uscita” dal corpo). Rimane, invece, incontestabile la constatazione del radicale mutamento che si era verificato e che attestava la crisi di un rito per oltre quattro secoli molto vivo (il suo primo riscontro documentale risale al 1522 con l’episodio della “figlia di Garetto Scopacasa” di Simbario) e che la stessa letteratura agiografica su San Bruno si era incaricata di fissare e tramandare.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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