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Le reliquie sono, alla lettera, ciò che resta di qualcosa, con alcuni slittamenti di significato collegati a quel “qualcosa”. Infatti, se nell’antichità tali “resti”, pur designando certamente le “spoglie mortali”, indicavano anche gli avanzi di un banchetto o di un pasto, le rovine di una città o quel che rimaneva di oggetti, nel cristianesimo per reliquia si intenderà ciò che rimane di un santo dopo la sua morte e tale nome sarà applicato sia al corpo intero sia alle sue parti. Accanto ai resti dei corpi, saranno pure venerati gli strumenti di supplizio per i martiri, l’olio delle lampade accese davanti ai corpi santi, i cosiddetti brandea entrati in contatto con le loro tombe o appesi nella cripta o poggiati sui loro resti e, persino, la polvere raccolta nei loculi, i vestiti o altri oggetti a loro appartenuti, i frammenti, più o meno consistenti, asportati dai luoghi teatro della loro vita o dei miracoli o di altre loro azioni significative. Insomma, una notevole varietà di “resti”, alla quale corrisponderà la varietà dei nomi utilizzati per designare le reliquie (cineres, exuviae, insignia, lipsana, patrocinia oppure pignora sanctorum, per limitarci ad alcuni esempi). In questa vicenda plurisecolare, Serra e la Certosa ricoprono un ruolo da segnalare, non solo per il busto reliquiario di San Bruno e per le reliquie della sua calotta orbitale che vi sono contenute e non solo per le altre reliquie che tuttora sono conservate nel monastero, ma pure per un importante manufatto, oggi visibile nella chiesa Matrice, donato, secondo tre differenti ipotesi, da Adelasia del Vasto (terza moglie di Ruggero d’Altavilla e madre di Ruggero II) o da una delle figlie del Gran Conte o direttamente da quest’ultimo, proprio a Bruno.
Reliquie di Gesù, di Maria Vergine, dei santi
Le incertezze sull’identità del donatore, diversa a seconda delle fonti secondarie che la riportano (da Mons. Andrea Perbenedetti nel 1629 a dom Benedetto Tromby nel XVIII secolo), non sono altro, a ben vedere, che il riflesso dell’impossibilità di verificare le circostanze della donazione nella documentazione dell’XI secolo, considerato che in quella superstite nulla si può riscontrare in merito a tale reliquiario e alle reliquie che vi erano custodite. Di fatto, le prime notizie che si hanno del reliquiario sono molto tarde rispetto all’epoca della supposta donazione, se la sua prima descrizione risale alla cinquecentesca Platea di S. Stefano del Bosco, stilata negli anni Trenta del XVI secolo. Le reliquie erano collocate in un altare della chiesa conventuale, sistemate dentro un tabernacolo di legno nella sua parte posteriore, protetto da vetri nella parte anteriore e custodito con la massima venerazione. Si trattava di reliquie di numerosi santi, perlopiù riconducibili a modelli di vita ascetica, ma anche di pignora direttamente collegati alla vita e alla passione di Gesù: innanzitutto un pezzo di legno della Croce e una pietruzza del luogo in cui essa fu scoperta da Sant’Elena, ma anche frammenti del sepolcro, della colonna della flagellazione, del luogo in cui Gesù fu battezzato e della cripta in cui digiunò, del Sinai, del Calvario, del monte degli Ulivi, della pietra su cui poggiò i piedi nel momento della Trasfigurazione. Analogamente, il reliquiario conservava reperti riconducibili alla Vergine Maria e a santi vissuti all’epoca di Gesù: frammenti del sepolcro della Vergine e di quello di Lazzaro di Betania, reliquie di Maria di Magdala, di San Giovanni Battista e di suo padre Zaccaria, degli apostoli Andrea, Giacomo, Filippo, Mattia, Bartolomeo, Tommaso, Simone e Giuda. Non mancavano reliquie dei martiri: primo tra tutti S. Stefano a cui la Certosa era intitolata, ma pure i martiri romani Callisto, Giovanni e Paolo, Ippolito e Ciriaco. Ai modelli di vita ascetica erano direttamente riconducibili le reliquie di Sant’Antonio abate, Sant’Aventino eremita, Elia abate, Teodoro Studita, Simone stilita e Didimo martire ed erano presenti anche reperti corporali di papi (il già ricordato Callisto, Felice e Gregorio) e vescovi (Nicola di Mira e Quadrato). Diverse altre tipologie di santità erano rappresentate nel reliquiario: i santi guerrieri (Giorgio e Demetrio), i medici (gli “anargiri” Cosma, Damiano e Pantaleone, Il cui culto è, tra l’altro, ben documentato nel territorio di pertinenza dell’antica Certosa), i dottori della Chiesa (Giovanni Crisostomo, Basilio e Attanasio). Diverse anche le sante, da Santa Tecla ad Agata, Cristina di Bolsena, le martiri Prisca e Artemia, la taumaturga Vittoria. Di alcuni santi erano presenti reliquie del sangue, come nel caso di San Tommaso vescovo, di Santa Tecla, dei santi Bonifacio e Adriano, di San Lorenzo, santo martire a cui è riconosciuta una particolare devozione presso i certosini e al quale è intitolata la Certosa di Padula.
Il reliquiario “riformato”
Reliquie e reliquiario che le conteneva erano certamente tra i tesori più venerabili custoditi dalla Certosa e, in quanto tali, furono ricordati da eruditi e viaggiatori che ebbero modo di occuparsi del monastero calabrese, tra cui Gabriele Barrio nel suo De antiquitate et situ Calabriae (1571) e Giovan Battista Pacichelli nel Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie (1703). Il reliquiario - secondo la descrizione fornita da dom Benedetto Tromby nel XVIII secolo – “teneva circa palmi 7 d’altezza, e largo a proporzione. Tutto stava congegnato di Ebano con più registri di Nicchie sostenuti da due colonnette, ciascuna colle loro basi, e capitelli; maravigliosamente lavorate della stessa materia. In mezzo ad ogni una di esse s’alzava un picciol vasetto col suo coperchiolo d’avorio. E dentro vi stavano colle loro cartelline i nomi delle suddette SS. Reliquie. Alcune però delle medesime stavan chiuse in Teche d’argento, che interziate con arte da capo a fondo in certi vani tra l’una Nicchietta, e l’altre facevano uno spicco graziosissimo. Ma in mezzo, allogato in forma di Croce, un notabilissimo pezzo alla longhezza d’un dito del legno Santissimo, in dove Gesù Salvator nostro offrissi all’Eterno Padre in redenzione del genere Umano, contribuiva mirabilmente a promover la pietà, e la divozione”. Questo reliquiario di ebano e avorio, di provenienza romana e acquistato per la cifra di seimila ducati a dire di Mons. Andrea Perbenedetti, rimase nella sua forma originaria fino al 1736 quando – è ancora Tromby a dirlo – “vennesi alla risoluzione di riformarlo in meglio” e “[...] fecesi per verità più amplo, e magnifico, tutto di rame dorata, fisso nella Cappella della nuova Sacrestia, co’ partimenti per ordine disposti, e coll’aggiunta del Corpo intiero di S. Antioco, e di altre SS. Reliquie”, pur se “[...] non fu sano consiglio il disfarne affatto l’antico”.
E nella Matrice il miracolo della liquefazione del sangue non si verifica più
Il terremoto del febbraio-marzo del 1783 aprì una nuova pagina pure per questa preziosa “macchinetta”, così come per molti altri reperti del patrimonio della Certosa. Trasferito dal monastero, il reliquiario venne portato nella chiesa Matrice di Serra, intitolata a San Biagio, come racconta la Platea della stessa Matrice, dove tuttora è visibile. Le reliquie vennero a trovarsi in una condizione di precarietà, “[...] raccolte in una Cassa, che si teneva incolta, e abbandonata sotto l’Organo”, per quanto le più preziose fossero conservate in sacrestia, chiarisce ulteriormente la Platea. Si rese, perciò, necessaria una loro ricognizione, a cui procedette il 31 maggio 1825, insieme con la ricognizione delle reliquie di San Bruno e Lanuino, il vescovo di Gerace Mons. Giuseppe Pellicano, “dopo essersi servito a suo piacere di quelle che ha voluto...”, rimarca con una nota da cui non è esente un tono polemico il sacerdote estensore della Platea. A tal proposito, rimane certamente da approfondire il problema della discordanza tra l’elenco delle reliquie contenuto nel decreto ottocentesco di Mons. Pellicano e la catalogazione effettuata nel XVI secolo alla riapertura della Certosa e sarebbe certamente utile un confronto “sinottico” di questi due documenti con l’inventario delle reliquie riprodotto da Mons. Andrea Perbenedetti negli atti della sua visita apostolica del 1629. Il decreto del 1825, infatti, contiene diversi nomina sanctorum non registrati nell’elenco cinquecentesco e, tra essi, alcuni anche di epoca relativamente recente, ma, al tempo stesso, non fa menzione di diversi sacri reperti custoditi nel reliquiario finché questo rimase collocato nella chiesa della Certosa. Certo è che nel XVIII secolo - come riferito da Tromby - la raccolta di pignora venne integrata. Non mancò, tuttavia, una certa malizia al sacerdote cronista della Platea della Matrice nel sottolineare come agli interventi di sottrazione di reliquie da parte del vescovo Pellicano fosse da associarsi l’interruzione del prodigio della liquefazione del sangue di Santa Tecla, avvenuta dopo che il presule si era “preso porzione” di questo sangue. Un’osservazione che, se situata nel contesto della più generale vicenda delle reliquie di epoca cristiana, costituisce un’interessante nota da apporre a uno dei più importanti capitoli di tale storia, quello dei furta sacra.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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