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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
C’è da scommettere che se ci fosse stato Sharo Gambino non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione per uno dei suoi magistrali articoli al confine tra la cronaca locale, la storia e l’osservazione etnografica sugli usi e sui “costumi” dei calabresi e dei serresi. Come accadde nel 1959 quando, proprio a proposito del periodo di Ferragosto, una pubblica ordinanza modificò i connotati di alcune feste popolari. E allora, ecco Gambino pronto a intervenire per ragionare da par suo su feste perdute o che rischiavano di perdersi, lesto a perorare il “gusto dei molti” che a quelle feste accorrevano: “Don Luigino, voi mi avete fatto scuola – scrive Gambino – e per rispetto, prima di pigliarmela con qualcuno, vi domando: «Che succede alle feste gemelle di San Rocco e San Gerolamo? C’era letizia a nominarle ed ora vanno calando: la gente si diverte e ‘non risponde’ o vi va scemando l’inventiva? Don Luigino riparate o, fra qualche anno, non sapremo più a quale San Rocco o quale San Gerolamo invitare il forestiero». Se volete, faremo una petizione popolare, chiederemo a Tino, a Civetta, a ‘Mbumba…. che tornino a mangiarsi la pasta pepata con le mani legate dietro la schiena, a fracassare la testa a un gallo avendo gli occhi bendati, a correre nei sacchi, a spaccar pignatte ad occhi chiusi per farne fuggire un atterrito topo, a pescare coi denti una moneta in un’acqua sporca di crusca… Perché così, com’è oggi, il pomeriggio è perduto, e la sera l’ordinanza del Sindaco ci salva gli occhi dalla battaglia di càlia, i ciceris frictis d’oraziana memoria”. Che succede alla festa dell’Assunta, forse si sarà chiesto, oggi, qualcuno, se su quella tradizione secolare ora si innestano altre celebrazioni? E che succede a San Bruno se si fa eccezione alla regola che, da tempo immemorabile, lo vuole fuori dal monastero, con il suo busto d’argento, soltanto due volte l’anno e invece le due volte diventano tre?
Un re inginocchiato davanti al busto di San Bruno
E si potrebbe sbrigativamente rispondere che le regole ci sono e però contemplano delle eccezioni e che le tradizioni – tutte le tradizioni, anche quelle che sembrano più granitiche e immodificabili dal tempo dei tempi – variano, si modificano, conoscono evoluzioni di diverso genere, diventano tante volte molto poco “tradizionali”. E che quel busto argenteo, il busto reliquiario di San Bruno che da ieri e fino al 17 agosto in molti contempleranno o anche soltanto frettolosamente ammireranno dentro la chiesa serrese dell’Addolorata, collocato nel ciborio fanzaghiano proveniente anch’esso dalla Certosa, non è che se ne sia stato sempre in un posto, non è che mai altre volte abbia fatto eccezione alla regola delle due volte fuori dal monastero, ossia solo a Pentecoste e in occasione del 6 ottobre. Intanto, originariamente, nella Certosa cinque-secentesca poi gravemente danneggiata dal terremoto del 1783, il busto non se ne stava nel “posto d’onore”, ovvero nell’altare di Fanzago che occupava il cuore della “scena” della chiesa conventuale, bensì, come scrive Giovanni Battista Pacichelli, che lo vide nel secolo diciassettesimo, “dentro l’altar di Sagrestia, che ha di color diverso nel legno storie immense, portandos’in alto l’Immagine della Nunziata Santissima di Firenze, vedes’in argento di opera vecchia, custodito il capo di quel Santo Patriarca, e sovra in una mano un Dito di Santo Stefano protomartire, e in più luoghi diversi vasi di cristallo e d’avorio colmi di sagre Reliquie”. E poi, dopo il terremoto del XVIII secolo, in tempi di Cassa Sacra e di chiusura del monastero, il busto reliquiario dalla Certosa si mosse e andò a finire per un bel po’ di anni nella chiesa serrese della Matrice, dove lo vide, come racconta Horace Rilliet, il re Ferdinando II di Borbone che era giunto a Serra il 16 ottobre 1852: “Nella chiesa, presso uno scranno preparato per il re, si vede il busto del patrono del luogo e di San Bruno che è morto qui all’inizio del XII secolo. Questi santi portano grandi striscioni di carta con iscrizioni con le quali si raccomandano al ricordo di Sua Maestà: «Sire – si legge in uno – le raccomando questa mia chiesa»; nell’altro: «la mia Certosa». Il busto di San Bruno è d’argento e custodisce la testa del santo; il corpo, a quanto si dice, è seppellito nella Certosa di Serra”. E la Platea della chiesa Matrice aggiunge che il re si era “genuflesso” davanti alla statua di San Bruno, “esposta in Cornu Epistolae, e intese con qualche ammirazione che il Corpo del S. Padre sia fra noi: Come pure lesse le seguenti parole, che si erano affisse di fronte, sotto la statua: Maestà vi raccomando il mio povero Convento”. E qui l’identica sostanza (la “raccomandazione” della Certosa al re), potrebbe lasciare spazio anche per qualche riflessione sulla sensibilmente diversa forma letteraria della “raccomandazione”, con l’indiscutibile certezza che uno dei due (o forse entrambi?), il chirurgo ginevrino Horace Rilliet nel suo “diario” serrese del 1852 o il sacerdote estensore di quella parte della Platea don Domenico Pisani, sia stato infedele nel registrare l’iscrizione che si trovava presso il busto di San Bruno.
Il busto dall’onorato “esiglio” nella Matrice al ritorno in Certosa
Dalla Matrice il busto argenteo fece ritorno in Certosa cinque anni dopo questa visita del Borbone, il 30 maggio 1857, come riporta una cronaca che narra il tentativo di ripristino del monastero a opera di dom Vittore F. Nabantino: “Ai 21 aprile in casa del notajo Tucci in Serra fu fatto l’istromento di cessione delle reliquie di S. Bruno e del B. Lanuino colla statua d’argento del S. Padre. Ivi è detto che il Sindaco e l’Arciprete consegnano le dette reliquie al Priore D. Nabantino e per esso all’ordine certosino per essere trasportate, conservate e venerate nella già ripristinata Real Certosa di S. Stefano, col patto però che se per qualunque causa la Certosa venisse soppressa (quod Deus avertat) dette reliquie dovranno far ritorno al Comune di Serra per essere rimesse come prima nella Chiesa Matrice. […] Si fu ai 30 di Maggio, sabato, che la statua argentea di S. Bruno e la cassa delle reliquie adornata di fiori e di ghirlande fu con solennissima pompa portata da Serra alla Certosa coll’intervento di molte confraternite laicali, di numeroso clero, di una schiera di Uffiziali e soldati del vicino stabilimento di Mongiana, e di gran numero di personaggi distinti, tra cui le autorità amministrative e giudiziarie e specialmente di sua Eccellenza il Vescovo di Squillace, che tenne poscia in Certosa solenne Pontificale, e l’egregio oratore P. Fra Geremia Cosenza da Rocca Scalegna (vescovo di Foggia nel 1872) pronunziò un’elegantissima orazione panegirica in onore di S. Bruno, il quale dopo 50 anni di onorato esiglio, era ritornato a riposare in mezzo ai suoi figli, coll’indivisibile e diletto suo compagno e successore il B. Lanuino. […] Le sante reliquie e la statua di S. Bruno vennero collocate nella Cappella Priorale. Una delle prime cure del Priore D. Vittore Nabantino fu di far costruire
un bellissimo altare di marmo bianco fregiato di intarsiature di altri marmi di diversi colori, in cui fu fatta apposita nicchia ove venne collocata la cassa che contiene le ossa di S. Bruno e del B. Lanuino, e sopra di essa si pose la statua d’argento, nella testa della quale sta racchiuso buona parte del teschio del S.to Padre”. “Onorato esiglio” definisce la cronaca il cinquantennio che il busto trascorse nella Matrice di Serra, prima di un ritorno in Certosa nel 1857 che, però, preludeva a un ulteriore spostamento, questa volta all’interno del monastero: l’ultimo trasferimento del busto argenteo sarebbe stato quello dalla cappella priorale all’altare della chiesa conventuale della Certosa, consacrata il 13 novembre 1900, dove è tuttora conservato e dalla quale si sarebbe spostato, al di fuori delle occasioni “canoniche” di Pentecoste e del 6 ottobre, anche in seguito alle “grazie ricevute” dai serresi in occasione dell’epidemia di scarlattina (1924) e dell’alluvione del 1935 (qui e qui due precedenti articoli del Vizzarro). Da segnalare, nella prima circostanza, come il cronista certosino che annota l’evento non avesse mancato di richiamare i contenuti dell’atto notarile con il quale il Comune di Serra, proprietario delle reliquie di San Bruno, aveva consegnato il busto e i sacri reperti alla Certosa dopo l’onorato esiglio serrese: “Però, siccome nel contratto registrato tra il Comune e la Certosa non si parla che di permettere solo due volte all’anno sia portato il Busto argenteo in processione nel paese, la divozione forse si conserverà meglio di limitarsi a due volte, come sta stipulato”. Laddove si può ben intravedere anche la “dialettica” tra due diversi mondi: il piccolo universo della spiritualità monastica, geloso della propria quiete e della propria esistenza appartata, per il quale gli stessi reperti del sacro (come le reliquie) sono soprattutto qualcosa da venerare nel silenzio e nell’intimità della preghiera, e l’universo dei fedeli, che chiede al santo certamente pure il conforto spirituale, bensì assieme all’intervento, alla protezione, alla guarigione delle malattie, all’esaudimento delle richieste d’intercessione.
Il busto di San Bruno nella cappella priorale della Certosa (fonte: Poliorama pittoresco)
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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