Domenica, 29 Settembre 2024 08:41

La (mancata) fuga dal mondo di Giorgio Boatti nella Certosa

Scritto da Tonino Ceravolo
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La Certosa di Serra San Bruno in una veduta degli inizi del '900 La Certosa di Serra San Bruno in una veduta degli inizi del '900

L’apertura del libro non lascia spazio a equivoci: “Questo viaggio è cominciato ben prima che mi accorgessi di averlo iniziato. Forse perché, nei suoi primi passi, non è stato un viaggio ma una fuga. Fuga da una casa diventata improvvisamente vuota e silenziosa. Fuga da giornate che perdevano luce e non solo perché l’autunno stava scivolando verso l’inizio dell’inverno”. Comincia con queste parole la nostra “nuvola di carta” di settembre Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni (Laterza, 2012) di Giorgio Boatti (giornalista, scrittore, autore di importanti volumi sull’Italia contemporanea), una personale fuga mundi che incrocia, nella pagina successiva, la ben più antica fuga dal mondo di Benedetto da Norcia, che “scappa dagli studi a Roma”, “scappa […] dalla frivolezza di un mondo che […] non vuole guardare la realtà che bussa alle porte” per rifugiarsi allo Speco di Subiaco. Da questa “fuga” di San Benedetto due domande fondamentali, che Boatti si pone: “Chi vuol contribuire a migliorare il mondo perché lo dovrebbe fuggire? Chi cerca la luce perché dovrebbe rifugiarsi nel buio di una grotta?”. E prova a cercare delle risposte attraverso un lungo itinerario nei monasteri italiani, che dal Nord di Bose e di Praglia lo conduce sino all’estremo Sud di Sant’Ilarione di Caulonia, con fermata (inevitabile) anche presso la Certosa di Serra San Bruno, evocata sin dalle primissime pagine quando, immaginando la sua prima sosta nel monastero di Finalpia, Boatti prefigura un torrente in precipitosa discesa dai boschi vicini, “così fitti da essere in totale penombra anche in pieno pomeriggio”, che si materializzeranno, però, proprio nella Certosa calabrese.

Un’irreale costruzione mediatica

Certosa calabrese che, tuttavia, per l’impossibilità a esservi ospitato, sarà osservata un po’ di lato e da lontano – fatta eccezione per la visita ad alcuni ambienti claustrali – soprattutto attraverso l’angolo visuale di qualche libro e del reportage televisivo I solitari di Dio di Enzo Romeo, insomma senza una diretta esperienza della fuga mundi che, invece, in qualche altro monastero gli era stata concessa. Ma pur da questa “distanza”, lo sforzo che Boatti fa per comprendere lo spirito della Certosa è evidente (e gli si perdona qualche imprecisione: San Bruno nato a Treviri invece che a Colonia, l’uso del titolo “don” per i monaci certosini invece che, correttamente, “dom”) e si vede anche dal fatto che dichiara di essersi ricreduto su quella “cornice” mediatica che tante volte l’ha costruita come un luogo “capace di accogliere i nodi insolubili, i misteri insondabili, le vite travagliate desiderose di farsi dimenticare, di cancellare ogni traccia di sé”, per giungere alla conclusione che “fatti piuttosto semplici, quasi banali, vengono trasformati in notizie capaci di colpire l’immaginazione e di fare il giro del mondo, pur non avendo più alcun legame con la realtà”. Boatti si rende ben presto conto, sollecitato anche dall’epigrafe di Isaia sopra l’ingresso della Certosa (“Ingrediatur gens justa”), che dentro il monastero non c’è posto “per coloro che scappano da qualcosa e cercano un rifugio qualsiasi, purché sottratto agli occhi del mondo. […] I certosini vogliono davvero vivere appartati dal mondo. E ritengono non sia opportuno che tutti possano varcare questo portone”. La consapevolezza di questa separatezza non gli impedisce, tuttavia, di cogliere il particolare legame che unisce i serresi alla Certosa: quando il busto di San Bruno viene portato in processione “la folla è strabocchevole” e nei momenti di emergenza la popolazione del luogo trova in essa un punto di riferimento fondamentale, come attesta anche la denominazione per una delle chiese di “chiesa delle pannelle” (pure qui una piccola imprecisione: in realtà, della “panella”) perché in tempo di carestia i monaci vi giungevano per distribuire il pane.

Serra non è la Certosa, la Certosa non è Serra

E però, nonostante questa prossimità spaziale e affettiva, una cosa è la Certosa e una cosa diversa Serra. E le “idee bucoliche” che lo scrittore-viaggiatore si era fatto avvicinandosi all’abitato (i ritmi lenti a cui lo costringono le strade che da Vibo conducono a Serra, l’immobilità forzata prodotta da una mucca che si avvicina alla macchina) devono convivere con “immagini contrastanti”, scaturite da un paese di cui si riconoscono le aspettative di sviluppo turistico, ma che non lascia sempre a Boatti un’impressione positiva. Da un lato, “Serra San Bruno è un luogo dove se passi la sera accanto all’auditorium ricavato da una vecchia abitazione e ristrutturato con gusto senti le prove di una banda musicale che coinvolge giovani e anziani sotto la guida di una voce, esperta e autorevole, capace di tenere in pugno la situazione e, alla fine, imporre un sintonico procedere”, ma dall’altro, di notte, mentre a pochi chilometri i certosini sono immersi nella preghiera, “nel cuore di questo paese c’è qualcuno che non ha niente di meglio da fare che provare a se stesso, e alla propria banda, di esserci, prendendo a calci scatole di latta, tambureggiando sulle serrande e sgommando a tutto gas sull’auto”. Non solo, ma accanto a vite soddisfatte del proprio posto nel luogo, si capisce che c’è anche altro, un malessere, quando non una vera e propria rabbia: “Non tutte le vite che vedi attorno danno questa impressione di vivere qui con agio, con serena interazione verso l’esterno. In alcuni senti la rabbia, la spossatezza di esistenze incatenate al posto loro assegnato, sia esso il bancone del bar o lo sportello di un ufficio pubblico […]”. L’esplorazione del centro storico è, poi, il momento di una curiosa “scoperta”: “Le vecchie case abbandonate di Serra San Bruno le si riconosce dai camini. Alcuni sono sbrecciati dal vento, dal carico eccessivo della neve che nel corso dell’inverno si è accumulato sopra. Anche le tegole dei tetti di alcune di queste vecchie case stanno cominciando a perdere il serrato ordine che le teneva assieme. Talvolta si intravedono degli spazi vuoti da cui presumibilmente partiranno, a ogni temporale, infiltrazioni d’acqua. Ero convinto che l’inizio della distruzione, almeno per le costruzioni, partisse sempre dalle fondamenta, dai muri maestri. Non avevo mai pensato che potesse cominciare anche dall’alto, dal tetto”.

Un tempo capace di fermarsi

Il ritorno del racconto sulla Certosa è segnato dal richiamo di qualche storia di monaci che Boatti apprende durante la sua permanenza a Serra e la sua visita agli ambienti del monastero: un monaco caduto in un dirupo nel corso dello spaziamento, il monaco portinaio con la sua nota vicenda giovanile di calciatore dello Sporting Lisbona, il maestro dei novizi che dipinge icone secondo tecniche orientali “prima affrontando le tonalità più scure e poi via via gli elementi più luminosi della tavola sulla quale sta lavorando”, ben sapendo che “dipingere icone è un cammino, un procedere dal buio verso la luce”. E poi lo spazio per i libri della biblioteca, anche qui una scoperta nell’apprendere che i giovani postulanti non si dedicano soltanto ai testi della loro formazione spirituale, bensì pure, su indicazione del loro maestro, a volumi di botanica o ad atlanti stellari, “che aiutino il nuovo venuto a prendere consapevolezza di quanto sia variegato e denso di meraviglie il mondo che sta attorno” oppure nel vedere che la vita certosina non equivale a uno “spegnersi di interessi”, se esiste “molta apertura nell’aderire alle proposte di acquisizione che ogni monaco può avanzare”, tanto che “non mancano testi di narrativa, saggi storici e scientifici”. E, ancora, il ruolo nella vita quotidiana dei monaci della “tabula” con la quale sono assegnati i compiti che attendono ciascuno nella giornata, il posto del pane (prodotto da un “monaco panettiere che una volta alla settimana sforna pagnotte scure, dalla crosta dura”) nell’alimentazione monastica, la consumazione del cibo sullo scrittoio-mensa “guardando lo spazio del proprio giardino e del proprio orto” come una “sorta di liturgia che sa che ogni atto, anche il più concreto, se vissuto consapevolmente, è un gesto benedicente per i doni che si ricevono”. Così, anche una semplice visita al complesso monastico può essere l’occasione per una riflessione sul ritmo che la vita assume nello spazio della clausura: “Il tempo in Certosa ha un passo al quale non sono abituato. È intenso, denso di infinite notazioni e tuttavia non lo senti scorrere. Non hai la sensazione che ti stia scappando via. La sensazione anzi, ad esempio davanti all’impressionante facciata dai pinnacoli penzolanti che è tutto quanto è stato risparmiato dal terremoto che distrusse l’antico edificio, è di stare davanti a un tempo capace di fermarsi. Di adattarsi a quello interiore”. Una dimensione del tempo, sembra di capire, che spaesa il viaggiatore-scrittore, il quale, a contatto con essa, avrà dovuto probabilmente fare i conti non solo con gli “spaesati dintorni” di cui dice il titolo del libro, ma pure con il proprio personale spaesamento, come dire con l’essenza stessa di ogni viaggio. 

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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