Domenica, 24 Novembre 2024 10:26

Quale Certosa è più importante in un Regno? Una lite tra la Certosa di Serra e San Martino di Napoli

Scritto da Tonino Ceravolo*
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  • Ricostruzione di una controversia che risale alla fine del ‘700. Una vicenda poco nota che ebbe origine da una relazione su tutti i monasteri bruniani voluta da Ferdinando IV di Borbone. Qualche anno dopo la legge bonapartista di soppressione dei conventi avrebbe cambiato tutto
La Certosa di Serra San Bruno (Foto di Bruno Tripodi) La Certosa di Serra San Bruno (Foto di Bruno Tripodi)

Antichi volumi recano traccia di memorie oggi, si perdoni l’ossimoro, completamente dimenticate, del tutto inattuali, collocate in un passato sepolto e che solo tra le pagine e i quinterni di tali libri riesce a riemergere. Così appare, ai nostri occhi contemporanei quasi curiosamente, una vivace “dialettica” storica tra istituzioni religiose, peraltro legate dalla comune appartenenza a un medesimo Ordine, nel nostro caso quello certosino, in cui tra gli anni Settanta del Settecento e la fine del secolo, con il terribile spartiacque, in mezzo, del terremoto del 1783, autentici “nuvoloni” di carta si sollevarono a dar conto di vecchi e nuovi problemi nei rapporti tra monasteri di luoghi diversi.

Dom Benedetto Tromby e la “primazia” della Certosa di Serra

E basta andare al quarto volume della Storia critico-cronologica diplomatica del patriarca S. Brunone e del suo Ordine Cartusiano di dom Benedetto Tromby, edita a Napoli tra il 1773 e il 1779, per trovare la puntuta presa di posizione del monaco della Certosa di Serra verso la casa francese di Grenoble, “casa-madre” dell’ordine certosino, se è vero che in queste pagine è presente non solo il rifiuto del modello unico “francese” quale norma per vi­vere l’esperienza certosina, ma, addirittura, una polemica esplicita sulla legittimità della “primazia” esercitata da quella Certosa sulla Certosa di S. Stefano del Bosco. Scrive, infatti, Tromby: “Certamente il Patriarca Santissimo tenne [...] in questa Certosa condotta di­versa da quella di Grenoble. Le molte Terre e Castelli di temporale e spiritual giurisdizione de’ quali n’era stato magnanimamente investito. I numerosi Vassalli; non poco servi angari e perangarj: I grandiosi beni di qua e di là dispersi, cento e mille altre prerogative tutte sovrabondantemente con­cedute al Santo eran bisognose d’altro governo. Certo, o ciò non doveva affatto dal nostro Brunone accettarsi, o richiedeva senza difficoltà un differente metodo, e tenore di vivere nell’Eremo di Cala­bria”. In tale diverso “tenore di vivere” nessuno scandalo per Tromby, essendo quella francese una Certosa povera e, viceversa, ricca la Certosa calabrese, giacché alla non uniforme amministrazione delle due Certose per quanto concerneva gli “affari temporali” corrispondeva un comune atteggiamento nelle “cose spirituali”, mante­nendosi identica l’osservanza del silenzio, della solitudine, delle celebrazioni liturgiche. Oltretutto, “se quella [la Certosa francese] gloriavasi di aver avuto in seno il Santo Patriarca per qualche tempo vivo, e questa con più di ragione vantavasi, e di averlo avuto più lungo spazio vivo, e di te­nerlo fino all’ultimo de’ secoli morto; se colà ebbe principio, qui l’ultimo compimento la di lui San­tità”. Piuttosto che semplice emula della Casa francese, la Certosa di S. Stefano del Bosco si sa­rebbe dovuta, perciò, considerare come una legittima pretendente al “Majorascato”, poiché a questo la autorizzavano non soltanto le sue memorie dei primi secoli, ma pure il fatto di conservare le spo­glie mortali del fondatore. Le reliquie del santo e l’efficacia del suo corpo morto venivano poste, così, a garanzia non solo della permanenza di un ideale di vita, che grazie a esse trovava continua linfa e nutrimento, ma anche della supremazia, non semplicemente ideale, nell’ordine certosino della Certosa calabrese rispetto a quella francese. E a ben vedere altro non era, questo di Tromby, che un modo “dotto” di tradurre quell’elemento caratteristico della “mentalità popolare” per la quale la presenza del santo garantiva la vita stessa dei suoi devoti, in primo luogo di coloro che maggiormente erano prossimi alle sue sacre spoglie mortali. Come ha ricor­dato Aron Ja. Gurevič, osservando la questione in termini generali e con riferimento alla prospettiva dei devoti, “il fatto che il corpo di un santo riposasse nella loro terra, agli occhi degli abitanti del luogo era garanzia di prosperità [...]. I fedeli consideravano il santo una loro proprietà, si vantavano dei suoi atti miracolosi, li paragonavano alle imprese dei santi ‘altrui’, e il ‘proprio’ santo sembrava più potente”. La rivendicata (e mai effettivamente riconosciuta) “primazia” della Certosa di Serra si fondava, insomma, innanzitutto sulla presenza dei resti mortali di Bruno che la Certosa francese, ancorché istituzionalmente “casa-madre”, non deteneva.

Una “Memoria” contro la Certosa di San Martino

Se le pagine di Tromby fanno chiaramente intravedere un problema storico, tuttora dibattuto e di non poco conto, che coinvolge la questione dei rapporti tra la prima esperienza monastica di Bruno di Colonia in Francia (1084 – 1090) e la sua seconda esperienza in Calabria (1091 – 1101) e l’eredità non soltanto spirituale da quelle due esperienze derivata, poco nota è una vicenda, che ebbe luogo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, divenuta di pubblica conoscenza con una Memoria alla Real Camera di S. Chiara in sostegno delle ragioni del Priore della Certosa di S. Stefano per la convocazione del Capitolo Nazionale delle cinque Certose del Regno, pubblicata anonima a Napoli il 24 ottobre del 1791, nostra “nuvola di carta” di novembre. La controversia, che vide contrapposte la Certosa calabrese e quella di San Martino, ebbe origine da un Rescritto di Ferdinando IV di Borbone, il quale – come sintetizza Mons. Domenico Taccone-Gallucci – “avea disposto che fosse formata una esatta relazione da tutte le Certose esistenti nel Reame, in conseguenza del prestabilito disegno di dare quasi un’autonomia di governo ed indipendenza dell’amministrazione da Superiori stranieri ed esteri a ciascuna Casa religiosa, fu intimata la convocazione di un Capitolo Provinciale o Nazionale Certosino, ma non nella Certosa di San [sic!] Stefano ritenuta la prima e superiore a tutte le altre, invece nella Certosa di S. Martino in Napoli. Il Priore di S. Stefano ne fece lamento alla Corte Reale, la quale, pur conoscendo le ragioni che militavano pel primato di essa, nel 1791 con apposito Rescritto ne deputò l’esamina alla Real Camera. […] Per qual tempo la controversia fu conchiusa in favore della Certosa di San [sic!] Stefano, che venne realmente conosciuta come superiore dagli stessi Priori di S. Martino. Ma nel 1805 il Priore di tale Casa Certosina D. Attanasio Pagliarini ne mosse appello presso la Curia del Cappellano Maggiore; quindi nuova Memoria in difesa, compilata dall’egregio Avv. Gaetano Sessa”. Terzo termine del confronto diventò la Certosa di San Lorenzo in Padula, della quale non conosciamo la posizione in merito alla diatriba sulla “primazia” tra le due altre Certose meridionali, esplicitamente investita di tale funzione nelle due memorie a difesa del priore del monastero calabrese. La questione verteva, a stare al dettato di tali “memorie”, intorno a chi dovesse presiedere il Capitolo Nazionale delle Certose della Provincia Sancti Brunonis – se il priore di S. Stefano del Bosco o quello di San Martino – e riguardo al numero dei “vocali”, presenti al Capitolo in rappresentanza dei cinque monasteri certosini del Regno, atteso che il numero di essi assegnato alla Certosa napoletana risultava nettamente superiore a quello di tutte le altre, con grave pregiudizio del principio di uguaglianza. A militare contro la “primazia” della Certosa calabrese stava, peraltro, la circostanza che questa era stata “sospesa” dopo il terremoto del 1783 e, di fatto, nell’anno di avvio della controversia non era ancora avvenuta la reintegra, predisposta a far data dal successivo 1792.

Dopo la lite: Certose soppresse tra Calabria e Campania

Non ricostruiremo qui tutta la vicenda, dalle motivazioni giuridiche ed ecclesiastiche complesse, ma appare, comunque, degno di nota che l’autore dell’anonima Memoria del 1791 abbia opposto non solo la “primazia” della Certosa di S. Stefano a quella della Certosa napoletana, bensì anche la precedenza e il superiore diritto del monastero padulese di San Lorenzo, anteriore per ordine di fondazione rispetto a San Martino. Un diritto, questo di San Lorenzo, tuttavia, debole, come osservava nella sua “allegazione” del 1805 l’avvocato Gaetano Sessa: “La sua [del priore di San Martino] strana pretensione fu quasi interamente basata su le sciagure della Certosa di S. Stefano, con progetto ch’escluso il Prior di S. Stefano li sarebbe riuscito agevole di disfarsi della precedenza di quel di S. Lorenzo, comechè per antichità di fondazione sendo quasi in pari dritto tra loro, avrebbe dovuto questa cedere il primato a S. Martino che trovavasi nella Città Capitale, ed in faccia alla Reggia”. Appena due anni dopo, il 13 febbraio 1807, la legge bonapartista di soppressione dei conventi avrebbe posto il problema della presenza e del ruolo dei monasteri certosini nel Regno su basi, per i religiosi, drammaticamente diverse: la Certosa di Padula venne trasformata in caserma e Ospedale militare; a Serra, per effetto di un “rescritto” di Gioacchino Murat dell’anno successivo, fu abolita la Diocesi Nullius – della quale, sino a quel momento, era stato ordinario il priore della Certosa di S. Stefano – e il suo territorio fu smembrato tra le Diocesi di Squillace e Gerace. La giurisdizione della Certosa calabrese fu assegnata al Vicario Capitolare di Gerace Reginaldo Longo e il priore pro tempore, Dom Gregorio Sperduti, “fu dichiarato Vicario del Vescovo di Squillace per i paesi di Montauro e Gasparina, e delegato del capitolo di Gerace per gli altri paesi [di] Serra, Spatola e Bivongi”. Nel monastero di San Lorenzo, d’altra parte, già poche settimane dopo il decreto di soppressione si cominciò a porre mano agli inventari dei beni, in attesa del loro trasferimento verso Salerno e Napoli. La Certosa di San Lorenzo sarebbe stata successivamente e provvisoriamente reintegrata in seguito al Concordato del 1818, mentre quella di S. Stefano in Calabria, esperito un tentativo di riapertura andato fallito nel quinquennio 1840-1844, avrebbe conosciuto un lungo periodo di abbandono. Diversa ancora, invece, la situazione della Certosa napoletana, come sintetizza Giancarlo Alisio in un suo contributo sulle vicende delle Certose soppresse in Campania: “Singolare fu il destino della Certosa di S. Martino, che fu soppressa nel 1800 dai Borbone, perché ritenuta filo-giacobina durante la rivoluzione napoletana del 1799. I suoi beni non vennero tuttavia alienati e dopo quattro anni, nel 1804, fu nuovamente aperta per essere poi chiusa nel 1806”.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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