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In qualche annata precedente di questa rubrica abbiamo ricordato quello che è (forse) il contributo letterario più bello sul Natale calabrese, consegnato da Corrado Alvaro alle pagine del suo La Calabria. Libro sussidiario di cultura regionale pubblicato, nel 1926, dall’editore Carabba. Un brano in cui il grande scrittore di San Luca non mancava di osservare la corrispondenza tra i presepi calabresi e il paesaggio della regione: “Il Presepe ha l’aspetto di un paesaggio calabrese. Dalle valli sbucano fiumi, le montagne sono ripide e selvagge. Su tutto pende il bel giallo dell’arancio come un frutto favoloso. Il figurinaio che ha fatto i pastori sa che i ragazzi si fermeranno a guardare una per una le figurine. Perciò, meno che i soldati di Erode, tutti i pastori somigliano a persone conosciute. Sembra un paese vero. C’è quello che porta la ricottina, c’è il cacciatore col fucile, c’è quello che porta l’agnello e fuma una lunga pipa. C’è il mendicante davanti al Presepe. C’è la gente che balla fra il tamburino, il piffero e la zampogna davanti al Presepe, c’è l’osteria dove si ammazza il maiale e la gente beve accanto alla fontana, dove la donnina lava i panni. Ci sono persino i carabinieri che hanno arrestato un tale che ha rubato anche nella Santa Notte!”. Insomma, un presepe-specchio, duplicato di un mondo conosciuto e famigliare, un luogo in cui appaesarsi, ritrovarsi, rivedersi, tra figure e volti noti, situazioni consuete. Un presepe immagine dell’universo quotidiano, in cui la nascita del Bambino ha una “domesticità” che intenerisce e rincuora.
Il presepe come doppio del paese
Di un altro importante scrittore calabrese, Saverio Strati (Sant’Agata del Bianco, 1924 – Scandicci, 2014), abbiamo un libro illustrato di poche pagine, Il Natale in Calabria, edito nel 2006 da Qualecultura di Vibo Valentia, la casa editrice guidata dal compianto avvocato meridionalista Franco Tassone, letterariamente forse meno pregevole del pezzo alvariano, ma che offre un focus a trecentosessanta gradi su come i calabresi vivessero la festa: “Natale era veramente la festa del focolare, dell’unione della famiglia, della rinascita, della speranza e della vita che è eterna nella successione delle generazioni. Era una festa amata, desiderata: pareva che la natura vi partecipasse per la luce e un senso di tepore e di pace che si manifestavano nel cielo in questi giorni generalmente luminosi e sereni”. Il presepe, sostiene Strati, lo si preparava nelle chiese e non nelle case ed era un presepe “popolare”, costruito grazie all’abilità “dei più bravi ragazzi”: “Erano giorni di trepidazione per i ragazzi più estrosi, che plasmavano con abili dita personaggi di creta, che dopo qualche mese si screpolavano; e creavano Madonne, re magi, pastori, popolani, animali domestici; cercavano del muschio, scorza d’alberi, rami e costruivano in collaborazione col sacrestano e sotto la guida del prete, la stalla, un piccolo borgo di povere case, disegnavano il cielo stellato con in mezzo una grossa cometa; creavano valli e monti, esprimendo in questo modo la natura e il paesaggio della propria terra”. Dunque pure qui il motivo, già visto in Alvaro, del presepe come doppio del paese e della terra in cui si abitava, del piccolo mondo presepiale come replica dell’universo circostante, devotamente riprodotto in miniatura. E poi il motivo del fuoco, acceso dai ragazzi le sere durante le messe della novena, “un gran fuoco che lingueggiava allegramente e illuminava la piazza e la facciata della chiesa”, un fuoco simbolo di vita e suscitatore di gioia, che spingeva molti al ballo. E i cibi del Natale, che non era tale senza le immancabili “cose fritte”, come le zeppole e le nacatole e senza i tanti indispensabili ingredienti che “ogni padre faceva di tutto per procurare”, come l’olio, la farina, le sarde, i fichi secchi e le noci. E Natale era anche il tempo per ricordare i figli assenti (ma presenti in spirito), Vincenzo nella lontana Australia e il marito di Maria in Brasile. Un Natale di momenti felici e, insieme, di inevitabile malinconia.
Il fuoco, le zampogne, i fischietti (e i figli assenti)
In questo quadro non mancano le attestazioni dei demologi, quali l’Apollo Lumini degli Studi calabresi (Cosenza, L. Aprea Libraio Tipografo Editore, 1890) o il Carlo Giuranna della Monografia topografica-folklorica sopra Umbriatico, uscita tra il 1900 e il 1902 in diversi numeri della rivista di letteratura popolare “La Calabria”. Lo zampognaro è il grande protagonista delle osservazioni di Lumini consegnate alle pagine che precedono la sua raccolta di canti popolari calabresi dedicati al Natale, colui che del Natale dà ufficialmente l’annuncio e porta allegria nei cuori: “Personaggio importante, aspettato e desideratissimo, quasi all' improvviso sbuca fuori dal suo nascondiglio, dove pel resto dell'anno si cela alla vista altrui; intonando la pastorale porta allegrezza nei cuori, annunziando dovunque la buona novella: Cristo è nato. E tutti, specialmente i poverelli, traggono a lui per combinare il fitto, che si paga con pochi carlini o in natura, sì che in breve ora riesce a far tacere ogni rivale. Ed è ragione che sia così, dappoiché i libri sacri narrando il nascimento del Cristo parlano di zampogne e non di violini, come, se ben nol dicano apertamente, si può ragionevolmente supporre trattandosi di pastorelli. La storia e la tradizione stanno dunque per lo zampognaro, il quale però nella sua spesso doppia qualità di zampognaro e pastore, anzi capraro, non oserei affermare che a' nostri giorni e' si rassomigli in tutto a que' semplici pastorelli del contado di Betlem, ai quali per primi, secondo narra S. Luca, gli angeli annunziarono il grande avvenimento. […] Che volete! sarà che io mi sia imbarbarito, ma un Natale senza zampognaro, come appunto avviene qui a Nicastro dove la zampogna s'adopera in altre feste, non mi pare Natale”. Musica natalizia che non è assente neppure nelle note di Carlo Giuranna: “La smania della musica vince poi tutti: alla zampogna si accoppia la ciannamella, a questa il fischietto di canna. Ma la nota non è mai stridula; la maestà dei circonvicini colli, rivestiti d’eriche e di querce, la vita trascorsa, spesso solitaria fra le boscaglie, influisce sulla modulazione, come suo carattere, smorzandone l’asprezza”. La poesia del Natale, aggiunge Giuranna, appartiene alla montagna e non alle città, dove “quasi compressa dalla greve atmosfera, stride, non mormora la tradizionale zampogna”, la cui voce si rianima e commuove soltanto se “frammista al murmure del vento tra le chiome degli alberi”. E pure nella sua osservazione, come nel racconto di Strati, il fuoco, che cattura l’attenzione dei bambini: “Ed a quella visione paurosa di fiamme crepitanti, fissano gli occhi attoniti, vi accorrono o per ballare al suon della cornamusa, o per giocare il soldo, strappato alla condiscendenza paterna. Per poco ritorna il silenzio e solo nuvoli di fumo salgono in spire gigantesche: è l’ora del pranzo rituale, delle dolci e familiari confidenze”. E ancora il ricordo degli assenti, ancora Natale come festa pure di malinconie e di struggimenti per chi è lontano: “La mente vola ai figli lontani … sparpagliati pel mondo in cerca d’altra patria e di miglior fortuna. Oggi la gran fiammata è minuscola, la chiesa cadente, ed i vecchi numerano i posti vuoti intorno al desco e …. sospirano”. Numeri senza persone, tavole imbandite piene di vuoti. Non è solo gioia il Natale dei calabresi.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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