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In Calabria è sempre tempo di palii, di rievocazioni storiche, di sfilate in costume. Ancor meglio se tutto questo si situa nel fatato Medioevo. Epoca di mitici re e di falconerie, di sacri Graal e di monaci-soldati. Adesso è l’ora dei Normanni. Dal Catanzarese al Vibonese è tutto un fiorire di iniziative, una tenzone (giusto per rimanere in tema) tra chi fa meglio e di più nel coltivare il culto di presunte memorie immaginificamente rivissute. All’evidenza, pur celebrando il passato, si vede che i calabresi devono aver dimenticato l’imprecazione del prete Stefano (1043) contro quei “maledetti normanni”, chissà perché definiti in quel tempo “maledetti” se oggi sindaci e assessori alla cultura si affrettano quel passato a colorarlo di rosa e quasi quasi a rimpiangerlo, vagheggiandolo come una favolosa età dell’oro irrimediabilmente (e purtroppo) perduta.
L’Unicorno, il Rinoceronte, la Pantera e la Volpe
E insieme con le iniziative fioriscono, loro promotrici a braccetto con sindaci e assessori, mille associazioni, dai nomi complicati e misteriosofici, tra Oriente e Occidente, sapienza arcaica e sfumature di esoterismo. E tutto quel che si programma è, nemmeno a dirlo, “storico”: storici i cortei, storiche le musiche e le danze, storici i costumi. Anzi, per dir meglio, non genericamente storico, bensì di una precisa epoca storica, medievale: medievali gli storici cortei, medievali le storiche musiche e danze, medievali gli storici costumi, medievali - come annunciano le locandine – gli spettacoli e medievale il campo giochi, in cui si danno adunata i medievali gruppi gareggianti dell’Unicorno, del Rinoceronte, della Pantera e della Volpe. Medievali naturalmente anche i cibi, come lo stoccafisso che gli eredi dei Vichinghi notoriamente introdussero in queste contrade nell’XI secolo. Giusto per non farsi mancare nulla e per continuare a seguire la dieta nordica. Insomma, il “medioevo militante” (così il titolo di un mai troppo lodato libro di Tommaso di Carpegna Falconieri) avanza incessante e senza conoscere soste, talmente impetuoso che neppure si preoccupa di travolgere nel suo inarrestabile cammino quelli che, una volta, si sarebbero detti i “fatti”. Malattia senile di qualche positivista questi “fatti”, per non dire della “verità storica”, in anni in cui a predominare sono le “narrazioni”, le interpretazioni tutte egualmente possibili, le opinioni tutte legittime poiché tanto chi lo dice che le cose siano andate veramente in quel modo invece che in quell’altro. Se qualcosa è possibile può ben essere vera. Basta scrivere, dire, postare, ipotizzare una versione di un fatto qualsiasi, una versione preferibilmente di irriducibile minoranza, eccentrica, bizzarra, perché questa diventi più vera del vero, proprio in quanto ritenuta nascosta e negata dalla storia “ufficiale” e tanto peggio per i soliti circoli di micragnosi studiosi e scienziati.
Un Medioevo “creativo”
E di tali versioni abbondano i giornali, con particolare preferenza per quelli on line, dove non è raro che si possano leggere i fasti di questo Medioevo redivivo e riattualizzato, che, per motivare la propria reviviscenza nell’oggi, a quelle lontane epoche deve pur richiamarsi: “Roberto il Guiscardo e il fratello Ruggero conquistano l'intera regione, puntando poi le armi contro Bari, la Sicilia, Durazzo. Si concretizza l'unità dell'intero Sud Italia, realizzata dai Normanni con l'introduzione del sistema feudale e la rilatinizzazione delle strutture ecclesiastiche. Nasce in questo preciso contesto storico la Certosa di Santo Stefano del Bosco, oggi Serra San Bruno, su terra donata da Ruggero al frate Brunone di Colonia. Aiutati dai Normanni i confratelli bruniani aggregano vasti territori e creano grange (ovvero proprietà agricole al servizio della Certosa) a Montauro, Gasperina, Olivadi e in una località detta Runci o Arunci che il dialetto conserva ancora nell'attuale paese di San Vito sullo Ionio” (La C News 24, 1 agosto 2022). E peccato che in quel “preciso contesto storico” dei due fratelli Roberto e Ruggero la Certosa non nacque, bensì sorse un eremo - detto di Santa Maria della Torre – che era altra cosa e che fiorì in altro luogo e quanto alla nascita della Certosa il discorso sarebbe lungo, ma ci porterebbe ben oltre Roberto, ben oltre Ruggero I e ben oltre l’anno della sua morte (1101). E quanto ad appiccicare a Bruno l’appellativo di “frate”, l’errore sarebbe da matita rossa in un esame di storia medievale (se non fosse che la storia non ufficiale, più vera del vero, autorizza i suoi adepti a qualsiasi interpretazione alternativa), perché Bruno fu monaco ma non frate, definendosi frati i membri sì di ordini religiosi, ma di quelli mendicanti e non degli ordini monastici: frati sono i francescani, non i certosini. È chiedere troppo, allora, esortare alle storie (quelle che si ricavano dai documenti) invitando a leggere qualche paginetta proprio di quel Bruno per rendersene conto? E così si scoprirebbe che scrivendo dalla Calabria all’amico Rodolfo rimasto in Francia non mancava di ricordargli come avessero fatto voto e promesso “fugitiva saeculi relinquere et aeterna captare necnon monachicum habitum recipere”: cioè, dopo aver abbandonato il mondo, di indossare l’abito monastico, ovverosia quello dei monaci? Dal Medioevo “militante” al Medioevo creativo, a non tener conto delle fonti e della storia, il passo è breve e ci si inoltra speditamente nella notte in cui tutte le vacche sono nere, tutti gli eremi diventano certose e tutti i monaci si tramutano in frati.
Se la Cattolica diventa normanna
Talmente breve il passo che, quando ci si pone sul cammino dei Normanni, noti scarpinatori e al massimo cavalieri (non essendo ancora stata inventata l’automobile), non fa un bell’effetto trovarsi in preda allo straniamento e rischiare di non capire più cosa sia bizantino, cosa normanno e cosa posteriore agli uni e agli altri. Perché se in quell’itinerario ci si imbatte nella Cattolica di Stilo qualche dubbio è quasi naturale che venga sulle proprie reminiscenze storiche, che tendono a collocarne l’origine un po’ prima dei Normanni, come ancor oggi si può vedere, pur nell’amore per la storia immaginifica, ammirando la sua architettura che la rende - lo scrive il FAI - il “monumento simbolo della Calabria bizantina” (non normanna, che sopraggiunge qualche anno dopo). E se poi si va a finire, camminando dietro ai Normanni, anche dentro le auguste stanze del Convento di Soriano lo straniamento aumenta e i dubbi raddoppiano, sui Normanni e sulla loro storia, perché, a questo punto, non si capisce quando essa sia finita e quando si sia concluso il loro regno, se agli sgoccioli del XII secolo, come pur narrano le cronache dell’epoca, oppure più tardi, verso quel XVI e XVII secolo in cui il Convento di Soriano, sulla scia della miracolosa apparizione del ben noto quadro achiropita, fu edificato. Insomma, un itinerario a cui non manca una sintesi disinvolta di epoche, storie, architetture e culture, ma perché chiamarlo Normanno?
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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