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Di carta e d’inchiostro sono quelle nuvole che si formano dalle pagine di un libro, nuvole che guardano il mondo con gli occhi di un paragrafo o di una frase, dalla colonnina fitta di un risvolto, dall’immagine di una copertina. Nuvole da “libri in ritardo” o da pagine nuove e che sanno accontentarsi, all’occorrenza, pure di poco: libri apparsi alla macchia, autori dimenticati, pagine sgualcite. Nuvole tante volte da volumi introvabili e “sepolti”, buoni per una caccia al tesoro o per una paziente archeologia. E da uno di questi libri il viaggio nel nuovo anno può cominciare, come con un lunario accanto che ne accompagni i giorni e le ore.
Un lunario che comincia in ottobre
Solo che il nostro “lunario” non inizia in gennaio, come pur dovrebbe fare ogni lunario che si rispetti, uno di quegli almanacchi che sanno tutto sull’anno in corso e raccontano pure gli anni passati o un calendario come quelli di frate Indovino che vaticinano il tempo e le stagioni, ma parte invece da ottobre, perché quello era l’abbrivio della scuola quando il nostro “lunario” vede la luce e perciò chiude il suo ciclo a settembre piuttosto che andare da gennaio a dicembre. Lo si è capito, si tratta di un libro per le scuole, un “sussidiario”, certamente il più importante volume di tal fatta che sia stato composto sulla Calabria (come vedremo un’altra volta ce ne sono stati altri, ma questo, insomma, è opera di uno dei nostri “maggiori”) ed è La Calabria. Libro sussidiario di cultura regionale, Giuseppe Carabba Editore, 1926 (ora, in anastatica, Iiriti Editore, 2003) di cui è autore Corrado Alvaro e che reca nel sottotitolo il richiamo ai programmi scolastici (Programmi 11 novembre 1923) a cui il volume rinvia e nel frontespizio, in calce, l’autorizzazione come libro di testo del Ministero della Pubblica Istruzione (retto in quel periodo da Pietro Fedele, dopo le dimissioni di Alessandro Casati). E come fa a non rassomigliare a un lunario se per ogni mese vi si ritrovano il “calendario storico nazionale”, la poesia del mese in puro vernacolo (Iu sugnu Ottobri, gran faticaturi, / E quantu granu ndaju a siminari […] e così ogni mese), le opere del mese (con le semine, i raccolti, le cure per le vigne e per i campi), i proverbi mensili, le fiere e i mercati? Ma c’è anche molto altro, perché Alvaro, giunto ormai ai suoi trent’anni (era nato a San Luca nel 1895), vi avrebbe trasfuso quel suo “programma” culturale successivamente fissato, nel 1931, nelle primissime pagine della conferenza sulla Calabria al “Lyceum” di Firenze, se la questione era anche quella di dar conto di una regione che faceva parte di una “geografia romantica” e che diceva “alla maggioranza cose assai vaghe, paese e gente difficile”: “Fu una delle prime preoccupazioni della mia vita di scrittore ricercare i Calabresi che ebbero diritto di cittadinanza nella civiltà centro italiana che fu in definitiva la civiltà nazionale e di rendermi conto dell’influenza che detta civiltà ebbe nella nostra regione calabrese”. E quindi i Telesio, i Campanella, i Mattia Preti, ma anche Gioacchino da Fiore “ideale capostipite di San Francesco d’Assisi” e Barlaam maestro di greco di Petrarca. Di queste figure legate alla grande tradizione nazionale è cosparso il nostro “libro sussidiario” e delle memorie di quel mondo sommerso, delle quali Corrado Alvaro si fece “archivista” e narratore, che affiorano tra i fatti della storia della Calabria e i suoi paesaggi variati con le stagioni.
Memorie del mondo sommerso
Vigile custode di memorie è infatti, anche in questo libro dedicato alla lettura scolastica, Corrado Alvaro, perché dinanzi a una “civiltà che scompare” (e quante altre volte l’avrebbe ricostruita quella civiltà, a partire dal magnum opus Gente in Aspromonte) non bisogna piangere, “ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”. Vediamole, alcune di queste memorie, seguendo il passo dei mesi, come quello dei pastori in febbraio, che scendono dalla montagna e “quando capitano nelle marine coi loro pantaloni di orbace, la cintura di cuoio e il viso bruno, saltano per le belle strade piane come se fossero ancora tra gli sterpi e gli scogli dei loro monti”. E tanti di loro “non hanno mai veduta una casa di muro, una fabbrica, una chiesa” e si incantano di fronte alle “case alte alte” di cui avevano sentito parlare nella solitudine delle montagne e conservano i loro costumi, aggiungendo al più “ai bottoni della cintura le stellette da soldato” se sono stati in città per fare il servizio militare. O si pensi a quelle figure delle culture popolari che sono insieme levatrici, fattucchiere, indovine, streghe e a cui i “gonzi” si avvicinano con i loro muli carichi “di formaggio e d’olio”: “Le portano una ciocca di capelli per impedire il destino del loro nemico, e una camicina per guarire un bambino malato, e una pantofola per far nascere l’amore nella donna che vogliono sposare. Essi credono che la volontà e la mala arte d’una vecchia possano impedire il passo alla volontà di Dio e all’opera degli uomini”. O ancora alla quasi favolosa vicenda dei tessuti calabresi, frutto di prossimità li diremmo noi oggi (“Il prossimo campo fornisce il lino. La capra e la pecora domestica forniscono la lana. Il bozzolo, coltivato in famiglia, dà il filo di seta”), con i loro vari tipi dai mille nomi fantasiosi senza rapporto con le immagini disegnate: “V’è un punto detto del capriolo, uno detto del caprio, uno detto della vigna francese ed altri che hanno una vaga corrispondenza colla rappresentazione delle figure. Ma nel punto che si chiama del Giudice vecchio e in quello del Giudice nuovo invano cercherete un segno che richiami alla mente la giustizia vecchia o nuova”. E così nel punto Porta di Napoli, senza idea di architettura o di porta, o in quello detto della Testa di re, senza “parvenza di testa o di corona”: nomi bizzarri che si accompagnano a disegni altrettanto bizzarri, come bizzarro, “ma pur luminoso, l’accozzo dei colori”. Non altrettanto favolosa è la vicenda dei paesi, osservati in agosto, pieni di macigni che sembrano quasi confabulare tra loro “guardando la porta nera dove una ragazza si pettina e il nero maiale disteso dorme col melmoso occhio socchiuso”. Paesi che mutano, sotto il peso delle stagioni e degli elementi, con la terra “malcerta e in continua dissoluzione, spogliata e scarnita dalle acque, resa vuota dalle sorgenti, abburattata dagli inverni che ogni anno lasciano, là dove era la terra gonfia, cumuli di pietre laminate e aguzze […]” e con le genti che guardano, dalle case “nere e fumose”, questo incessante fare e disfare, questo trascorrere dei giorni, in mezzo al rivoltarsi degli elementi, che è la vita. Un Alvaro, come ha scritto Vito Teti su “Doppiozero” in occasione del sessantennio della morte, che “sembra essersi caricato sulle spalle il destino di una terra inquieta, eccessiva, difficile da raccontare, colma di contraddizioni. Un destino legato al suo essere rimasto fedele alle origini e in fuga dalle sue retoriche, fanciullo e sempre pronto a nuovo stupore, lontano e vicino, interno ed esterno, ancorato ed esule, nel labirinto del mondo e nel sogno di un nuovo appaesamento, pessimista e insieme portatore di quella tensione morale e utopica che trovava nei grandi pensatori della sua terra”.
(In basso la gallery fotografica)
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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