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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Molto si è parlato nei mesi scorsi del rapporto tra la Certosa di Serra e gli abitanti del luogo (e bisognerebbe aggiungere anche quelli dei paesi circonvicini) se l’ostensione del busto reliquiario di San Bruno nella chiesa serrese dell’Addolorata dal 3 al 17 di agosto, intenzionalmente finalizzata a costituire un momento spirituale di preparazione al prossimo Giubileo, è stata anche l’occasione per ribadirlo quel rapporto, peraltro in un momento in cui i tanti serresi di ritorno per le vacanze ferragostane hanno avuto modo di ritrovare quella fondamentale “materia sacra” che il busto rappresenta. E sicuramente tra gli aspetti di questo rapporto, contrassegnato da caratteri di unicità nel panorama dei tanti luoghi che in Europa e nel mondo ospitano certose, c’è quella relazione di affidamento che i serresi, nel tempo, hanno intrattenuto con San Bruno, parallelamente ricambiata dalla vicinanza che la comunità certosina esprime nei loro riguardi. Particolarmente significativa, per cogliere nel più sintetico modo possibile tale fondamentale aspetto, è, per esempio, quella definizione di “chiesa della panella” che la chiesa dell’Assunta di Terravecchia ha ricevuto per indicare che lì i certosini si recavano nel passato per distribuire il pane alla popolazione. Laddove è quasi superfluo osservare che se il pane si distribuisce in questo modo è perché il pane manca.
Mezzo secolo di carestie, alluvioni e freddi polari
Un duplice sfondo storico e culturale occorre per situare la vicenda dei miracoli di San Bruno in relazione a questioni che hanno a che fare con l’alimentazione, una vicenda all’apparenza tutta interna all’agiografia brunoniana ma che potentemente rinvia, nel caso delle popolazioni calabresi, a un contesto economico e sociale ben visibile e che i prodigi lasciano chiaramente trasparire. Intanto, le fonti agiografiche hanno riportato interventi prodigiosi del santo in materia di alimentazione dei quali sono stati protagonisti monaci e che devono essere collocati dentro un quadro che prevede per l’ordine religioso di appartenenza, al pari di altri ordini monastici, un rapporto parco e misurato con il cibo. E in questo senso sono esemplari per comprendere quanto fosse importante per i monaci il rispetto della loro regola religiosa - che richiedeva, tra l’altro, l’astinenza dalla carne - alcuni episodi che è possibile rintracciare nelle vite di San Bruno prodotte in età moderna. Infatti, diversi miracoli testimoniano quanto tra le mura del monastero dovesse essere avvertito questo problema, se più volte erano state “sanzionate”, sotto l’egida di un prodigio, le trasgressioni non solo reali, ma finanche, per dir così, di principio, giacché la regola, pietra di paragone della santità del monaco, non può ammettere forme di dissenso che ne minino la solidità e la purezza. Perciò, a Giovambattista da Geraci, che, alla presenza di un converso certosino, aveva inveito contro la prescrizione di non mangiar carne, neppure nel caso di infermità, era apparso in sogno San Bruno per richiamare l’utilità divina delle rinunce ascetiche al cibo. Una putrefazione verminosa aveva, invece, mandato in rovina il vitello arrosto che Fernando Abbate di Stilo “venuto ad ospitare alla Certosa di Calabria portò seco [...] per star meglio la sera a cena”, così come le galline cotte introdotte da un laico nella Certosa di San Martino in Napoli per giovamento di un monaco suo amico gravemente ammalato. Inevitabilmente di diversa natura gli interventi all’insegna del miracoloso nei confronti delle donne e degli uomini che vivevano in Calabria in una situazione storica contrassegnata da forti difficoltà quanto agli approvvigionamenti alimentari, nella quale la rinuncia al cibo diventava non una scelta orientata da una regola religiosa bensì una necessità imposta dalle concrete circostanze. Infatti, nel periodo compreso tra la fine della prima metà del Cinquecento e tutta la seconda metà del secolo, si assistette in Calabria a una situazione di continuo rischio alimentare: la siccità colpì la regione negli anni 1544, 1549, 1596, 1599; nel 1572, 1574 e 1580 si verificarono disastrose alluvioni; neve e freddi polari, dannosi per le colture arboree, si ebbero nell’inverno del 1578; una carestia interessò il 1560, per ripetersi, all’inizio del nuovo secolo, nel 1607.
Miracoli di abbondanza e di liberazione dalla fame: il miracolo dell’olio...
Sono sogni di abbondanza in tempo di penuria, garanzia di soddisfacimento alimentare nel “paese della fame”, i due miracoli dell’olio e del frumento che San Bruno compie non soltanto a difesa del proprio ordine, ma per esaudire il bisogno di nutrimento di un’intera popolazione. Si ha, tra l’altro, in questo modo la conferma di un dato che ha accompagnato la storia moderna della Certosa di S. Stefano e che fa vedere una istituzione monastica, accusata nel XVIII secolo dai suoi detrattori per il suo coinvolgimento negli “affari temporali”, senza esitazioni impegnata nell’attuazione della carità evangelica, protesa a svolgere, oltre al solitario apostolato della preghiera, un’opera di assistenza e soccorso ai bisognosi: “Travagliata essendo l’anno 1528 la Calabria, e spezialmente la Diocesi di Squillaci da estrema carestia di olio - scrive Ercole Zanotti nella sua Storia di S. Brunone pubblicata nel 1741 - abitava in una Grangia partenente alla Certosa di Santo Stefano un Padre Procuratore, che da tutti riputato era di gran virtù, e merito appresso Dio, e perciò veniva straordinariamente richiesto di olio in limosina da tutti i Poveri circonvicini. Dopo ch’egli ebbe pregato il Signore del come avesse in ciò a fare, ordinò al suo Converso il mettere a parte una certa quantità di olio, che bastasse al servigio della Grangia, e donare poscia il rimanente ai Poveri, che ne facessero inchiesta, soggiugnendo il buon Religioso: Io tengo una ferma speranza nei meriti, e nell’ajuto di S. Brunone, che soddisfaremo al loro bisogno fino alla nuova ricolta [...]. Alla fiducia di questo Monaco, e alle sue replicate orazioni si accompagnavano quelle ancora di tanti Mendici, che qualunque volta ricevevano olio dal Converso volgevansi a S. Brunone, pregandolo, ch’ei lo facesse durare per tutto il tempo del loro bisogno. La grazia si fu quale appunto desideravasi. Non mancò giammai l’olio, e divulgata essendosi per tutto il paese circonvicino la fama di questa miracolosa multiplicazione, accorrevano perciò in maggior numero i Poveri a domandarne, e il Converso veggendo, che il vaso non iscemava, si era più assai liberale nell’esercizio di sue limosine. Non in altra guisa pei meriti di S. Brunone l’olio durò fino alla nuova ricolta, che fu abbondante”.
... e quello del frumento
La stessa abbondanza si avrà un quarto di secolo dopo, con i calabresi ormai ridotti a pallidi revenants da una nuova catastrofe alimentare, grazie al “pane della vita”, ottenuto per intervento di San Bruno, che riuscirà a sconfiggere la morte per fame: “La Penuria del vivere stringeva fieramente tutte le Province del Regno - racconta Giacomo Desiderio nella Vita di S. Bruno fondatore dell’ordine cartusiano edita a Bologna nel 1657 - e la violenza della fame si faceva mirabilmente sentire da ciascuna persona, che perciò si vedevano i poveri, come ombre di persone, che fanno viaggio al lume della luna, lividi, e smorti camminare sopra la terra. Era nella commune calamità venuta meno la provisione ordinaria di grano al Monastero della Certosa di Calabria, e non solamente non ne avea per distribuire in limosine a poveri, ma ne meno era bastante per il vivere quotidiano de’ Religiosi. Il P. Priore Dom Pier Paolo vedendosi all’estremo disse a Dom Giovanni Senesio suo Procuratore: Andate a Catania Città, e Fra Andrea Tosco Laico fu mandato dal medesimo Padre a Scanzana Terra vicina a Taranto, che io confido in Dio, e nel nostro P. S. Bruno, che ci sarà in qualche maniera somministrata la necessaria provisione. Non fu defraudato della sua speranza; poiché l’uno, e l’altro portarono al Monastero tanta quantità di frumento che non solo bastò alla Casa; ma aumentandosi ogni giorno più il numero de poveri mendichi alla porta, ne sopravanzò per l’anno senza che giammai mancasse quel poco, che prima vi era già nel Granaio del Monastero”. E al margine non sarebbe, forse, fuor di luogo osservare come i “sogni” d’abbondanza contenuti in tali due miracoli trovano un significativo parallelismo anche nelle utopie cinquecentesche del “paese di Cuccagna” (come l’anonimo Capitolo, qual narra tutto l’essere d’un mondo nuovo... o il contrasto in versi tra il Lamento de uno poveretto huomo sopra la carestia e L’universale allegrezza dell’abondantia), che Carlo Ginzburg (Il formaggio e i vermi, Einaudi, 1976) ha posto in rapporto con la cultura del mondo contadino espressa paradigmaticamente dal mugnaio Menocchio, utopie che convertono in un “di più” di cibo le concrete privazioni che le popolazioni quotidianamente sperimentavano.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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