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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
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A suo modo un piccolo classico (almeno per quanto riguarda le pubblicazioni sulla Certosa di Serra San Bruno) e certamente una pietra miliare, sebbene in nessun modo paragonabile alla monumentale Storia critico-cronologica diplomatica del patriarca S. Brunone e del suo ordine cartusiano di dom Benedetto Tromby di oltre un secolo prima. Un agile e smilzo volumetto, quasi un opuscolo di nemmeno cento pagine da una parte e una cattedrale di fogli e parole, in dieci ponderosissimi volumi, dall’altra. La “nuvola di carta” di questo mese, lo smilzo volumetto di cui si diceva sopra, si intitola Memorie storiche della Certosa de’ Santi Stefano e Brunone in Calabria (Napoli, Tipografia Festa, 1885) e il suo autore è Domenico Taccone-Gallucci (Mileto, 1852 – Roma, 1917), canonico penitenziere del duomo di Mileto e vescovo, al cui nome resta legata la traslazione delle reliquie di Santa Domenica dalla Sicilia a Tropea.
Memorie per “ubbidire” a un priore
La premessa, in particolare nel suo apodittico giudizio di apertura, ha bisogno di una spiegazione, prima di entrare nelle pagine del libro, perché indubbiamente di una pietra miliare si tratta se “per un secolo ha rappresentato la sola informazione storica sulla Certosa – secondo una condivisibile considerazione di Ilario Principe – e contiene tante notizie difficilmente reperibili altrove”. Basta, infatti, osservare sommariamente la pubblicistica sulla Certosa serrese tra la fine del XIX secolo e gli anni Sessanta del XX per trovare ampio riscontro a tale valutazione. Se si eccettua un libretto a cura dei certosini di Serra del 1921, di cui abbiamo già dato conto sul Vizzarro (leggi qui), da segnalare soprattutto per il suggestivo apparato fotografico e un volume di Cesare Mulè del 1962 (La Certosa di Serra San Bruno, Cava dei Tirreni, Di Mauro) rimane ben poco di pubblicato in volume sul monastero serrese, stante, peraltro, l’inaccessibilità, all’epoca, della Storia di Tromby, disponibile in anastatica soltanto dai primi anni Ottanta del Novecento. Si aggiunga, almeno, un secondo elemento che rende l’operina di Taccone-Gallucci meritevole di menzione, ossia il suo essere costruita anche su materiali conservati nell’archivio certosino calabrese, come si desume dai riferimenti nel testo, circostanza che rende evidente un contatto stretto con la Certosa, tanto da porla, addirittura, al dire del suo autore, quale committente del libro: “Siamo debitori di tante particolari notizie agli egregi Certosini ed eruditi P. D. Pio Assandro da Torino e Priore P. D. Francesco Ma Ciano da Saponara, per ubbidire al quale abbiamo scritto queste Memorie”. Osservazione, quest’ultima, che consente anche di chiarire meglio il contesto delle Memorie storiche se si pensa che vanno ad innestarsi nei lunghi decenni del ripristino ottocentesco della Certosa dopo il terremoto del 1783, con un forte incoraggiamento alla diffusione del culto di San Bruno da parte del monastero e con lo sforzo, parallelo, di dar conto della sua storia recente, come si evince, per esempio, dal fatto che si deve proprio a dom Assandro una Cronaca contemporanea della Certosa dei SS. Stefano e Bruno, dalla sua ripristinazione nel 1856 fino al 1887 quando fu riacquistata, da lui redatta nel 1893 e interrotta, invece che nel preannunciato 1887, in corrispondenza dell’anno 1862, della quale lo scrivente ha curato nel 2018 l’edizione a stampa per Analecta Cartusiana. E il dom Ciano che avrebbe “comandato” a Taccone-Gallucci la stesura del suo volume è, d’altro lato, una figura che ha segnato con la sua operosità le vicende certosine calabresi del XIX secolo: rettore della Certosa di Serra dal 1883 al 1887, divenne suo priore da quest’ultima data fino al 1891, quando ricevette “misericordia” e venne mandato a Pisa, per riprendere successivamente il suo incarico priorale a Trisulti dal 1894 al 1912. Né gli mancò modo di distinguersi nella sua funzione di priore in Calabria, poiché ebbe un ruolo importante tanto nel restauro della Chiesa di Santa Maria del Bosco, da lui personalmente voluto, quanto nelle vicende legate alla diffusione del culto brunoniano presso Sorianello. Questa la cornice, dunque, dentro cui collocare il lavoro di mons. Taccone-Gallucci.
Andrea Palladio e la Certosa
Ma le Memorie vanno, ovviamente, storicizzate, poiché, com’è inevitabile, scontano lo stato delle conoscenze del tempo su San Bruno e sulla Certosa e tra le tante notizie riportate diverse soggiacciono a un approccio di tipo agiografico da sottoporre ad adeguata critica storica, così come con gli strumenti della critica storica e dei risultati da questa raggiunti nell’ultimo trentennio è indispensabile analizzare le pagine su tale insediamento monastico calabrese, in particolare per quel che riguarda il periodo medievale. E basterebbe, per limitarci a questo unico caso, la notizia, che Taccone-Gallucci riporta senza il sostegno di alcun riscontro, relativa ad Andrea Palladio quale autore del disegno del “gran Chiostro dei Monaci Claustrali” (anche se altri lo hanno voluto autore della chiesa cinquecentesca del monastero) e che avrebbe costituito una delle tante pezze d’appoggio della stucchevole questione palladiana sulla Certosa di Serra. E qui si potrebbe aprire un intermezzo per dire come tale “questione” avrebbe, forse, conosciuto il proprio apogeo in un articolo di poche pagine di Giuseppe Abatino di non troppi anni dopo – I ruderi di un’antica Certosa. Santo Stefano del Bosco in Serra San Bruno (provincia di Catanzaro), Roma, Officina Poligrafica Romana, 1902 – in cui, facendo mostra di discutere criticamente intorno al problema e rilevandone per di più l’insussistente base documentale, si dava credito all’attribuzione a Palladio almeno di parte delle fabbriche certosine della fine del XVI secolo, addirittura piegando la cronologia al proprio convincimento per far collimare ciò che l’anagrafe e i dati storici non facevano in alcun modo collimare: “L’egregio e colto ing. Giuseppe Foderaro – scrive Abatino – mi esponeva che, confrontando i caratteri architettonici della facciata con quelli di altri monumenti del tempo, egli è indotto a riconoscere che la chiesa e il portico ancora esistenti hanno molta comunanza di caratteri con note costruzioni del Palladio in Venezia: convento della Carità, san Giorgio, chiesa del Redentore e san Francesco delle Vigne; per le quali il Palladio acquistò celebrità”. Difficoltà di poco conto, in tale prospettiva, il fatto che Palladio fosse morto nel 1580, mentre i lavori della Certosa cinquecentesca erano cominciati nel 1595, giacché i certosini, secondo il Foderaro, alla cui autorità Abatino si richiamava, “nel lungo periodo di preparazione dal 1513 al 1595, dovettero anche farne studiare il progetto completo; ed è assai naturale che […] quei padri, ricchi di relazioni e conoscenze, si sieno voluti rivolgere all’architetto di maggior grido che allora vivesse in Italia: al Palladio”. Assai naturale rivolgersi a Palladio, dice Abatino ed è questa l’argomentazione che gli consente di scavalcare e porre tra parentesi le contrarie risultanze della cronologia, anche se poco dopo dalle convinzioni di Foderaro parzialmente si differenzia, accogliendo l’attribuzione palladiana per la sola facciata della chiesa e respingendo, invece, la possibilità che pure il “magnifico portico”, di “schietto sapore secentistico”, fosse di Palladio.
Un “teatro cronologico” di priori
Insomma, ritornando a Taccone-Gallucci, non sembra da ribadire ulteriormente che le pagine delle Memorie devono essere sottoposte ad accurata verifica, particolarmente allorquando accolgono “idee ricevute” senza interrogarsi sulla loro effettiva base documentale. Tuttavia, segnalati tali limiti, non sono da trascurare le tante notizie interessanti che vi si ricavano, in specie quando Taccone-Gallucci le desume da cronache certosine coeve o prossime agli eventi riportati (nella sua disponibilità di consultazione vista la vicinanza dichiarata alla Certosa) o quando si tratta del XIX secolo, per il quale l’attendibilità è legata anche al suo “filo diretto” con quei certosini che avevano vissuto o stavano vivendo le vicende raccontate. Così nella cronotassi dei priori, che nel volume si chiude con il priorato di dom Pietro Paolo Arturi, il priore dell’anno del terremoto, viene segnalato il ruolo di dom Francesco Comiliano che “per ottenere senza ritardo una sentenza per lite col Vescovo di Squillace recossi in Roma, ove cercò provare che la Certosa di San Stefano era Cappella Regia” oppure si ricorda che dom Giovanni Manduci, “uomo zelante e prudente”, fu colui che fece adornare e arricchire di “marmi di svariati colori l’Altare di S. Bruno”. Né poteva mancare, in tale ricostruzione, la messa in rilievo del priorato di dom Urbano Florenza, autore di una cronaca intitolata, secondo Taccone-Gallucci, Theatrum Chronologicum, il cui titolo è, in realtà, Enarratio residuae vitae S. P. Brunonis quam gessit in Calabria post recessum a Romana Curia, testo di cui il “teatro cronologico” costituisce solo una parte. Un priore che, oltre alla sua opera di raccolta delle memorie certosine, era stato anche colui che aveva piantato “la Croce di legno sul lago, ove S. Bruno faceva le sue solite aspre penitenze, come sovrastante un abete che a pochi palmi da terra piega orizzontalmente il suo tronco protendendosi sull’acqua!”. Analogamente, non si trascura di richiamare né l’opera di dom Tommaso Presinace, che dà occasione a Taccone-Gallucci di riepilogare brevemente la controversia giurisdizionale del XVIII secolo tra i serresi e la Certosa, né quella di dom Bernardo Sirleto, il quale ottenne nel 1757 (ma 1753, dice Vito Capialbi) dalla Sacra Congregazione dei Riti che San Bruno fosse dichiarato protettore, “secondo le relative instanti petizioni del Clero e popolo delle terre di Serra, Spatola, Bivongi, Montauro, Gasparina e Montepaone”. Altri priori vengono ricordati per le loro personali attitudini, come dom Nicola Pilegi, definito “personaggio di grande carità e munificenza” per il suo operato durante la carestia del 1763 oppure dom Saverio Cannizzari, “da S. Eufemia di Sinopoli”, “erudito e dotto, ed autore di alcune opere di astronomia”, ma bisogna, da ultimo, rammentare dom Giuseppe Maria Caputo che “nel 1776 presso l’antichissimo Eremo detto di S. Maria, sotto la giurisdizione della Certosa di S. Stefano ed un miglio distante da essa, fece collocare la statua in marmo di S. Brunone, riponendola nella cosidetta Grotta di S. Brunone, appo la quale fu l’antica povera abitazione del Santo Patriarca alla prima sua venuta in Calabria”. Lasceremo al lettore che si dovesse imbattere in questo agile volumetto la scoperta delle sue ultime pagine, nelle quali al resoconto delle vicissitudini ottocentesche del monastero, legate alla sua ricostruzione e nuova apertura, si accompagna la menzione dei certosini che si distinsero per le loro attività scrittorie (da dom Dionisio Grano a dom Benedetto Tromby) e, soprattutto, l’attenta presentazione dei caratteri del culto calabrese di San Bruno, di cui si narra e descrive l’incremento “sì per non pochi prodigi che assicuransi da lui operati nel corso di tanti secoli, sì ancora per lo zelo e la devozione dei suoi santi seguaci e figliuoli”.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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