Domenica, 02 Giugno 2024 08:10

Quando i serresi litigavano con la Certosa

Scritto da Tonino Ceravolo*
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La denuncia, con la quale era cominciata la lunga controversia che avrebbe contrapposto i serresi e la Certosa, era stata inoltrata nel 1751 al Tribunale della Regia Camera da “due poveri cittadini della Serra”, il maestro ferraio Domenico Giancotti e il maestro piperniere Santo Timpano. E secondo la sintesi che ne avrebbe dato nel 1765 l’avvocato Francesco Vargas Macciucca nella celebre e mastodontica opera Esame delle vantate carte, e diplomi de’ RR. PP. della Certosa di S. Stefano del Bosco in Calabria d’ordine del già qui Regnante, ora augustissimo monarca delle Spagne Carlo III il monastero veniva presentato come un usurpatore “di sei terre per nome Spadola, Serra, Montauro, Gasperrina, Montepavone e Bivongi e di quante amplissime giurisdizioni su delle medesime esercitavansi. Che quando anche si avesse potuto avverare la donazione, che dal Conte Ruggiero fatta le si dicea, non contenea però la Carta, a lui attribuita, veruna concessione di giurisdizioni. Che quando anche si avesse voluto credere che le contenesse per le altre, non potean distenderle alle due terre di Spadola e Serra, perché Spadola era fuori la lega del Conte a S. Bruno donata, e la Serra non era stata in quei tempi edificata”. E don Bruno M. Tedeschi, autore quasi un secolo dopo del lungo contributo su Serra per Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato, avrebbe commentato: “Per quanto il governo baronale dei certosini sia stato dolce e mite a confronto di quello degli altri baroni secolari pure i Serresi, sdegnando una vita di dipendenza e di vassallaggio, mossero in diversi tempi lunga ed ostinata lite per emanciparsi, facendo scudo della non esistenza di diritti legali da parte della Certosa”. L’inesistenza di diritti legali della Certosa sui serresi, era questo il cuore della lite, che verteva in gran parte sulla discussa autenticità dei diplomi di donazione prodotti dai Normanni in favore di San Bruno e sulla esatta ricostruzione temporale del suo periodo di permanenza in Italia e in Calabria, ritenuto non concomitante rispetto alle date che i predetti diplomi, al dire dei denuncianti, falsamente asserivano. 

Gli inizi della lite: “oppressi dall’angarie del detto Padre Priore”

In realtà, il primo innesco della lite si era acceso un po’ di tempo prima, se il 28 giugno del 1700 centottanta artigiani serresi avevano inviato una “supplica” al re di Napoli nella quale dichiaravano di sentirsi oppressi dai pesi feudali a cui, ancora, erano sottoposti da parte della Certosa, come si può leggere nel testo della petizione riportato da Francesco Timpano in Un feudo ecclesiastico a metà Settecento: Spadola e Serra in Calabria Ultra (Palladio, 1991): “Ecc.mo Signore, [i cittadini di Serra] si trovano oppressi dall’angarie del detto Padre Priore che più non possono resisterli. Perché, oltre a l’haver obligato l’università di detta Serra di mantenerli a sue spese l’acconcio delli molini, che spenderà da 60 scudi annui, e l’esigere da detti artigiani l’angarie che, ogni qual volta ha bisogno detto convento della loro opera, ch’è di continuo, si paga non più di un carlino al giorno […] sono più anni che n’esigeva da ciascheduno per ogni anno carlini 15 senza sapere perché. E pure è vero, Ecc.mo Signore, che detti supplicanti, per buscare un carlino a campare le loro famiglie, girano per tutta la provincia, essendo che la terra della Serra sta situata dentro il centro di una montagna, dove stanno coperti di neve quattro o cinque mesi l’anno senza havere di che vivere, e da detto Padre Priore e suoi monaci vengono trattati da schiavi non che da vassalli, quando gli corre d’entrata più che trentamila scudi annui”. A questo primo atto del 1700 aveva fatto seguito, due anni dopo, una vera e propria denuncia presentata dai serresi alla Regia Camera, il cui Tribunale nel 1729 aveva liberato i cittadini di Serra dai “pesi” di angaria e parangaria, commutandoli, nell’anno successivo, in contribuzioni pecuniarie. Una ulteriore sentenza dell’8 agosto 1758 costituiva, nella lite, una soluzione di compromesso, poiché il Tribunale aveva deciso che “s’incorporasse alla R. Corte la giurisdizione delle seconde cause civili, criminali, e miste sopra le terre di Spadola, Serra, Bivongi, Montauro e Gasperrina” - come scrisse Francesco Vargas Macciucca - ma che “per rispetto della giurisdizione delle prime cause civili, criminali e miste si assolvesse la Certosa dalle pretensioni del Fisco e dei denuncianti”. Finché nel 1765, rivista la causa dietro ricorso sia della Certosa sia dei denuncianti, il monastero perdeva pure la giurisdizione delle prime cause e Serra, affrancata dalle servitù feudali, diventava “città regia”. Fu anche in conseguenza di questa lite che Dom Benedetto Tromby, dopo aver dato alle stampe nel 1766, contro Vargas Macciucca, la Risposta di un anonimo certosino professo della Certosa di S. Stefano del Bosco [...], pubblicò a Napoli, tra 1773 e 1779, la sua monumentale Storia critico-cronologica diplomatica del patriarca S. Brunone e del suo Ordine Cartusiano, nella quale, oltre a tracciare un ampio resoconto delle vicende del monastero, si preoccupò di inserire la documentazione diplomatica di sostegno a cominciare dai tempi della prima donazione di Ruggero d’Altavilla a Bruno di Colonia. Un’impresa, questa del dotto monaco calabrese, che può considerarsi una sorta di “effetto collaterale” di quella lunga lite, ancora più meritoria se guardata dalla prospettiva attuale, giacché ha consentito, nonostante le distruzioni e le dispersioni originatesi con il terremoto del 1783 e proseguite sino ad epoche relativamente vicine, la trasmissione di un corpus di materiali di notevole interesse.

“Portare grano, vino, orgio” al monastero e “accongiare le serre, molendini et bactinderii” 

La controversia fiscale settecentesca, risultato anche del nuovo clima intellettuale e civile dell’epoca, deve essere, però, collocata, per una sua adeguata comprensione, su uno sfondo che parte da più lontano e che vede il consolidarsi, nel lungo periodo di alcuni secoli, di una feudalità ecclesiastica che per l’estensione dei possedimenti terrieri e la quantità dei beni posseduti conoscerà il proprio apogeo proprio tra XVII e XVIII secolo. Infatti, nella Historia diplomatica Friderici secundi di J.L.A. Huillard-Breholles è riportato un diploma dell’imperatore svevo datato 1220, quando da quasi tre decenni ai certosini erano subentrati nella conduzione del monastero i cistercensi, in cui gli obblighi dei servi sono chiaramente delineati: “[...] Erano costretti a lavorare gratuitamente [...] ben 116 giorni all’anno, cioè due giorni a settimana in virtù di angaria e una giornata al mese a titolo di perangaria - scrive Giuseppe Caridi - A queste andavano aggiunte altre 12 giornate annue straordinarie di lavoro gratuito in corrispondenza delle fasi più impegnative dei cicli colturali [...]. A censi in natura erano tenuti poi tutti coloro che esercitavano attività rurali nelle terre di pertinenza feudale del monastero. Gli allevatori di ovini erano costretti al pagamento dell’erbatico, mentre quelli che portavano al pascolo i suini dovevano a loro volta versare la tassa di ghiandatico. I contadini erano obbligati a corrispondere al monastero un decimo del mosto e dei cereali e un quinto delle olive e degli ortaggi”. E circa tre secoli dopo, negli anni 1533-34, obblighi e prestazioni degli “uomini di S. Stefano del Bosco” venivano di nuovo riportati in un importante documento, la Platea della Certosa - oggi conservata a Reggio Calabria - che l’imperatore Carlo V fece stilare per procedere al censimento dei beni del monastero: “Ipsi homini et vaxalli de li casali de la Serra et Spadola so tenuti servire al dicto monasterio, priore et monaci de esso qui pro tempore fuerint cum li loro boi senza solario ad portare grano, vino, orgio necessario al victo de dicto monasterio [...]. Et le altri homini et vaxalli de dicti casali Serra et Spatula le quali non hanno boi so tenoti fare servicii personali al prefato monastero senza solario et per angaria so tenoti andare una iornata videlicet una ad andare et un’altra ad tornare, senza solario nessono, ma solamente havere le spese et lo vino et ultra dicti doi iornate so tenoti servire alli dicti priore et monaci, solario mediante, dove piace ad ipsi priore et monaci [...]. Et più ipsi homini et vaxalli de li dicti casali Serra et Spatula confexi fuerunt che so tenoti ad angaria ad accongiare le serre, molendini et bactinderii de lo dicto monasterio [...]”. Una situazione che difficilmente avrebbe potuto essere ignorata alla luce delle esigenze che il pensiero anticlericale e anticuriale del XVIII secolo aveva fatto valere.

Contro il priore Sperduti

Tuttavia, non si erano chiuse nel Settecento illuministico le liti tra i serresi e il monastero se, successivamente al terribile terremoto del 1783, negli anni difficili e tormentati della ripresa, nuove questioni erano insorte, questa volta contro il priore del monastero dom Gregorio Sperduti. Ne fa fede un Bozzo di relazione sulla causa del Clero ed Università di Serra col P. Priore della Certosa di S. Bruno del 1805, conservato presso l’archivio arcivescovile di Reggio Calabria e di cui ha dato conto padre Francesco Raffaele in un contributo (Un’inchiesta alla Real Certosa di S. Stefano del Bosco), uscito nel 1963 nel terzo e quarto fascicolo della rivista Archivio Storico per la Calabria e la Lucania. Le accuse, sintetizzate in nove “capi”, non erano di poco momento e al priore Sperduti si imputava, innanzitutto, di aver preteso dal clero di Serra “dieci ducati per la Visita” (ossia la visita pastorale che in qualità di ordinario della diocesi nullius avrebbe dovuto fare ogni anno) e “cinque rotoli di cera nelle feste della Purificazione e di S. Bruno” e “di avere riservato un solo giorno la settimana per la distribuzione dell’elemosina”, dando oltretutto meno del suo predecessore dom Pietro Paolo Arturi. Poi, si passava al capitolo dell’imperfetta e scarsa ospitalità a cui si dedicava il monastero e degli arbitrii che erano compiuti dalla spezieria della Certosa nella distribuzione delle medicine, aggiungendo anche l’accusa della “mancanza di scuole o seminario per educarvi i giovani ecclesiastici di Serra”. Altre accuse concernevano questioni di economia serrese, quali l’aggravio delle spese per l’acquisto di tavole o le limitazioni all’usanza di raccogliere legna nelle montagne della Certosa, incolpando ulteriormente dom Sperduti di usare “la soperchiaria di far pascolare gl’armenti della Certosa ne’ poderi altrui, e di avere aumentato l’estaglio per gl’affitti de’ terreni”. Completavano il quadro l’accusa di aver promosso agli ordini sacri don Luigi Giancotti e don Antonio Tucci “nonostante che avevano altri sacerdoti in casa” e quella, rivolta direttamente allo stile di amministrazione di Sperduti, di essere “inetto, insufficiente al governo, stordito e di tirannica condotta, che si lascia trascinare e regolare negl’affari dal suo Uditore D. Francesco Saverio Scicchitano, e Segretario D. Domenico Giancotti, persone descritte per disturbatori e nemiche della pace, venali, vendicativi, di mal talento, ingiuste, e che consigliano il Priore a precipitanza”. Di tale imponente carico di accuse alla fine non rimase nulla, perché, avendo la Suprema Giunta Ecclesiastica di Napoli incaricato di dirimere la pratica Mons. Alessandro Tommasini, vescovo di Oppido, questi, dopo aver ascoltato numerosi testimoni, constatò, punto per punto, l’insussistenza dei rilievi e riuscì a ottenere la pacificazione delle diverse parti in causa. La Suprema Giunta Ecclesiastica, ricevuti gli atti relativi alla controversia dal Tommasini, rilevò unicamente, osserva padre Francesco Raffaele, che “la Maestà del Re era rimasta dubbiosa a riguardo di certe accuse contro il Vicario Scicchitano e il Segretario Giancotti, fatte da due padri certosini e che non risultavano formalmente confutate”. Ebbe buon gioco, tuttavia, Mons. Tommasini a controdedurre che su “circa 33 individui di quella monastica famiglia” solo due certosini avevano espresso lagnanze in merito all’accusa ritenuta non confutata e che per questo vi aveva attribuito scarso peso, ancor più se si considerava che quei due “così educati nel chiostro, non intesi del governo e creduli, tuttocché di buona morale, facilmente attribuirono a mala condotta quel che proveniva da necessità”. 

Postilla conclusiva su Sperduti (e sui mutamenti per Serra e per la Certosa)

Dom Gregorio Sperduti (e non per effetto della lite che lo aveva visto contrapposto ai serresi) sarebbe stato l’ultimo ordinario della diocesi nullius che faceva capo alla Certosa di S. Stefano del Bosco, come attesta un documento indirizzato il 15 maggio 1808 dall’Intendente di Calabria Ultra al Vicario Capitolare ordinario della diocesi di Gerace: “È volontà del Re che la diocesi di S. Stefano del Bosco si unisca a quella di Gerace, e che Ella ne prenda immediatamente il governo. Ho prevenuto l'ex-religioso D. Gregorio Sperduti di cessare dalle funzioni finora esercitate di ordinario di quella diocesi, della quale carica egli resta dismesso. Ella eseguirà per la sua parte questa sovrana disposizione e me ne darà riscontro. Gradisca intanto la mia stima e considerazione. - Giuseppe de Thomasis”. Risultava, così, profondamente modificato anche il quadro della giurisdizione che la Certosa aveva sino ad allora tenuto sui paesi di Serra, Spadola, Bivongi, Gasperina e Montauro. Abolita la diocesi nullius, il suo territorio era smembrato tra la diocesi di Squillace, alla quale erano assegnate Gasperina e Montauro, e la diocesi di Gerace, che incardinava Serra, Spadola e Bivongi e cominciava la sua amministrazione per mano del Vicario Capitolare Reginaldo Longo. Davvero era finita una lunghissima epoca.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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