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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Gli scrittori e il cibo. Materia per trattati, dotte enciclopedie, filologici commentari. Scrittori che diventano gastronomi, ma anche gastronomi che discettando sul cibo producono mirabile letteratura (e basti pensare al sommo Artusi della Scienza in cucina riletto da Piero Camporesi). Epifanie della buona tavola, dei cibi crudi e cotti, tante volte trionfo della gozzoviglia, come accade nei mirabolanti elenchi contenuti in Gargantua e Pantagruele di Rabelais, persino con un alimento povero, come le uova, di cui si sottolinea la multiformità delle possibili preparazioni: “Uova fritte, affogate, sperdute, sode, barzotte, al tegame, in tortino, frullate, ripiene, strapazzate, al latte di gallina, sotto cenere, gettate pel camino, incatramate”, con un ben rimarcato et cet. a chiudere la lista, quasi a indicare il suo possibile prolungamento ad libitum. Oppure si pensi ai peccati di gola di Gabriele D’Annunzio nel bel racconto che ne fa Giordano Bruno Guerri (La mia vita carnale. Amori e passioni di Gabriele D’Annunzio, Mondadori, 2013): “L’altra sera, dopo ventinove ore precise di stretto digiuno irrigato d’acqua ascetica … inghiottii sette uova col guscio, e il nero caviale del mio diletto infetto Cicerin, e i misteriosi scampi del mio Carnaro tradito, e la carne dell’irsuto porco e gli afrodisii tartufi del detto porco dissepolti, e le più acerbe frutta, e il più grosso cacio, e il più denso caffè”. Il cibo degli scrittori si pone come realtà e fantasia, banchetto vissuto e lauto convivio soltanto immaginato, desiderio inesaudito e sogno realizzato. Per giungere alle ricette (anche immorali) del detective-gourmet Pepe Carvalho, geniale creatura letteraria di Manuel Vázquez Montalbán.
Poesia del mangiare
Porta il titolo di Venerdì e domenica. Poesia calabrese del mangiare (Fondazione Carical, 2004) il bel libro, una delle sue ultime fatiche, che Sharo Gambino ha dedicato al cibo nelle estreme latitudini meridionali, nostra “nuvola di carta” del mese di agosto. E ci sarebbero (intanto) alcune cose da dire su questo titolo, che rinvia, nel medesimo tempo, all’astinenza e al pasto della festa, alla privazione quaresimale del venerdì e all’abbondanza della domenica, ma anche a una “poesia del mangiare” che è almeno da intendersi in duplice senso, quello dei poeti che lo hanno messo in versi il mangiare e pure del mangiare stesso come poesia. Il mangiare, si badi bene, non semplicemente il cibo, bensì l’atto, concreto, pieno, reale, godurioso, l’esercizio delle papille gustative, il momento, insomma, in cui il cibo entra in bocca e viene consumato, ancor meglio se in una godereccia tavolata. Come accade in una composizione di Rocco Ritorto, in cui lo stare a tavola è occasione per mescolare chiacchiere e buona cucina: “Ogni tantu, pocu amici, / Ndi cogghimu e, ‘nt’a sirata, / Ndi nda jamu sutt’a Peppi / E facimu ‘a schiticchiata / Tra ‘nu ruvul’ ‘i sarzizzu / E ‘nu quarru ‘i pecurinu / Ndi jettamu u ciurra ciurra / E facimu nu gesinu”. E c’è, poi, almeno un terzo senso del mangiare, che è da intendersi proprio come il cibo, se si pensa quanto sia di uso comune l’espressione “è pronto il mangiare?” (“è prontu lu mangiari?”), con riferimento, appunto, al cibo. Cibi e bevande, bisognerebbe aggiungere, se un posto d’onore spetta, ovviamente, al vino, poiché “latte e acqua non basta” (Tommaso Campanella) e persino a Gesù Bambino ci si presenta dopo una solenne bevuta: “Bombinuzzu, mbriacu di vinu / Mbriacu di vinu vi vinni a trovari”. E naturalmente non manca il porco e le sue infinite prelibatezze nelle strofe e nei versi antologizzati da Gambino, né la poesia del pane e neppure quella di alimenti come gli immancabili peperoni e peperoncino: “Li pipiriedhi pue / nci piacianu abbruscenti, / non chidhi tabarani / chi non dicianu nenti” (Mastro Bruno Pelaggi). E giunti a questo punto si vorrebbe provare a “scartare di lato”, come fa il bufalo in una ben nota canzone, e non per cadere (come il bufalo) bensì per antologizzare l’antologista, a sua volta autore di strepitosi brani sul mangiare, due dei quali ripresi proprio in questo Venerdì e domenica.
I dolci della memoria
Granite, mpingi-mpingi, cundragghi. ‘Nzulli (ci ritorneremo), abbaculi, mastazzola. Sono questi e tanti altri i dolci della memoria, a cui la fantasia di Gambino si abbandona, lasciandosi cullare dalle rimembranze dei loro odori, riassaporandone nell’immaginazione i sapori. Per esempio, le caramelle a vetro, che si facevano “sciogliendo a fuoco lento in una casseruola sul fornello a spirito zucchero insaporito con essenze alla menta, all’arancio, al limone, e tagliato in minuscoli quadratini dopo steso sul marmo e spianato allo spessore di un sottile, sottilissimo, vetro, rapido a dissolversi nella saliva”. Celebrante di questo e altri riti alimentari “lu prufissuri”, che aveva un “buco di negozietto” nella prima casa di Serra provenendo dall’Angitola, maestro nell’incomparabile arte di “confezionare i dolci più poveri e meno costosi”. Dopo di lui, nuovo riferimento dolciario la brevilinea zia Stella, regina di uno “stambugio” adibito a negozio, “il regno delle sette delizie”: “Ah, potercela fare da padrone, per saziarmi di poglie di torroncino zucchero e cacau atturatu, le arachide o noccioline americane, tostate nel tostacaffè a tamburo cilindrico sulle fiamme del focolare; di taralli, di montagnole di pignolata rivestite di bianco annaspru, glassa e diavolini, pastette di farina latte ed uova, caramelline che nel sapore e nella forma imitavano lo spicchio di arancio o di limone”. E nelle feste estive i gelatai, che “armavano baracca nei punti strategici delle piazze” e compravano la neve per le granite dai montanari serresi che l’avevano stipata dall’inverno nelle niviere. La neve fresca, invece, era l’ingrediente base della scirubetta: “Mia madre – ricorda Gambino – ne riempiva un recipiente di quella caduta sui tetti fuori la finestra, candida, friabile, conservava l’impronta delle dita che l’avevano stretta, la insaporiva col succo di limone o arancio o caffè o vino cotto, in quattro e quattr’otto era bell’e preparata la scirubetta per l’intera famiglia”. Arrivavano anche quegli “sgambitti” dei mastazzolari sorianesi, che non vendevano solo i mostaccioli polimorfi di farina e miele, ma pure lo mpingi-mpingi: “Una barretta nerastra, di farina di ndianu, granturco o mais che dir si voglia, e semi di sesamo impastati con mosto, cotta nel forno, poi intinta nel miele. Non era granché come sapore, ma aveva il pregio di costare poco. Ho di recente appurato che non lo fanno più perché mangiavamo quella porcheria solo noi della Serra di una volta”. E si andava pure a comprare i “rotoli” dei dolci di forno di cui le madri non possedevano la ricetta: friscotta, taralli rossicci, giambirlietti, ‘nzulli di cui a Reggio minacciosamente si favellava per dire a qualche malcapitato: “Ti fazzu mancu ‘i ‘nzuji d’a Serra mu ti piacinu”, che quanto a complimenti per un dolce (pur usati in forma impropria) è tutto dire.
“Ai funghi io parlo”
È una vera e propria dichiarazione d’amore quella che Gambino, smessi i panni dell’antologista di altri, antologizzando sé stesso porge ai funghi nell’altro brillante suo testo che si può leggere in Venerdì e domenica dopo quello dedicato ai dolci della memoria, un amore adulto scaturito da un tenace odio infantile e adolescenziale, con i saporosi miceti lasciati nel piatto che la madre aveva amorevolmente preparato. Un amore appassionato, che gli fa attendere con ansia, da un anno all’altro, la stagione della raccolta per spostarsi con il paniere dal paese nei boschi, quasi a far concorrenza ai fungaioli di professione. E quanto gusto c’è nella descrizione veloce e gioiosa delle ricette per consumarli, una sorta di espiazione per le colpe dell’infanzia spesa a far finire nella spazzatura il saporitissimo prodotto del bosco: “Gli arditi infarinati e fritti, tirati su dall’olio bollente dorati e croccanti oppure cotti in una tortiera insieme alle patate a tocchetti e pezzettini diversi sotto uno straticello di pan grattato e una manciatina di prezzemolo; la gallinella (in italiano ditole o manina. Orrendo!) dopo averne rotta con la bollitura la persistente callosità, finita di cuocere tra pomodori pelati, cipolla, possibilmente di Tropea, e foglie di basilico (ci metto anche una diecina di capperi), ma non da sola, le faccio tenere compagnia dall’acidulo galluzziellu (in italiano finferlo), col quale si sposa divinamente ed anche dal rosito quando ho voglia di consumarlo, quest’ultimo, in modo diverso dal consueto, che sarebbe di adagiarlo sulla brace e offrirgli il destro, con un pizzichino impercettibile di sale, di cavar fuori gemendo quel sughetto di cui è avarissimo, sufficiente appena a umidirti la lingua, ma si sa che il piacere, per essere davvero tale, va assunto in piccole dosi. Quanto per non tradire il mio carattere di Bastian contrario, il mio alto gradimento non è per il superlodato porcino, ma per quello che più cocciutamente rifiutavo a mia madre. Non credo di averlo del tutto identificato nei libri dei funghi di cui ho arricchito la mia biblioteca […]. È un tricholoma gambosum o una russula lutea? Al mio paese, chissà perché, lo chiamiamo ‘ngullitu […]. Questo fungo, che sbuca biancorosato quando il rigore invernale è annunciato dalle gelate di fine ottobre – inizio novembre, col suo persistente profumo dice il suo orgoglio di essere figlio della terra del bosco ed anche cotto nel passato di pomodoro insieme alle patate e foglie di basilico non rinnega le origini terrigne”. Eppure è proprio il porcino, pur messo in secondo ordine da Gambino nel confronto con lo scientificamente da lui non identificabile ‘ngullitu, a costituire il sogno neppure tanto recondito del cercatore di funghi, che inevitabilmente lo immagina “bello, aitante, sano, colorato”, quasi con tinte e tonalità da Walt Disney. Un porcino che fa trionfale ingresso nella mitologia locale anche sotto altro nome, il “fungo di ferro”: “Noi della Serra di San Bruno ne abbiamo uno del tutto particolare: è il fungo di ferro. Ferro non è un lessema, ma il cognome di un vecchio satiro mio vicino di casa alla fine degli anni Venti, che aveva l’orto alle falde della montagna […]. Ferro, che per via dell’arteriosclerosi galoppante aveva totalmente smarrito il senso della misura e nelle balle che raccontava non temeva il confronto col barone di Münchausen, aveva trovato un fungo porcino talmente grande che aveva dovuto rinunciare a portarselo a casa non avendo a disposizione il segone a quattro mani per reciderlo. Quel fungo fu l’eredità perpetua che Ferro lasciò e che i suoi concittadini serresi hanno accettato senza beneficio d’inventario ed ancor oggi […] lo vedono proiettato dall’immaginazione in mezzo alle felci, tra gli anfratti, in fondo ai burroni”. Giusto per confermare, pure con la vicenda di Ferro, questo carattere duplice del mangiare: sogno e realtà, immaginazione e concretissimo atto quotidiano.
Sua maestà lo ‘nzullu
Ed è strano, stranissimo, che in questo suo auto-antologizzarsi a Gambino sia sfuggito forse il pezzo più bello che abbia composto sul mangiare, un inno allo ‘nzullu che proponiamo qui per intero e che il lettore potrà riassaporare anche nelle pagine di Sull’Ancinale, pubblicato in prima edizione nel 1982 e poi riedito per le cure dell’associazione serrese “Il brigante”: “Signori, se a questa cosa d’un caldo color cammello, imperfettamente rettangolare, che ora ho il piacere di sottoporre alla vostra attenzione e al vostro gusto, diamo uno sfondo vagamente iridato, Foutrier potrebbe anche scambiarla per una delle sue ‘informali’ elucubrazioni e Palma Buccarelli [all’epoca direttrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma, n.d.a.] dargli ragione in due o trecento pagine della sua orfica prosa. Invece la cosa è più e meglio di un quadro del pittore francese. Signori, è una tavoletta d’un rotolo di ‘nzullu, un dolce particolare, serrese come l’Ancinale e i pioppi di San Rocco, San Bruno nel lago e la facciata dell’Addolorata. Un dolce che se girate il mondo intero non lo troverete che solo a Serra San Bruno nelle vetrinette delle opposte sorelle Malerba, nelle vetrine di Bosco, Amato, Fiorindo, punto e basta, circolo chiuso dal quale la formola per confezionarlo non esce come non escono dalla Russia i dati del velivolo a bordo del quale Yurii Gagàrin s’è fatto una capatina per primo nello spazio. Osservatelo, tastatelo. Duro come la capoccia d’uno calabrese per generazione. A prova di martello, apparentemente, ma in effetti fragile come una lastra di vetro: basta un colpetto su uno spigolo ed eccolo frantumato. Prego, mettetevene in bocca un cantuccio, anche se siete sdentati … Che vi succede, vi stupite? È appunto questo, che uno non si aspetta! È questa la gradita sorpresa! In bocca, lo ‘nzullu si rende tenero, si scioglie, si fa poltiglia, si lascia inghiottire senza fatica e vi regala quell’ultra sapore caldo ed intenso (ed un afrore che sa ancora di forno, intimo) interrotto dal gradito incontro con una mandorla tostata, ma ritrovato subito dopo mentre tutto cerimonioso vi invita ad accompagnarlo con trasparente vermouth o se preferite con uno scintillante marsala. Signori, se venite a Serra San Bruno ed avete visitato la Certosa ed avete respirato l’aria della foresta ed avete bevuta la nostra fresca e leggera acqua, ma non avete assaggiato lo ‘nzullu, sarà come dire che siete andati a Roma e non avete visto il Papa. Dovrete tornarci apposta”. Una Serra anche di luoghi e di persone che non ci sono più (le vetrinette delle “opposte sorelle” Malerba, le vetrine sul corso di Amato e Fiorindo), di cose mutate (la Certosa visitabile), di rimpianti e nostalgie per un tempo in cui ancora si poteva parlare compiaciuti della “nostra fresca e leggera acqua” (amata e ricercata pure dai forestieri che si dissetavano durante le villeggiature o le gite dei giorni festivi).
E nella Pentecoste serrese una “giostra di sapori”
Una Serra che nella ricorrenza di Pentecoste conosceva, nello stupefacente scenario naturale di Santa Maria, il trionfo dell’eccesso alimentare, che Gambino in Sull’Ancinale descrive con un gusto quasi rabelaisiano per l’abbondanza e per la varietà del cibo, i suoi colori, odori, sapori, le sue forme, i suoi riti collettivi: “Le leccornie migliori fors’anche di Natale e di Pasqua imbandiranno le candide tovaglie sull’erba, il capretto soffritto nella cipolla e le frittate coi dischi di ricotta e di salciccia … ma prima il coltello forzerà la crosta dorata di monumentali timballi, ne aprirà le tenere viscere e da quella cornucopia si rovesceranno nel piatto polpettine speziate e spicchi di uova sode, rossa soppressata pepata, rosato prosciutto, tenero formaggio che si fila tra vene di pasta leggermente arrossata dal ragù: una giostra di sapori che s’arresta con un sorso di vino e riallegra le papille con la nuova forchettata che non tarda. Questo, intanto, è mangiare da malati, perché se volete oggi posso mostrarvi di cosa sia effettivamente capace uno stomaco blindato. Favorite, visitate una delle osterie accanto al lago, sotto la scalinata, sulle sponde del neonato Ancinale. Costruite di ginestra e di rami di abete, dentro hanno panche e tavoli zoppi e chi vi si siede ha lo stomaco che vi dicevo perché potete osservare con quale negligenza ricetta lo spezzatino di capra rosso di pomodoro, ma più per il pepe spagnolo che fa sudare e non lo spegne il vino nero rovesciato a cannate … Che c’è … Ah, quelle orride teste spellate di capra con la violacea lingua tra le gengive rosa? Anch’esse, cotte a puntino, fra men d’un’ora affogheranno nel vino in fondo a stomaci altrettanto ben costruiti, accanto a pane scuro di grano, salato formaggio lacrimante, nere olive infornate, lupini origanati”. Anche questa una Serra che non c’è più, insieme con le baracche di Pentecoste e l’anti-igienica testa di capra esibita alla pubblica visione prima di essere mangiata, di cui, davvero, non resta forse altro che trarre delle memorie.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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