Domenica, 26 Marzo 2023 09:47

Riti di flagellazione a Pasqua. I vattienti in Calabria

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Vattienti a Nocera Terinese nel 2019 (foto di Alfonso Bombini, ICalabresi.it) Vattienti a Nocera Terinese nel 2019 (foto di Alfonso Bombini, ICalabresi.it)

Un omaggio a un editore e naturalmente un omaggio a un libro vuole essere la terza nuvola di carta di questo 2023, che, probabilmente, avrebbe avuto qualche difficoltà a intraprendere il suo “volo” se non si fosse imbattuta in una bella figura novecentesca (ma con più di un ventennio di ulteriore propaggine nel secolo attuale) che risponde al nome di Francesco Tassone - scomparso nel febbraio dello scorso anno - giudice, poi avvocato, impegnato e convinto meridionalista, con il marchio Qualecultura all’origine di un’impresa editoriale sempre in vivo dialogo con gli studi contemporanei sul Mezzogiorno e sulle sue culture. Luigi M. Lombardi Satriani, Nicola Zitara, Sharo Gambino, Vito Teti, Rocco Brienza gli erano stati compagni in questo cammino, che sembrò quasi eleggere a proprie pietre miliari il pittore Enotrio (si pensi al volume che Dario Micacchi ebbe modo di dedicargli per Qualecultura) e il poeta Franco Costabile, di cui Tassone editò La rosa nel bicchiere e Il canto dei nuovi emigranti. E perfettamente solidale a questa costellazione culturale è Vattienti. Osservazione e riplasmazione di una ritualità tradizionale di Franco Ferlaino (Qualecultura - Jaca Book, 1990) che ricostruisce, con gli strumenti dell’antropologia e della storia, un rito pasquale che nell’osservazione demologica ottocentesca era stato seccamente rubricato da Apollo Lumini sotto l’etichetta di “fanatismo di alcuni penitenti”.

“Relitto di barbarie medioevale”

Non solo la demologia del XIX secolo, ma anche uno storico autorevole come Ernesto Pontieri, insigne medievista originario di Nocera Terinese (uno dei luoghi del rito dei vattienti), si era misurato, con un primo articolo nel 1921 e un secondo contributo nel 1967, con i “flagellati” calabresi della settimana santa: “Per le vie è un movimento di gente allegra ed oziosa, che entra ed esce dalle chiese, sosta nelle piazzette, va su e giù felice di godersi l’annuale ricorrenza. Intanto capannelli di ragazzi sbucano da ogni vicolo; crocchi di donnucce curiose si formano qua e là: i balconi e le finestre si popolano; ad un tratto: - Eccoli! Eccoli! I battenti – grida una voce. Ed in un baleno tutti i monelli accorrono allo spettacolo incosciente di gente forse tutt’altro che devota. La quale […] senza la giacchetta ed in sola maglia, scalza e nude le gambe e la maggior parte delle cosce, e il volto nascosto da un velo nero e incoronata di spine, percorre con le mani conserte al petto e con andatura compunta le vie principali dell’abitato. […] Sulle scalinate delle chiese, davanti agli usci delle case amiche, lasciano sprizzare il sangue caldo e rosso dei polpacci delle gambe e dalle cosce, percosse e punte da un tappo – cardo – aculeato. Poi, quando l’orrido e degenerato atto di penitenza è compiuto e l’effetto del buon vino scemato, i battenti rientrano a casa, dove le buone e pazienti mogli hanno preparato un bagno tiepido di rosmarino, che lava e cicatrizza le minuscole punture delle carni sanguinanti”. Rito cruento che era ricondotto da Pontieri, nel contributo del 1967, nel quadro storico delle compagnie di penitenza del XV secolo, pur se la mancanza di testimonianze documentali lasciava “sfumare” la possibilità di rintracciarne con precisione le origini e di coglierne l’eventuale diversa fenomenologia nel passato. Più discutibile, alla luce delle discipline etno-antropologiche, la valutazione che Pontieri proponeva del rito: “fenomeno spoglio di ogni serio afflato mistico”, “nota folkloristica locale intrisa di fanatismo” (ancora questa categoria, come in Lumini), “relitto della barbarie medioevale”, che appariva, conseguentemente, resistente sia “alla moderna concezione della ascetica cattolica” sia “alla civiltà contemporanea”. Termini ed espressioni (da rito “orrido” e “degenerato” a barbaro e pervaso di “fanatismo”) che nessun antropologo potrebbe, oggi, sottoscrivere.

Il cerimoniale dei vattienti

In realtà il rito, come osserva Franco Ferlaino in Vattienti, non coincideva né si esauriva nella scena vissuta e rappresentata in pubblico. Un lungo e meticoloso antefatto, a sua volta strutturato in maniera rituale, ne costituiva il prologo, durante il quale i suoi “attori”, i battenti, svolgevano il loro cerimoniale mentre la processione del sabato santo si diffondeva per le strade. Già nei giorni precedenti il vattente “si è assicurato la disponibilità di due giovani amici: uno dovrà seguirlo in qualità di ‘acciomu’ (Ecce Homo) e l’altro dovrà portargli appresso un contenitore pieno di vino e versargliene di tanto in tanto sulle ferite affinché non si richiudano subito e perché il sangue non coaguli velocemente”. Il giorno della processione comincia con la cerimonia della vestizione, dopo aver messo a bollire in acqua sul fuoco i ramoscelli di rosmarino per ottenere un infuso che sarà utilizzato come disinfettante: l’Ecce Homo “toglie o rimbocca i pantaloni fin sopra il ginocchio. Lasciando il dorso nudo cinge i fianchi con un panno rosso […] e calza una corona di spine acuminate ricavate da un arbusto detto ‘spina santa’ che viene comunque intrecciata in modo da evitare ogni puntura”, poi mette in spalla, come una bandiera, “una croce di listelli di legno interamente avvolti, con procedimento a spirale, da bende rosse”. Parallelamente, anche il vattente provvede a vestirsi: indossa una maglietta (o una camicia) e un pantaloncino corto per lasciare scoperte le cosce sulle quali si accingerà a battersi, poi mette in testa “un largo fazzoletto nero” (il cosiddetto mannile) e sopra il fazzoletto una “voluminosa corona”. A questo punto vattente e acciomu, scalzi, si legano insieme alla vita con una cordicella e il vattente poi si arrosa, “si bagna le mani nel tiepido infuso di rosmarino e si riscalda i polpacci delle gambe e delle cosce”. Esaurito anche questo preliminare, il vattente può cominciare a percuotersi con la rosa (un piccolo disco di sughero) per poi passare al cardo, un altro disco su cui sono stati fissati tredici acuminati frammenti di vetro. La prima flagellazione del vattente avviene sulla soglia della propria abitazione e si conclude marchiando con la rosa l’uscio della casa. Ora può iniziare la processione dell’uomo per le vie del paese, già richiamata nella descrizione di Pontieri, con le battiture che hanno come proprio teatro alcuni luoghi privilegiati: i sagrati delle chiese, le croci o i calvari incontrati lungo il percorso, la soglia di qualche casa di amici. Infine, dopo circa un’ora, il rientro nel magazzino dove è avvenuta la preparazione. Il vattente, l’acciomu e il portatore di vino, fanno ritorno al punto di partenza, con l’infuso di rosmarino, utilizzato come impacco sulle ferite, che arresta il versamento di sangue.

Ostentare il sangue, avere sangue “da buttare”

È il risultato di una storia complessa il rito dei vattienti, osservato e documentato da Franco Ferlaino a Nocera Terinese, ma connotato da una dislocazione geografica calabrese più ampia se è stata rilevata la sua presenza anche a Terranova di Sibari (dove, evidenzia Ferlaino, tuttavia scompare intorno alla metà degli anni Settanta del XX secolo) e a Verbicaro, con una sua diversa morfologia in Campania, a Guardia Sanframondi in provincia di Benevento, dove è associato alla festa di metà agosto dell’Assunta (e non alla ricorrenza pasquale come in Calabria) e si svolge, di norma, secondo un ciclo settennale. Dislocato nello spazio, il rito si caratterizza nel tempo per una storia non lineare, segnata da abbandoni e riprese e da trasformazioni morfologiche (esemplare, in questo senso, si può considerare l’introduzione tardiva della figura del portatore di vino) che indicano come le stesse “tradizioni” debbano essere considerate in maniera storica, non pensate come strutture atemporali e immobili, bensì soggette alla storia variabile e varia dei gruppi sociali, dell’economia, delle mentalità, delle culture. Non solo, ma il rito dei vattienti rinvia ad alcune delle questioni più controverse e dibattute nelle discussioni intorno allo status delle culture e del Mezzogiorno italiano: il rapporto tra osservatori e osservati, con la fondamentale questione dello “sguardo esterno” che ha spesso costruito pregiudizi culturali che non è  fuor di luogo definire etnocentrici; le relazioni tra cultura cosiddetta “alta” e cultura popolare, con il ruolo storico giocato, per esempio, dalla Chiesa, tra appropriazione e rifiuto, tra condanna per gli esiti “paganeggianti” e procedure di cristianizzazione; la considerazione del Meridione come terra “folklorica”, arretrata, arcaica, intessuta di “superstizioni”, dove quasi ritrovare quel “primitivo” cancellato altrove da un’intensa modernizzazione. Quel che è certo, per isolare dal contesto l’elemento più significativo del rito, è la centralità del sangue e della sua intenzionalmente provocata effusione, liquido corporeo dalle valenze simboliche insieme positive e negative, segno di morte e di vita, linfa sparsa (si pensi al caso dei martiri antichi e nuovi) per effetto delle violenze subite e linfa che feconda, irrora, è simbolo di nascita e rinascita. Una valenza simbolica ambivalente che, tuttavia, possiede nel rito dei vattienti una significazione eminentemente positiva: “[…] I ‘vattienti’ – osserva Franco Ferlaino – sperimentano e trasmettono l’esaltazione e l’eccitazione della vita ostentando lo spargimento della sua stessa essenza: il sangue. Ostentare il sangue, nella comunità, acquista il significato di essere vivo, forte e vigoroso, tanto da poter persino effondere la stessa linfa della vita. […] Il soggetto che effonde intenzionalmente il sangue è consapevole della propria forza, della propria esuberante vitalità fisiologica derivantegli dalla consapevolezza di un superiore possesso del prezioso elemento. […] Il ‘vattente’ ideale, nell’immaginario collettivo è colui che ha sangue da buttare”.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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