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Naturalmente un manoscritto (o forse no, tre)
Consegnati Misasi e Dumas agli archivi digitali del Vizzarro, bisogna dire, almeno, di un terzo “caso”, a metà strada tra storia e invenzione, che si snoda lungo una durata plurisecolare, con un racconto che inizia il 25 maggio del 1091 sopra una barca che attraversa la tempesta e si conclude malinconicamente nel 1822 dentro un monastero abbandonato. Si intitola Histoire de notre Chartreuse en forme de Roman (e per chi volesse leggerlo esiste anche un’edizione a stampa pubblicata da Analecta Cartusiana nel 2005) e la “Chartreuse” di cui si parla altro non è che la Certosa di Serra San Bruno, mentre storia e romanzo vengono evocate sin dal titolo per dire sì che i fatti narrati sono storia, ma che le si fa indossare l’abito più piacevole del romanzo (con il risultato, come vedremo, che tante volte sia rimasto solo questo e non la storia). E se qui si volesse e potesse fare filologia bisognerebbe, con qualche lunghezza di argomentazioni, addentrarsi nella vicenda dei due manoscritti che contengono tale “storia in forma di romanzo”, nel contenuto molto vicini l’uno all’altro secondo un’osservazione di Dom Basilio Caminada e di cui in un catalogo d’archivio, che censisce uno dei due esemplari, si identifica l’autore in Fr. Arséne Compain, quello stesso Compain, monaco certosino rimasto a presidiare nei difficili frangenti post-sisma settecentesco il monastero, che il 21 ottobre del 1844 sarebbe morto per omicidio. E bisognerebbe pure provare a scioglierlo il “giallo” dei due manoscritti (che affianca, in questa storia, l’altro “giallo” della morte violenta dell’autore), che però e forse potrebbero essere tre, perché in una nota del predetto catalogo d’archivio dopo aver definito il testo censito “sfortunatamente incompleto”, si aggiunge che quello completo avrebbe potuto trovarsi presso la Certosa di Cervara. Anche se (e di nuovo forse) i brogliacci d’archivio potrebbero essere soltanto i due presenti a Serra, non potendosi escludere che il secondo esemplare del manoscritto serrese sia proprio quello della Cervara, giunto successivamente, per qualche via, a Serra. Insomma, un bel garbuglio, quasi un romanzo nel romanzo, del quale, l’estensore della nota archivistica in francese, dice che su “uno sfondo storico e tradizionale l’autore ricama […] dei racconti romantici accattivanti”, ma con dettagli a “colori vivi” da controllare.
Il “ricamo” dell’autore (e il supplizio del brigante Sodoro)
Appunto, da controllare. E anche a non essere pedanti, con lo scandaglio minuto dei particolari, cose che non quadrano ce ne sono molte e si potrebbe anzi dire persino troppe, a cominciare dall’incredibile navigazione su un vascello, tra le procelle nel golfo di Squillace, sul quale Bruno di Colonia e i suoi compagni sarebbero approdati nel 1091 in Calabria per fondare il loro eremo e per proseguire, per dirne appena un’altra, con la “festa campestre” che avrebbe fatto seguito alla consacrazione della chiesa di Santa Maria della Torre il 15 agosto 1094. Non solo. Ma il problema è pure che non è questione di rari “dettagli” coloriti, da controllare con una certa acribìa, poiché, in una vicenda storica sulla quale le fonti sono davvero laconiche ed esigue (e stiamo parlando, naturalmente, dei dieci anni tra il 1091 e il 1101 della presenza di San Bruno in Calabria), l’autore imbastisce un racconto lungo e talmente denso di particolari che dettaglio diventano le poche notizie certe che è possibile riscontrare, mentre su tutto il resto si libra il libero gioco della fantasia, ossia non la storia bensì il romanzo. E allora meglio lasciar perdere il romanzo di Bruno e dei primi certosini, così come le altre “favole” di cui l’Histoire è piena, per provare a cogliere il motivo di maggiore interesse del testo nel capitolo XVI, laddove in una Calabria ancora intenta a curarsi le ferite terribili del terremoto del 1783 fanno la loro apparizione (siamo nei primi anni del dominio francese) i briganti, con il loro “capo supremo chiamato Bizzaro” e la corte degli altri capi Cironte, Stoppa, Cuculo, Fortunato, Catroppa, Mansullo. E soprattutto, per il ruolo che avrà a Serra, vi appare Papasodaro, fuorbandito e prete di Olivadi, del quale la Platea della chiesa Matrice lascia questo indelebile ritratto: “Vestito con cappello a tre canali, sottana, Crocefisso in petto, e cinto di una lunga solfatara. Diceva di essere Realista, e si dichiarava contro i Giacobbini [sic!]: ma in realtà non era che un Capo Brigante”. Proprio sulle nefaste imprese di Papasodaro la nostra Histoire fornisce più articolati ragguagli: “La prima domenica del mese di Febbraio 1807 nel momento in cui tutti gli abitanti della Serra uscivano dalla chiesa, guidati da un tale che si faceva chiamare il papa Sodoro, […] entrano [i briganti, N.d.A.] nella città, piombano su questa folla indifesa, massacrano uomini, donne e bambini, tagliano le teste, che sistemano in cima a delle pertiche di un tintore, per spaventare il resto degli abitanti e per ottenere, attraverso questo mezzo, del denaro. Tutti fuggono. I briganti, approfittando di questo terrore, saccheggiano le case, essi conoscono bene quelle dove possono trovare da saccheggiare, poiché una parte di questi assassini è di questa città sfortunata”. Insomma, qui e nelle pagine seguenti, fa finalmente capolino la storia, che per Papasodaro si conclude nel peggiore dei modi, perché i francesi, riconosciutolo assieme a un compagno, danno “l’ordine che due forche di venti piedi d’altezza fossero erette sulla piazza del mercato alla Serra, per la domenica seguente” facendo appendere i due briganti e “mettendo una scritta a quella di Sodoro, al fine di fare spargere la notizia del suo supplizio per tutta la provincia”.
L’autore del “ricamo” (sopra tutto un “Meccanico”)
E non si potrebbe concludere, questa nota, se non si dicesse, velocemente, dell’autore dell’Histoire, di colui il quale, ricamando e imbastendo, aveva dichiarato di aver scritto, dentro il monastero serrese, la storia della Certosa presentandola in forma di romanzo, ma avendo, in realtà, composto una specie di romanzo che di storia aveva ben poco. Che fosse un certosino lo si è già detto (fratello converso, non monaco del chiostro e quindi non sacerdote), però bisogna ricorrere alle pagine della Platea della Matrice per trovarne un ritratto vivo, che non ne nasconde le qualità: “Egli alla epoca di sua dimora qui, poteva contare gli anni 45 circa di età, era di corta statura, di pelo rosso, come rosso era di volto, additante il suo temperamento sanguigno. […] Conosceva assai bene la lingua nazionale, e meglio conosceva l’Architettura Gotica, e il Disegno; intendeva anche la Musica ed il Ricamo in Lana: ed era su tutto Meccanico”. Ritratto che si completa con le parole dell’arringa di Giuseppe Marini-Serra, pronunciate dal celebre avvocato in difesa dell’imputato per l’omicidio del Compain e tratte da un suo volume di Allegazioni scelte pubblicato a Napoli nel 1870. Un ritratto, c’è da dire, in buona parte convenzionale, se l’illustre giurista discetta dapprima sul “pensier santo” del monaco assassinato di “servire l’evangelica fede, infervorandone il culto con l’esempio e con la parola”, per concludere, poi, sulle notti trascorse in “mistiche estasi” vagheggiando il progetto di “rialzare” le venerande mura della Certosa rovinate per effetto del sisma. Una vicenda, questa dell’omicidio, di cui hanno detto anche due compianti nostri scrittori (Sharo Gambino e Brunello De Stefano Manno) e che forse, pure per questo, meriterà un supplemento.
(Horace Rilliet, Ruderi del cimitero e del chiostro della Certosa, 1852)
*Nuvole è una rubrica curata per il Vizzarro da Tonino Ceravolo, storico, antropologo e scrittore
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