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Giunti al terzo anno della pandemia Covid-19 e in assenza ancora di un grande romanzo che la rappresenti come forse soltanto la letteratura sa fare, può essere il caso di riprendere in mano l’opera di uno scrittore calabrese – Raoul M. De Angelis (Terranova di Sibari, 1908 – Roma, 1990) – che fu anche al centro di un caso editoriale, un’accusa di plagio che l’autore italiano indirizzò verso uno dei mostri sacri della letteratura contemporanea, il franco-algerino Albert Camus. Di peste aveva parlato De Angelis e ancora di peste avrebbe parlato Camus pochi anni dopo, con una curiosa coincidenza che, forse, poteva legittimare nel calabrese il pensar male, il sospetto, il dubbio, se non fosse stato che Camus era Camus.
Tra Orano e Urana: equivoci e profezie intorno a due “epidemie” letterarie
E Albert Camus nel 1947 pubblicava, presso Gallimard, La peste, raccontando, con evidente allusione alla tragedia dell’Europa occupata da Hitler, di una terribile epidemia nella città di Orano in Algeria. Ma la “peste a Orano” di Camus aveva avuto un notevole precedente nel romanzo La peste a Urana di Raoul M. De Angelis, che era stato pubblicato da Arnoldo Mondadori nel 1943 nella prestigiosa collana “I narratori dello Specchio” (seconda edizione mondadoriana nel 1949, con riedizione Rubbettino, collana “Scrittori di Calabria”, nel 2006), antecedenza che avrebbe indotto l’autore calabrese a individuare nell’altro un plagiario, pur se la metafora della peste rinviava, nelle due opere, a contesti sostanzialmente diversi: la “peste” politica del nazismo in Camus, la “peste” esistenziale della lussuria e del male di vivere in De Angelis. E tuttavia desta sicuramente impressione, oltre al comune motivo ispiratore, la consonanza tra i due luoghi scelti dagli autori per ambientare le rispettive opere (la reale Orano in Camus, l’immaginaria Urana in De Angelis), così come fa un certo effetto segnalare, su un diverso piano, una notizia di cronaca riportata dai quotidiani nel 2003 che sembra rivelare, in relazione al romanzo dello scrittore francese, una profezia che si adempie, se è vero che non lontano da Orano, tra la tarda primavera e l’inizio estate di quell’anno, vennero individuati dieci casi di peste, con il conseguente contorno di richiami all’opera letteraria in cui l’epidemia era stata descritta oltre mezzo secolo prima. La fonte toponomastica di Camus, salvo sospettare un parziale calco del nome utilizzato da De Angelis, sembra essere proprio la geografia dei luoghi che, in quanto francese di Algeri, meglio conosceva, mentre per De Angelis bisogna forse ricorrere alle mitografie per individuare una derivazione da quelle, in grado di rafforzare il carattere immaginario e il denso simbolismo che attraverso il toponimo si voleva evocare. E non si può, d’altronde, assegnare al caso la forte rarefazione della toponomastica reale nelle pagine della Peste a Urana, nella quale l’ambientazione calabrese è resa credibile da pochi toponimi, quali Settingiano e Amantea, che rimandano a luoghi riconoscibili del territorio regionale. Curioso “destino” quello del titolo del romanzo di De Angelis, talvolta cambiato – come accade nel bel volume dell’editrice La Scuola dedicato alla Calabria nella collana “Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi” – in La peste a Urania. Proprio così, “Urania” (e non Urana) come il titolo della celebre collana di fantascienza di cui nel 1952 la casa editrice Mondadori, editrice anche del romanzo di De Angelis, aveva dato alle stampe il primo volume. Maggiore consuetudine con il nome Urania, rispetto al poco consueto Urana, che potrebbe aver indotto il lapsus? Una lectio facilior, come potrebbe dire un filologo, accolta al posto di una difficilior?
Il sangue, il vino, l’arancia
Dunque la peste, la malattia di Giovanni, il protagonista del libro di De Angelis che lo attraversa passando da un’avventura amorosa all’altra, tanto da farla diventare, con il suo carico di morti e contagiati, soprattutto metafora di una condizione umana, di una malattia dell’anima che corrode e devasta esattamente come una malattia del corpo: “[…] L’insistenza di quella scena gli comunicava il sospetto di una tentazione e di un peccato abituali: e che lui portasse con sé il morbo cancrenoso, non sul volto o sul corpo, ma dentro il cuore, altrimenti non si sarebbe spiegata l’ossessione per quegli abbracci sfogati apertamente, o per quei sottintesi, quegli sguardi, e l’insidia di certe parole mormorate e pertanto più che dette. Tutto era predisposto per ricordargli la carne, il tradimento, l’inferno; e la segreta malattia del sangue non era paragonabile alla peste? Non era la peste? […] Egli non sarebbe mai guarito di quel tragico male, se ogni avventura e ogni viaggio si concludevano in un episodio sensuale, in un incontro predisposto, in un invito irresistibile. Sentiva di desiderare Meletta, come aveva desiderata Angelica e Carla, e la donna del vicolo”. Analogia che viene ulteriormente ribadita in un dialogo successivo tra Giovanni e Meletta, orchestrato mediante un evidente gioco di rimandi tra la malattia interiore e quella del corpo: Giovanni trattato dalla donna come un “appestato”, Giovanni che ha la peste dentro e dalla quale non potrà guarire, Giovanni che si tocca il viso come se il contagio dell’anima gli stesse trasudando all’esterno e contaminasse pure il suo volto. E dunque malattia dello spirito la peste a Urana, Calabria, e però malattia che si era fatta anche reale nell’allucinato incipit del romanzo di De Angelis, che assume toni quasi espressionistici tratteggiando, in poche pagine, uno schizzo sulle presunte origini del contagio forse propagato dal sangue degli animali macellati, che scorre per le vie della città e viene orgiasticamente bevuto da “certe donnette macilente”, incitate dai loro amanti che ridono convulsi “un po’ stomacati da quella fede nel sangue”. Il sangue che scorre, ma anche il vino e il succo d’arancia, autentici suoi sostituti simbolici, che vengono avidamente ingurgitati, in una sorta di esaltazione dionisiaca, dai personaggi presentati nel paragrafo iniziale del libro. Il sangue, il vino, l’arancia. La Calabria, pur rarefatta come si diceva prima, che tuttavia “ritorna” per il tramite di alcuni elementi nei quali è possibile intravedere della sua “peste” storie, fatti, miti, natura e cultura, che sta al lettore cogliere.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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