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Giuseppe Bifezzi (Serra San Bruno, 12 settembre 1798 – Napoli, 13 giugno 1881), alla cui attività di inventore del telegometro abbiamo dedicato un precedente contributo sul Vizzarro, è anche uno dei pochi cartografi calabresi che la storia si sia incaricata di tramandare. Come ha osservato a suo tempo Ilario Principe, della cartografia storica calabrese si può parlare in tre diversi modi, ovvero “di carte prodotte da calabresi; di carte aventi per oggetto la Calabria; di una Calabria che può essere vista e letta attraverso le sue rappresentazioni cartografiche”. E tuttavia le rappresentazioni cartografiche sulla Calabria sono state spesso il risultato della scarsa conoscenza empirica della regione e, al contempo, una delle cause del misconoscimento della sua identità territoriale. In particolare le zone interne della Calabria hanno “pagato” a causa di notevoli deficit conoscitivi, di concezioni cristallizzate, di stili intellettuali troppo prudenti o reticenti nell’esplorare realtà poco note (o sconosciute). Un esempio è costituito proprio dal luogo d’origine di Bifezzi, l’area delle Serre calabre, connotata anche da proprie specificità nel paesaggio della montagna calabrese e, comunque, dotata di una propria identità geografica, culturale, civile e religiosa, ma che, osservata nel lungo periodo, ha conosciuto significative deformazioni.
Le Serre (o della geografia fantastica)
Esercizi di geografia fantastica e mentalità mitopoietiche hanno alterato, di fatto, la storia di questa e di altre zone interne, proponendo spesso mappe immaginarie di luoghi e avvenimenti. Infatti, quando anche si osservi superficialmente la cartografia storica calabrese, si nota come la raffigurazione dell’area delle Serre e del suo principale agglomerato urbano – sino al 1863 soltanto Serra e da allora Serra San Bruno – abbiano scontato deformazioni e parzialità, che si sono spinte fino alla mancata segnalazione del luogo, secondo un’ottica che tendeva a privilegiare la sua “emergenza” religiosa più famosa – la Certosa di S. Stefano del Bosco – a scapito dello spazio civile. Alcuni esempi: nella ricca carta del cosentino Prospero Parisio – prima carta speciale della Calabria, stampata a Roma nel 1589 – troviamo S. Stefano e non Serra; la stessa cosa accade nella più tarda mappa del reame di Napoli del 1702, firmata da P. Ganière, così come nella carta della Calabria Ultra inserita nella ristampa annotata da Tommaso Aceti (1737) del De antiquitate et situ Calabriae di Gabriele Barrio. Alla cancellazione del nome si potrebbe affiancare una seconda tipologia deformante, forse meno radicale, ma altrettanto rivelativa dei quadri mentali e dell’incerto status epistemologico della cartografia dell’epoca, a partire dai quali veniva prodotta la mappatura del territorio. In diverse carte, tra le quali quella di Johannis Blaeu, esemplate sull’archetipo di Giovanni Antonio Magini pubblicato postumo nel 1620, troviamo una successione dei luoghi delle Serre del tutto inattendibile. Infatti, da nord a sud, la successione raffigurata propone “Zimbario”, “La Serra”, “Pizoni”, “S. Steffanio” (a cui sta allineato a oriente “Spatola”), “Soriano”, “Ninfo”, Ierocarne”, che non corrisponde in alcun modo alla realtà del territorio. Il fatto è, come si vede in questo caso, che i geografi producevano le loro carte adottando, in alcune circostanze, un procedimento per conferma di produzioni cartografiche precedenti, che prescindeva dalla rilevazione empirica e si limitava a propagare notevoli quantità di copie di un prototipo errato, infarcito di informazioni false. In tale contesto si inseriva, oltre due secoli dopo le ultime produzioni cartografiche di autori calabresi (fine del XVI secolo), il serrese Giuseppe Bifezzi.
Un atlante, le “litanie” e (naturalmente) l’opera sul telegometro
Una personalità poliedrica, come si è già visto nel precedente articolo sul Vizzarro, quella di Bifezzi (ingegnere, geografo, litografo, capitano dell’esercito borbonico, componente del Real Officio Topografico, inventore del telegometro), di cui è traccia pure nel piccolo elenco delle sue pubblicazioni, che denotano diversità di interessi culturali e notevole attenzione verso la cultura iconografica. L’Atlante – il cui titolo completo recita Atlante corografico, statistico, storico ed idrografico del Regno delle due Sicilie: diviso ne’ domini al di qua e al di là del Faro – ebbe una prima edizione in 15 fascicoli, tanti quante erano le province continentali del Regno, tra il 1836 e il 1843, successivamente radunati in unico volume nel 1845, per la marca della Tipografia napoletana della Sibilla, con l’aggiunta per ogni città capoluogo di una veduta e dei costumi popolari dovuti all’esperta mano di Franz Wenzel. Una successiva edizione dell’Atlante, con poche variazioni riguardanti i costumi, si ebbe nel 1870 con il titolo, questa volta, di Nuovo Atlante geografico, statistico, storico ed idrografico del Regno di Napoli. Parte prima. Provincie continentali del Mezzogiorno e la riproposizione, anacronistica, di una carta del Regno delle Due Sicilie nove anni dopo il compimento dell’unificazione italiana. Intanto, nel 1848, presso la Real Tipografia Militare di Napoli, era apparsa l’opera dedicata al telegometro, mentre nel 1872, impresse nello Stabilimento Tipografico dell’Unione, sarebbero state pubblicate Le litanie lauretane: simbolicamente figurate, parafrasate in versi italiani col testo latino, con un interessante corredo iconografico. L’opera cartografica di Bifezzi andrebbe collocata, per poter essere correttamente intesa e valutata, negli sviluppi della cartografia napoletana del XIX secolo, che si giovò dell’introduzione nel Regno della nuova tecnica litografica, utilizzata già dallo svizzero Müller nel 1817 e diffusa soprattutto grazie alla presenza del Reale Officio Topografico. E bisognerebbe almeno, ricordare, a fianco del lavoro di Bifezzi, la Carta generale del Regno delle Due Sicilie di Luigi De Salvatori e l’Atlante corografico storico e statistico del Regno delle Due Sicilie di Benedetto Marzolla, uscito in prima edizione nel 1832, ristampato cinque anni dopo e rifatto, con una modifica della scala utilizzata, tra il 1850 e il 1854, con ulteriore ristampa nel 1858, nonché un successivo lavoro di Gabriello De Sanctis, giudicato di stampo essenzialmente calligrafico e decorativo da Ilario Principe.
Vedute, costumi e mappe
L’Atlante pubblicato da Giuseppe Bifezzi in unico volume nel 1845 non era, in realtà, un’opera nuova, poiché, come abbiamo visto, già a partire dal 1836 l’autore ne aveva dato alle stampe uno di fatto identico, sia nella fattura delle carte sia nell’impostazione generale, che si limitava alla parte continentale del regno, con l’esclusione della Sicilia. La novità della nuova edizione – un volume di piccolo formato, di cm. 19 x 25 – consisteva nell’introduzione delle vedute e dei costumi popolari, che erano, invece, assenti nel prototipo in fascicoli. Le carte delle quindici province, a eccezione della scala che varia a seconda delle necessità di adattamento alla misura dei fogli, condividono, nelle linee essenziali, le medesime scelte raffigurative, con i rilievi finemente tratteggiati, l’idrografia in colore nero e le strade ben evidenziate. Tuttavia, proprio questa chiarezza nel disegno è da considerarsi, nella valutazione di Elio Manzi, che ebbe un cinquantennio addietro il merito di richiamare all’attenzione in una pubblicazione accademica il valore dell’atlante di Bifezzi, il maggiore pregio dell’opera, tanto da renderla preferibile nel confronto con altri analoghi prodotti dell’epoca: “L’atlante del Bifezzi, quantunque sconosciuto, – scrive Manzi – assomma […] alcuni pregi bastevoli a farlo preferire ai ben più noti atlanti di Benedetto Marzolla; in effetti le analogie tra le due principali opere del Marzolla sul Regno borbonico, e quella del nostro, sono notevoli, specie per la rappresentazione cartografica. E la più tarda pubblicazione da parte del Bifezzi rispetto al primo lavoro del cartografo brindisino farebbe pensare ad una derivazione dell’opera posteriore dalla precedente, ma a torto. Infatti, l’atlante del Marzolla edito nel 1832 presenta un disegno grossolano […] e quello del 1854, pur più preciso, e a tratti pregevole, […] deriva, come quello del Bifezzi, dai rilevamenti del Real Officio Topografico, di cui entrambi i cartografi facevano parte. […] Il pregio maggiore dell’opera consiste nella chiarezza del disegno e nell’agilità complessiva del testo, a differenza di altri farraginosi manuali e di rappresentazioni cartografiche di maggior mole, ma di minor rigore scientifico”. Sicuramente non secondaria, nell’assegnare all’atlante di Bifezzi un posto di riguardo nelle pubblicazioni cartografiche ottocentesche, è la presenza delle vedute e dei costumi, i quali, pur non connotati da caratteri di originalità e spesso sostanziali repliche di modelli pre-esistenti, vogliono restituire, se affiancati alle cartine e alle notizie varie che descrivono lo “stato” delle province, una sorta di lettura globale del territorio, resa viva proprio dalle vedute che si animano grazie all’inserimento di uomini operosi e dai costumi che fissano aspetti paradigmatici ed esemplari della diversa umanità raffigurata. Molto significativa, in questo senso, è la tavola che inaugura l’edizione del 1870 dell’atlante, che presenta, in quattro piccoli riquadri, i costumi abruzzesi, calabri, campani e pugliesi. L’attenzione, in questo caso, non si concentra in maniera preponderante sugli abiti e sulle loro fogge, non è guidata dalla preoccupazione di cogliere i dettagli dei vestiti, di descriverne le pieghe e i ricami, ma si appunta su piccole tranches de vie nelle quali a emergere, prima ancora che la morfologia del vestiario, è la movimentata fenomenologia della vita quotidiana delle province meridionali: un pellegrinaggio devozionale verso un luogo indefinito, una scena di preghiera accompagnata dalle zampogne, il ballo di una tarantella calabrese tra simboli architettonici della classicità e una piccola folla di contorno. Cominciata negli anni Trenta del secolo con la sola rappresentazione cartografica della parte continentale del Regno borbonico l’impresa editoriale dell’atlante di Bifezzi sembra quasi volersi concludere, nella tarda edizione del 1870, suggerendo una prospettiva più ampia, che si allarga dalla geografia alla vita.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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