Domenica, 27 Marzo 2022 10:03

Un giallo serrese del XIX secolo. Due scrittori e l’omicidio Compain

Scritto da Tonino Ceravolo
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Brunello De Stefano Manno e Sharo Gambino Brunello De Stefano Manno e Sharo Gambino

L’unico abitante della Casa

“La mattina del 22 ottobre 1844 alcuni degli uomini impiegati per la trebbia del granturco nella Certosa, entrati nel giardino per riprendere il lavoro interrotto al tramonto del giorno innanzi, notarono che la porta del magazzino recava visibili tracce di effrazione. Un po’ incuriositi, si affacciarono nel locale e con raccapriccio vi trovarono, privo di vita, riverso sull’impiantito, il fratello certosino Arsenio Compain. Il cadavere, col bianco saio inzuppato di sangue, presentava vistosamente i segni della morte violenta, specie nella parte del capo, fracassato al punto che gli esterrefatti lavoratori avrebbero faticato ad identificare la vittima se non fossero stati facilitati dal fatto che quel povero monaco era stato, in quel torno di tempo e per fortuite circostanze, l’unico abitante della Casa” (S. Gambino, Sull’Ancinale. Serra S. Bruno e la Certosa, MIT, 1982). Sul medesimo caso di omicidio faceva eco a Gambino, ventisei anni dopo, Brunello De Stefano Manno: “Calabria Ultra II, Distretto di Monteleone, La Serra, 22 ottobre 1844, prime luci del mattino: nel magazzino della spezieria della Certosa, ai piedi di una scala del Quarto Priorale è scoperto il corpo senza vita di Arsenio Compain, monaco certosino, solitario abitante dei ruderi del convento. Nessun dubbio, si tratta di delitto: la testa fracassata da corpo contundente e numerose ferite d’arma da taglio ne sono prova evidente. […] La raccapricciante scena si è presentata all’alba a un gruppo di braccianti tornati di primo mattino negli orti del convento per riprendere il lavoro interrotto al tramonto del giorno precedente” (Assassinio alla Certosa […], cittàcalabria edizioni, 2008).

Il caso Compain e altri gialli calabresi 

Il cadavere di un monaco ritrovato alle prime luci del giorno, i segni inequivocabili di una morte violenta, un monastero abbandonato e pressoché disabitato: sarebbe bastato molto meno per catturare l’attenzione di uno scrittore “curioso” come Sharo Gambino e l’omicidio del certosino Arsenio Compain non era e avrebbe continuato a non essere un caso isolato nell’attrazione che Gambino avvertiva per la dimensione del giallo. Lo spingeva in tale orbita anche il suo stile intellettuale, di matrice razionalista, teso a chiarificare e illuminare i lati oscuri delle storie e della storia, come era accaduto, per esempio, per uno dei casi letterari più persistenti della letteratura calabrese, i versi di Anna Maria Edvige Pittarelli – poetessa dalla biografia e persino dall’esistenza incerta – della quale aveva pubblicato il discusso manoscritto delle poesie, giudicate, invece, da Benedetto Croce una “grossolana falsificazione” settecentesca compiuta da “qualcuno della famiglia o da altro letterato del luogo”. Il mistero, reale o presunto, l’intreccio ingarbugliato da sciogliere, la versione ufficiale di un fatto da verificare alla luce della documentazione storica, costituivano, infatti, per Gambino un irresistibile banco di prova e così era stato per altri numerosi “gialli” calabresi che aveva voluto proporre e decifrare: dalla presenza di Giovanni Boccaccio nella Certosa di S. Stefano del Bosco all’assassinio del vescovo Bugliari a San Demetrio Corone, per non dire del caso Majorana, scaturito da un giallo filosofico di Leonardo Sciascia, che si era adoperato a decostruire in un agile volumetto intitolato L’atomica e il chiostro (Qualecultura, 2008). Diversamente stavano le cose per Brunello De Stefano Manno, anch’egli mai pago e acquiescente dinanzi alle verità ufficiali, anch’egli alla ricerca dell’altra storia da raccontare, quella più nascosta e meno appariscente, ma che, fondamentalmente, sino all’interesse per l’omicidio del frate certosino Arsenio Compain, si era mosso lungo le piste diverse dell’archeologia industriale e su questi sentieri aveva incontrato (e ricostruito) le vicende della fabbrica d’armi di Mongiana e quella della fabbrica di cellulosa di Serra San Bruno.

Due scrittori e un omicidio

Ma proprio sulla morte violenta del certosino Arsenio Compain le strade di Brunello De Stefano Manno e di Sharo Gambino si erano, alla fine, incrociate. Come abbiamo visto, per Gambino si trattava di un interesse che rimontava, almeno, agli anni Ottanta del XX secolo e che gli era riaffiorato quando, oltre un decennio dopo, nel romanzo In nome del re schiavo (Qualecultura-Jaca Book, 1995) si era ispirato alla figura di Don Domenico Rachiele (uno dei due autori della Platea della chiesa Matrice) per raccontare le vicende storiche dell’unificazione italiana. Era partito, però, da un po’ più lontano Gambino, prendendo le mosse nel primo capitolo dalla morte tragica di Compain, qui diventato, per mascheramento letterario, Fratello Ortensio Venerdì. Analogamente, a un altro mascheramento aveva fatto ricorso per due delle persone ritenute implicate nel delitto (Salvatore Tozzo e l’avvocato Domenico Peronaci), presentate con la nuova identità romanzesca di Cosimo Loizzo e dell’avvocato Cenzo Chilirri, il primo condannato a “trent’anni di presidio fuori Gaeta” e il secondo assolto perché riconosciuto estraneo al fatto criminoso. E si erano incrociate le strade dei due scrittori serresi perché la detection Assassinio alla Certosa che De Stefano Manno aveva dedicato nel 2008 al “giallo” dell’omicidio di Compain era accompagnata, appunto, da una prefazione di Gambino, il quale, “con divertimento”, confessava in quelle pagine come il dattiloscritto dell’Assassinio gli avesse fatto avvertire “un certo fastidio”: “Ormai l’argomento era come se mi appartenesse e un estraneo aveva ‘osato’ invadere un territorio esclusivamente mio”. Un estraneo a cui, procedendo nella prefazione, Gambino riconosceva un merito importante: “Il libro che il lettore ha ora fra le mani completa in maniera singolare il mio romanzo per il quale ho utilizzato quanto aveva lasciato scritto nella seconda parte di un pesante e scomodo manoscritto il reverendo don Domenico Rachiele, al quale, mutandolo in protagonista della trama da lui scritta, feci fare una tragica fine, con fama di brigante e morte per fucilazione in nome di Vittorio Emanuele II, il re schiavo, come egli, dal colore della pelle, amava definirlo […]”. 

Un principe del foro in difesa di un imputato serrese

Ventisei anni dopo Sull’Ancinale e tredici anni dopo In nome del re schiavo, Brunello De Stefano Manno aveva potuto completare quanto Sharo Gambino sul caso Compain aveva iniziato perché gli erano venuti in mano un breve testo, un’allegazione forense, che conteneva la difesa condotta dall’avvocato Giuseppe Marini-Serra del serrese Salvatore Tozzo - imputato per l’omicidio del converso certosino – e due lettere dalle quali giungeva alla conclusione che, forse, l’assoluzione del Peronaci, sul quale si era addensata sul capo la nube del rinvio a giudizio come mandante (così Gambino), fosse da riconsiderare. Con prosa esemplarmente chiara e analitica, Marini-Serra aveva ricostruito nella sua arringa i fatti, ricordando pure le “minacce ripetute, precise” che Tozzo aveva proferito nei confronti di Compain e i “mali umori” che “regnavano ancora tra P. Compain e la famiglia Peronace di Serra”, che il certosino aveva qualificato “per ricca, prepotente e sua nemica”, ma richiamando pure il possibile ruolo che nell’omicidio potevano aver avuto il fratello e il padre di Tozzo e il genero Salvatore Dominelli. Tuttavia, il “treno di fatti e prove”, che all’inizio del processo “minacciava cinque teste”, compresa quella del potente Peronaci, aveva condotto alla sola condanna a morte di Salvatore Tozzo, violando “le leggi di rito nella parte più vitale” e ostacolando “il sacro diritto della difesa”. Non entreremo nelle complesse motivazioni giuridiche che spinsero Marini-Serra a chiedere l’annullamento della sentenza pur ammettendo la colpevolezza di Tozzo, se non per dire che il 30 aprile 1847 la Corte Suprema accolse il suo ricorso e che il colpevole dell’omicidio “già pencolante dalla forca” – sono parole di De Stefano Manno – scampato alla pena capitale “espiò la colpa presumibilmente al confino delle deserte Isole Tremiti”.

Verità storica e verità giudiziaria

Sennonché, proprio quelle lettere di pugno di Peronaci, indirizzate al cugino Bruno Pisani durante i tre anni di latitanza, facevano intravedere un possibile scioglimento diverso della vicenda, una “verità storica” che forse la “verità giudiziaria” aveva lasciato nell’ombra, perché la figura del Peronaci vi appariva “sfuggente” e ambigua e molto diversa dal ritratto positivo che si poteva leggere nella Platea della Matrice di Serra: “Qui sarebbe opportuno – è la conclusione di De Stefano Manno – scoprire perché mai e a quale dei solerti giudici napoletani fosse saltato in mente di nominare per la difesa di un oscuro e comprovato reo calabrese uno dei migliori, se non il migliore, indaffaratissimo avvocato del foro partenopeo. Sarò un malpensante, ma non escluderei che ‘qualcuno’ avesse deciso di schierare in campo l’imbattibile Marini-Serra e non scarterei quindi l’ipotesi che la vita salva di Tozzo possa essere stato il prezzo pagato per ottenere il suo silenzio sugli affari sporchi che circolavano intorno al riciclaggio delle opere del convento”. Ed è qui che le strade di De Stefano Manno e Gambino si intrecciavano di nuovo, nell’evocare un’ipotesi giudiziaria che era stata accarezzata nei primi anni successivi al fatto, costringendo addirittura Peronaci alla fuga da Serra, ma che poi negli sviluppi del processo era stata abbandonata: “Ma a frugare nel passato del frate francese, ucciso con particolare violenza – conclude Gambino nella prefazione ad Assassinio alla Certosa – chissà che non venga fuori che le ragioni della sua tragica fine non siano state del tutto esaminate nel processo […]. L’avvocato Peronaci, vi ebbe una sua parte? …. Pian pianino mi sto lasciando prendere la mano, avrei voglia di continuare, dire di cose che in questa sede non competono. Sarebbe come scrivere il nome dell’assassino sulla copertina del romanzo giallo acquistato perché lo legga la famiglia”. Quel nome il lettore non lo avrebbe esplicitamente trovato sulla copertina di nessun libro e il romanzo giallo dell’Ottocento serrese, alla fine, gli avrebbe consegnato il solo Salvatore Tozzo come colpevole certo, mentre, morto il padre Giuseppe, sul resto della sua combriccola (il fratello Michele e l’amico Salvatore Dominelli) e sul “giovin veramente amabile, di ottimi costumi” (questa la definizione che la Platea dà di Peronaci) sarebbe sceso definitivamente il sipario.

L'avvocato Giuseppe Marini-Serra

*Nuvole è una rubrica curata per il Vizzarro da Tonino Ceravolo, storico, antropologo e scrittore

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