Domenica, 05 Giugno 2022 09:41

“Ma la Pinticosta non vinissa mai”. Il ritorno dei morti a Nardodipace

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Foto di Salvatore Federico (riproduzione riservata) Foto di Salvatore Federico (riproduzione riservata)

Tutti li fiesti jissaru e vinissaru, ma la Pinticosta non vinissa mai. La Pentecoste non dovrebbe mai arrivare, secondo un proverbio documentato a Serra San Bruno e a Nardodipace che la pone come un momento particolarmente minaccioso. Inevitabile chiedersi: che cos’ha la Pentecoste di così temibile e negativo per giungere ad augurarsi che essa non arrivi mai? Perché scongiurarne la presenza se tale festa fa memoria della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, cinquanta giorni dopo la Pasqua, a coronamento del mistero supremo di Cristo morto e risorto? Allora bisogna “scartare di lato” - secondo la ben nota strofa di una canzone – e ricorrere alla cultura folklorica per scoprire le ragioni di questa carica di minaccia, poiché Pentecoste si pone come una festa dei morti, anzi come l’appuntamento calendariale del loro ritorno sulla terra se anche molti racconti di apparizioni sono associati a essa, tanto che Rodolfo il Glabro, nei suoi Historiarum libri quinque, opportunamente ripresi a tal proposito da Jean-Claude Schmitt, riferisce che all’alba della domenica dell’ottavario di Pentecoste il monaco Wulferio di Moutier-Saint-Jean vide la propria chiesa riempirsi di morti eletti. Conclusioni identiche sul carat­tere “funebre” della Pentecoste si traggono, sulla base di una documentazione ricavata soprat­tutto dal folklore dell’Est europeo, dall’analisi che ha fatto Carlo Ginzburg sul sabba stregonesco. Le consuetudini legate alla Pentecoste, con quelle connesse alle calende di gennaio, esprimerebbero, infatti, “nel linguaggio del rito i miti rivissuti dagli uomini e dalle donne che visitavano periodica­mente, in estasi, il mondo dei morti”. I căluşarii rumeni vagavano di notte, durante la Pentecoste, provvisti di aglio e assenzio, per difendersi dalle rusalii, mitici esseri femminili che corrispondevano alle anime dei morti. A Duboka (Serbia orientale), in occasione dei fenomeni di trances pentecostali, di cui sono protago­niste proprio le rusalii, vengono richiamate le anime dei morti, mediante l’offerta di doni o l’esecuzione di musiche che si ritiene siano da loro gradite. A Serra, si potrebbe aggiungere, il rito di guarigione degli spirdàti (qui il reportage del Vizzarro), figure in vario modo collegate al mondo dei morti, si svolgeva appunto a Pentecoste. In altri termini, in un vasto spazio geografico, in cui è compresa l’area delle Serre, ritorno dei morti e festività pentecostale sono associati, circostanza che spiega il timore della Pentecoste nel proverbio, riscontrato anche a Nardodipace, citato all’inizio.

Il canto della “pineta” e la bara sotto il letto

Ma proviamo a estendere il discorso oltre la ricorrenza di Pentecoste, perché Nardodipace fornisce una documentazione ben più consistente del solo proverbio riportato in apertura, per dire che nella cultura popolare nardodipacese la presenza della morte è qualcosa di molto ampio e vario, che coinvolge, nello stesso tempo, la mentalità collettiva e le pratiche della vita quotidiana. Si pensi, per proporre qualche esempio, all’uso, riscontrato a Ragonà, di custodire in casa, per paura di trovarsene sprovvisti nel momento della morte, la bara nella quale si dovrà essere seppelliti. La morte (la sua idea, la sua possibilità, la sua ineludibilità esistenziale) diventa, in questo modo, davvero compagna inseparabile della vita, ancor più inestricabilmente legata ai suoi cicli quando si pone, per via della bara nascosta spesso sotto il letto, come un suo “sottofondo” che assiste muto e ammonente allo scorrere dell’esistenza. Bare custodite e conservate nei luoghi della domesticità che possono, persino, diventare oggetto di compravendita, oggetto di scambio da “economia del vicolo”, quando qualcuno dovesse morire non essendosene dotato per tempo. O si pensi, ancora, a proposito di queste costanti epifanie della morte, alle “processioni” (documentate da Sharo Gambino e da Vito Teti) resesi in passato necessarie per spostare i defunti da Cassari – sprovvista di cimitero  – a Ragonà, perché potessero trovare sepoltura. La presenza della morte (e dei morti) attraversa la cultura popolare di Nardodipace, si pone anche sotto la forma del presagio e del pronostico dell’evento luttuoso, prevede specifiche modalità di comunicazione con i defunti, sollecita la predisposizione di strategie di difesa e di misure apotropaiche. A un uccello notturno, la pineta, vengono riconosciuti tetri poteri di preveggenza: quando di notte la pineta canta e si lamenta c’è sempre in agguato qualcosa di brutto, tanto che alle persone alle quali si vuole male si augura “mu ti vena la pineta”. La pineta diventa così l’annunciatrice di un triste futuro, lo anticipa, lo prefigura con il suo lugubre verso. Questo potere di “annuncio” è, naturalmente, riconosciuto pure ai morti, che di notte “toccano” i parenti per avvisarli di qualcosa o appaiono loro, quando questi sono ignari della dipartita, per comunicare la scomparsa. Rispetto al ritorno pericoloso dei morti sono previste tecniche di difesa che mescolano pratiche devozionali della tradizione cattolica e riti di purificazione, di diversa matrice, dei luoghi e delle persone: l’abitino della Madonna del Carmine e la corona del Rosario sono considerati efficaci amuleti, mentre un coltello appuntito nascosto sotto il cuscino dei bambini piccoli o apposto sull’architrave della porta di casa, spesso in associazione con il ramo d’ulivo benedetto, permette di proteggersi dalle apparizioni e dalle intrusioni degli spiriti. In questo modo, la domesticità viene protetta e lo spazio dei vivi è delimitato e tutelato rispetto allo spazio dei morti.

La “turva magna”

I motivi della cultura popolare legati al ritorno dei morti, alla paura di tale ritorno e alle strategie di difesa di fronte alla sua possibilità minacciosa, trovano una rappresentazione diffusa nella turva magna, la credenza nella processione dei defunti durante la notte o anche a mezzogiorno, testimoniata, tra l’altro, da Maria Stella Tassone nel corso di una indagine etnografica guidata da Luigi Lombardi Satriani alla fine degli anni settanta del secolo scorso:

LUIGI Se uno di questo mondo ruba, poi nell’altro mondo che fa?

MARIA STELLA: Se li trascina, se li porta.

LUIGI: Se li porta addosso sulle spalle? Ma quando passa la processione dei morti…

MARIA STELLA: Quando passa la “turva”, mettiamo…

LUIGI: Si chiama la “turva” la processione dei morti? E si porta in collo tutto quello che ha rubato sulla terra?

MARIA STELLA: Certo…

Questa testimonianza si può ulteriormente arricchire con i risultati di una rilevazione successiva (1994), compiuta dallo scrivente grazie alla collaborazione di alcuni giovani nardodipacesi. La signora Rosaria Cavallaro ha, per esempio, raccontato che una sera, mentre rientrava a casa, aveva avuto modo di assistere alla processione dei morti. Si trattava, nel suo caso, di una teoria di uomini organizzata sul modello delle processioni religiose, circostanza che lascia intravedere una sorta di formazione di compromesso tra cultura popolare e pratiche liturgiche della devozione cattolica: la processione era preceduta da una croce, dietro la quale stava un sacerdote, che camminava davanti ai fratelli defunti della confraternita del Sacro Cuore, i quali intonavano un canto gregoriano. Il corteo era chiuso dalla gente comune. Ciascuno portava con sé un fardello, perché ciò che era stato rubato in vita doveva essere tenuto come un peso greve dalle persone dopo la morte. In maniera più chiara che nella testimonianza raccolta da Lombardi Satriani, appare qui il rapporto tra i componenti della turva e il peso che trascinano con sé durante la processione. Sembra, infatti, che si tratti di anime che devono espiare una colpa, quasi come se la processione fosse una specie di rito penitenziale e avesse la funzione di riparare all’ingiustizia che i morti avevano commesso in vita. La testimonianza, tuttavia, non consente di capire se tutti i partecipanti al corteo portino il fardello e non pare avere quei caratteri terrorizzanti che, solitamente, vengono attribuiti alla turva. Il corteo dei defunti appare, piuttosto, nel racconto di Rosaria Cavallaro, come una specie di doppio del paese dei vivi, una sua ricostituzione oltre la morte, che ne riproduce, nella successione spaziale degli elementi del corteo, la medesima “gerarchia” sociale e religiosa. Legata a modelli in stretta relazione col mondo agricolo e alla concezione per la quale gli animali vengono assunti come rappresentanti dell’aldilà è, invece, la testimonianza di Giovanni Cirillo, il quale asserisce di aver visto la turva interamente composta da animali: le capre rappresentavano le anime dell’inferno, le pecore quelle del paradiso e le mucche altro non erano che anime purganti. Pur nei diversi contesti di questi e di altri racconti alcuni elementi comuni si possono facilmente individuare: la turva “gira forte forte, facendo molto vento”, i suoi componenti sono inequivocamente identificati con i morti e si presenta con caratteri di latente o attuale minacciosità. Talvolta, evoca anche la cattiva morte, determinata dalla mancanza del rito pietoso della sepoltura cristiana o dovuta alla causa violenta del trapasso, che costringe l’anima del defunto a vagare non pacificata, a incarnarsi in forme di animali malefici e di pericolosi fenomeni atmosferici, a dare vita a inquietanti figure dell’alterità. In questo senso, la “cattiva morte” raffigurata nella turva presenta una certa analogia con il noto precedente storico del cosiddetto “esercito furioso” descritto da Orderico Vitale nella sua Historia ecclesiastica, secondo il quale, una notte del 1091, ad un prete che camminava da solo apparve una processione rumorosa, composta da diversi gruppi tra i quali uomini e donne torturati da demoni, sacerdoti e monaci, cavalieri componenti un exercitus completamente nero e vomitante fuoco.

Il gioco contraddittorio dei vivi e dei morti

Il mondo dei morti si pone, in questo modo, come un duplicato dell’universo dei vivi, dal quale provengono segnali, messaggi, ammonimenti, exempla, che ai viventi tocca decifrare. Così ci troviamo, alla fine, di fronte a quello che Adriano Prosperi, nel numero 50 di Quaderni storici (1982), ha definito il “gioco contraddittorio” di due opposte esigenze: “Da un lato, mantenere contatti e scambi con i morti, dall’altro allontanarli definitivamente dal mondo dei vivi e rinchiuderli in contenitori, se non definitivi, almeno lontani e ben custoditi”. Un gioco contraddittorio che anche le credenze rilevate a Nardodipace, con il loro richiamare, contemporaneamente, l’inevitabilità della comunicazione con i morti e le esigenze di difesa verso il loro pericoloso ritornare, pongono chiaramente in luce.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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