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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
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A partire dallo scorcio del IV secolo in avanti il santo si pose, secondo una notissima e importante opera di Peter Brown, come un “compagno invisibile” e ideale, un protettore con cui si stabiliva un “rapporto di clientela”: “Sia che fosse presentato come il daimon personale o come il genius o l’angelo custode, la sua funzione era sempre la stessa: egli era un essere invisibile al quale veniva affidata la cura dell’individuo, in un modo così intimo da fare di esso non soltanto il suo costante accompagnatore, ma quasi un’estensione verso l’alto dell’individuo stesso”. Invisibile, come si vede, è la parola chiave impiegata da Brown per indicare il carattere fondamentale associato all’attività di tutela e protezione che il santo - figura presente e, al tempo stesso, “appartata” – esercitava nei confronti dei fedeli. Eppure, per venire a secoli a noi più vicini, la definizione di Brown si potrebbe, di fatto, rovesciare per dire che il santo, popolarizzandosi, da invisibile si faceva visibile, poiché è come se dall’interiorità del fedele si volgesse anche verso il suo esterno, grazie a quei fenomeni del culto (per esempio l’esposizione dei suoi simulacri e le processioni) che ne presentificavano la figura. Da “compagno invisibile”, qual era nella tarda antichità, si tramutava in “compagno visibile”, che si vede, si tocca, si bacia, si “sente”, fino a porsi, secondo un’espressione di Marino Niola, come “potenza personalizzata”. Quasi paradigmatico è, da questo punto di vista, il caso di San Bruno di Colonia.
Un santo “aristocratico” e popolare
Alle origini santo dalle evidenti connotazioni “aristocratiche”, anche in virtù del profilo fortemente intellettuale che aveva caratterizzato il tempo del suo insegnamento e del suo “rettorato” presso la scuola cattedrale di Reims, in Calabria si è assistito a una sorta di “popolarizzarsi” dell’immagine agiografica di Bruno, di cui si sono accentuati sia gli aspetti penitenziali, le sofferenze auto-inflitte, il rapporto “agonistico” con una realtà ambientale dura (si pensi alla tradizione delle penitenze nell’acqua gelida del laghetto di Santa Maria del Bosco), sia le virtù taumaturgiche, che lo hanno reso destinatario di richieste di “grazie” e di intercessioni sulla base del presupposto che solo un santo potente – il quale aveva saputo vincere e domare nella sua esistenza gli elementi ostili – potesse essere in grado di esaudire le domande dei propri fedeli. Se ne ha una testimonianza fondamentale in un canto processionale in dialetto, San Brunu jacuniedhu, di cui esistono diverse trascrizioni, ciascuna delle quali con varianti di vario genere. Qui San Bruno viene quasi assimilato agli antichi martiri, con i quali condivide una effusio sanguinis che non è, come in quelli, un prodotto delle persecuzioni subite, ma spargimento di una linfa vitale, analoga all’acqua miracolosa (la Brunonia lympha) che secondo la tradizione sarebbe scaturita dal suo sepolcro:
Mo su li sui carni nudi
Ed alli carni sue spini pungenti,
Lu sangu nci curria cuomu cannali
Non bindi vanagruriati o bon’aggenti
Ch’è sangu di San Brunu veramenti
San Brunu ch’è nu santu sanguinusu,
Sangu di santu Brunu gloriosu.
La vita di Bruno viene presentata con i caratteri dell’ininterrotta penitenza, consapevolmente ricercata giorno e notte, in un continuo misurarsi con gli elementi naturali che diventano strumenti per l’ascesi:
Chi vi pinsati lu juornu chi facia
‘Ntra nu lagu ndinucchiuni stava
Chi vi pinsati la notti chi facia
Supa na petra la sua vita stava.
È in questo scenario, nel quale Bruno si è ritirato per pregare, che lo scoprono i cani di Ruggero il Normanno e, secondo una modalità riscontrata anche in altre composizioni che riportano l’episodio, si inginocchiano reverenti. La scoperta prepara il contatto tra i due uomini: Bruno rassicura Ruggero (“O Conti, O Conti non t’appagurari / Ca io sugnu Brunoni veramenti”) e quando il normanno lo interroga, per sollecitarlo a chiedergli delle “grazie”, il santo gli rivolge le sue richieste:
Vuogghiu ‘na chiesa pi Santa Maria,
N’atra la vuogghiu pi Sant’Anna mia
E una la vuogghiu pi putiri stari;
Vuogghiu tri migghia di via di prucissiuoni.
Come già in altri testi viene ripreso il motivo della guarigione a Pentecoste degli spirdati (gli “ossessi” dagli spiriti maligni), mediante l’inserimento di riferimenti che, con essenziali notazioni, restituiscono il clima “collettivo” della festa religiosa durante la quale il rito di guarigione si compie:
E dieci juorni duoppu l’Ascinziuoni
Cituli, ceramiedhi, sciali e suoni
Nu sparamientu mu ndi fa trimari
E di lu ‘mpiernu liberu dimuoni
E li malati si ndi vannu sani.
La conclusione del canto è interamente dedicata al rapporto di affidamento tra i fedeli e San Bruno, i quali rivolgendosi al santo, pregandolo nelle forme opportune, istituendo una regolata devozione (“E cui la dicia tri buoti la notti / Non po muriri mai di mala morti / […] E cui la dicia di venneri addijunu / Ava quindici anni di pirdunu”) ne ricavano benefici perenni per la propria anima.
Penitenza e ascesi
Pubblicata da Apollo Lumini nella Strenna dell’Avvenire vibonese del mese di gennaio 1888, dopo il suo ritrovamento a Piscopio, La leggenda di S. Brunone costituisce per più motivi un testo importante (per quanto pervenuto purtroppo in forma incompleta) e non ultimo per la circostanza che in esso viene riportata la scoperta di San Bruno in preghiera tra i boschi delle Serre, fatta dai cani del conte Ruggero durante una battuta di caccia, che, al dire di Lumini, rappresenterebbe “l’unica storia religiosa e civile che noi abbiamo [...] di origine calabrese”. L’esordio è interamente consacrato a porre Bruno come un santo dedito all’ascesi, che fa della rinuncia il contrassegno essenziale della sua vita.
O bbona genti statimi a sentiri
La vita di santu Bruno vaju a cantari.
Pigghianno di quand’era picciriju
Chi mangiava erviceij senza sali:
la Madonna ‘nci ‘ndi dispiaccia;
“o Bruno, Bruno no ti trapazzari!
“E Jesu Cristu a posta mi criau
pemmu su santu e servituri vostra.”
L’angialu santu subbitu scindiu
Luppini ammoijati ‘nci calau
E santu Brunu la mani stendiu
Solo ‘un cocciceiju ‘ndi pigghiau.
E chija scuorza al Xiumi pendiu
Criju ca santu Stefanu l’axiau
Laddove occorre rimarcare come il profilo penitenziale che si attribuisce al santo sia costruito ponendo come elemento decisivo la sua scelta di una dieta parca, all’insegna della rinuncia al cibo, che sarebbe stata compiuta precocemente, se è vero che il testo sottolinea il cibarsi di erbe senza sale sin da bambino e di lupini consumati in misura modestissima. Non collegato sintatticamente né tematicamente a questo primo frammento è il secondo lacerto superstite del testo, nel quale è l’incontro con Ruggero, già richiamato, a imporsi, con lo scopo fondamentale di far vedere come il Gran Conte normanno, mosso a prodigalità per le dure condizioni di vita degli eremiti, sia da porre all’origine della fondazione della chiesa di S. Maria della Torre.
Ca avanzi nc’è nu jumentu
.......senza mani e senza mantu
Chi va juntandu comu nu ‘jumentu
Pigghia di carchi Dio di carchi santu.
“dimmi tu chi fai jocu o faggimentu”.
Conti Ruggeri mu chiama ‘ssi cani
Ca su lu frati Bruno veramenti.”
Mentri chi si frati Bruno veramente
Come stai ritiratu a chissi canti?”
Nu conti Ruggeri miu, si mi voi beni
Na chiesiola mi avarissi fari?
La chiesiola di Santa Maria
Sempre a lu mundu mu pregu pe tia.
Subbito misi mastri e manuali
Ca era nu omu chi ‘ndavia dinari.
“Ora è furnutu lu soi monasteri
Intra sta parte no ‘nci vola entrari?”
“Omani mu ‘ndi vaci e mu ‘ndi veni
E fimmani cchiu cà no mu cumtari.
Pure in questo caso, sebbene esso non sia riconducibile alla “categoria” dei componimenti intenzionalmente devozionali, ci troviamo dinanzi a un testo che appare contrassegnato, come sottolinea il suo editore Apollo Lumini, dalla sua origine “popolare” e vicino per “clima”, stile e temi al canto processionale presentato all’inizio. Ancora una volta, il tema della “leggenda” è l’incontro tra San Bruno e Ruggero il Normanno reso possibile dalla scoperta effettuata dai cani; ancora una volta – nei versi che seguono l’esortazione d’esordio – viene sottolineata la povertà volontaria e la scelta di vita ascetica del santo, assumendo come esempio paradigmatico il suo comportamento alimentare. E anche per queste “vie” la figura di San Bruno si rendeva “popolare”, vicina alle necessità e alle aspirazioni dei fedeli, un “compagno” prossimo e visibile a cui rivolgersi per richiedere la sua protezione.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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