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Scomparso. Missing. Forse definitivamente disperso. Se si poteva assegnare a qualcosa il ruolo di oggetto-simbolo della presenza cittadina delle confraternite questo era il cassetto, il piccolo “salvadanaio” in legno, con l’effigie della titolare ben visibile, fatto girare per strade e case per raccogliere fondi per il sodalizio. Anche se poi, tra XIX e XX secolo, i finanziamenti delle confraternite non si esaurivano nella questua, perché c’erano la tassa d’entrata dei confratelli e delle consorelle, la “sottocoppa” in chiesa durante la messe, gli introiti dei Monti, la raccolta dei “voti” (soprattutto in denaro) durante le processioni e le feste, i lasciti e le donazioni e i piccoli commerci. Ma l’impatto, persino simbolico, del cassetto, era certamente notevole, a tal punto che il rifiuto di “portarlo” poteva avere conseguenze disciplinari, come accadde a un confratello dell’Addolorata di Serra il cui caso venne discusso il 18 ottobre del 1920. La questione del cassetto, peraltro, si situava in un punto di frizione tra la confraternita e le autorità, soprattutto civili, che, talvolta, la assimilavano all’accattonaggio e rappresentava pure un momento di verifica di gerarchie e status sociale all’interno della congrega. Non per caso, a esaminare i bilanci della confraternita dell’Addolorata ci si accorge, quando la raccolta di soldi col cassetto è riportata analiticamente, che i più elevati introiti corrispondono spesso ai più alti gradi della gerarchia dei “dignitari” del sodalizio. Così, nel rendiconto del 1896 il priore Francesco Antonio Salerno incassa 125 ducati, il segretario Vincenzo Agostino 107,50 ducati, il primo consultore Giacomo Tedeschi 73 ducati e il secondo consultore poco più di 55 ducati; mentre nel bilancio dell’anno successivo il priore Salvatore Barillari raccoglie 125 ducati, il primo consultore Fioravante Salerno ne riceve 108,50, il secondo consultore Biagio Barillari 76 e il segretario Vincenzo Pelaia 66. Tutti gli altri confratelli in ciascuno dei due anni considerati incassano somme di denaro inferiori, qualche volta di pochissimo, alla cifra più bassa raccolta dai “dignitari”. Diventa, per questo, quasi inevitabile servirsi dell’immagine del microcosmo che, da un lato, riflette le strutture del macrocosmo urbano e sociale, ma, dall’altro, può consolidare e ridefinire posizioni di prestigio e “potere” da spendere nel tessuto dei rapporti civili.
Più feste che beneficenza
Insomma, era pure una questione di “gerarchie” cittadine, di stratificazione sociale dei membri della confraternita, legata anche a fattori economici e culturali. Per esempio, appare significativo il dato che si ricava dalle firme dei “supplicanti” inviate a Ferdinando IV nel 1766 per il riconoscimento della confraternita dell’Addolorata, da cui risultano, su un totale di 155 sottoscrittori, 91 analfabeti, naturalmente crocesegnati, a fronte di 64 confratelli che sanno apporre la propria firma. Altrettanto di rilievo è il dato, per quanto riguarda la prima metà del XIX secolo, della composizione sociale dei membri della congrega, che appare essere di discreto livello, almeno in riferimento alla situazione reddituale. Maria Teresa Pelaia, nel suo lavoro di tesi degli anni Settanta del secolo scorso, ha, infatti, calcolato per il periodo 1836-1841, sulla base dei registri d’esazione, che l’89 % degli iscritti viveva decorosamente, poiché versava una somma che variava tra 0,40 e 0,80 ducati; il 7% era benestante e versava una cifra intorno a un ducato/un ducato e venti; l’1,5 % contribuiva con beni in natura, non possedendo moneta contante, e soltanto il 2,5 %, trovandosi in condizioni di miseria, veniva esonerato dai pagamenti. Dallo stesso lavoro si ricava la disparità esistente nell’Ottocento tra le spese che la confraternita destinava per la beneficenza e quelle che impiegava per l’allestimento delle feste, sproporzione che, con il passare degli anni e almeno fino a fine secolo, era andata via via crescendo. Nel 1812 vennero devoluti in beneficenza 5,46 ducati contro 20,85 impiegati per le feste; nel 1860 nessuna beneficenza e 248,43 ducati in feste e “complimenti” al clero; nel 1890 ancora nessuna beneficenza e 1248 lire e 80 centesimi in feste e “complimenti”. Dalle linee generali di tendenza su base secolare occorre, però, separare, come attesta il Libro degli introiti, alcuni dati significativi che servono a chiarire la natura delle beneficenze e delle altre spese della congrega. Le elemosine ai carcerati sono uno dei dati in cui ci imbattiamo (così nel bilancio del 1810 e in quello del 1812), ma troviamo pure versamenti alla cassa della “Pubblica Beneficenza” (1810 e 1814), elemosine ai fratelli bisognosi (1813), fondi “dati alla Comune per la persecuzione dei Briganti” (1811) e denari utilizzati per liberare “un Fratello dai Briganti”.
Spese di settembre
Senz’altro di grande rilievo - come è evidente da quanto già detto - sono, infine, da considerare le spese sostenute in occasione delle feste e in particolare nella ricorrenza di settembre dedicata alla protettrice Maria SS. dei Sette Dolori e per averne un’idea sufficientemente chiara basta anche considerare la diversificazione delle spese richieste dall’organizzazione della festività settembrina. Infatti, se si scorrono i bilanci della confraternita ci si accorge immediatamente del ricorrere annuale di alcune voci stabili di “uscite”. Intanto l’aspetto ludico: “castello”, girandole, folgori, giganti, “maschi”, il viaggio degli artificieri, il corriere a Soriano o a Pizzo per la polvere da sparo. Poi, le musiche: i ducati o le lire alla banda, ai tamburi (di Caridà, di Brognaturo, di Mammola, ecc.), al violinista, alle zampogne (soprattutto di Fabrizia), all’organista, a chi tira il mantice per far funzionare l’organo. Ancora, le cibarie: la carne (si veda il bilancio del 1815) al panegirista, al vicario, al padre spirituale, agli organisti, ai confessori, al cappellano, al sagrestano, ai chierici; rosolio e confetti tutti i giorni della festa - secondo il rendiconto del 1819 – “formagio e complimenti alli sacerdoti; café e dulci alli Celibranti; frutti alli Sagristani; vino alli stessi in più ricotta”. Infine: gli emolumenti ai muratori, ai fabbri, ai falegnami, per fare e disfare le suppellettili della festa; le “rigalie” ai questuanti e ai portatori della “bara” con la statua dell’Addolorata; le spese per le immaginette da distribuire nella processione, per l’olio per accendere i lumi sulla facciata della chiesa, per la carta da parati per l’addobbo del palco della musica, per rotoli di corda. Senza trascurare l’impegno economico, peraltro tranne qualche eccezione poco gravoso, connesso alle molte altre ricorrenze alle quali la confraternita, in un modo o nell’altro, dava il proprio contributo: la Quaresima, il Corpus Domini, la festa dell’Assunta, quella di San Rocco, di Sant’Anna, di San Biagio, il giorno del Rosario e dei morti, la festa di ringraziamento per lo scampato pericolo del fulmine. Tuttavia, rispetto a questo quadro, il XX secolo registra una importante inversione di tendenza soprattutto in quanto viene creata nel 1908, durante il priorato di Vincenzo Agostino, una cassa di soccorso finanziata con un versamento ordinario annuale della cassa della confraternita, con le elemosine “raccolte in apposito cassetto”, con lasciti e donativi e avente lo scopo - come riportato nel suo Statuto – “[...] di soccorrere i Fratelli e le Sorelle vecchi od ammalati poveri, con sussidi in denaro, temporanei o vitalizi, con alimenti, vestiarî, abitazioni, cure, medicinali ed assistenza nelle malattie e con quanto altro occorrerà per alleviare le loro sofferenze” (Deliberazioni dell’Arciconfraternita […] 1901-1911). È il segno di una sensibilità per il “sociale” - anche se un “sociale” limitato ai membri del sodalizio - che, però, non è da porre in alternativa o in opposizione alla mentalità che riconosce alla festa il ruolo di momento culmine e apice della vita annuale della confraternita, bensì come qualcosa che la affianca e non la elimina, la integra senza abolirla.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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