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Si dice digiuno – quando ci si riferisce agli usi alimentari nei monasteri – e spesso si sottintende un rifiuto pressoché totale del cibo, una condizione di inedia tenacemente e volutamente perseguita fin quasi alla consunzione. E questa immagine tante volte fa il paio con l’altra immagine speculare del monaco beone e crapulone, quasi bulimico, di molta satira anti-fratesca. Ricondurre la vita quotidiana nei monasteri alla loro concreta realtà storica rischia di diventare un esercizio complicato se a prevalere sono gli stereotipi consolidati e le enfatizzazioni letterarie, talvolta all’origine di luoghi comuni persistenti. E allora tornare alle fonti si deve, ogni qualvolta ci si voglia misurare con quella concreta realtà e coglierla nell’altrettanto sua concreta fenomenologia.
Il cibo nell’eremo serrese di Santa Maria della Torre e a S. Stefano
Una fonte medievale calabrese, gli Statuti di Lamberto di Borgogna, terzo magister dell’Eremo della Torre fondato da San Bruno di Colonia nel 1091, ci consente di aprire un breve squarcio sulle consuetudini alimentari dei primi monaci nelle Serre calabre nei decenni iniziali del XII secolo. Gli anacoreti calabresi di Santa Maria della Torre, nel periodo dal 14 settembre all’Avvento del Signore, dovevano digiunare a pane e acqua ogni IV e VI feria, limitarsi a una sola minestra (pulmentum) e al vino la seconda feria e il sabato, mangiare due minestre e una pietanza in più nella III e V feria. Durante l’Avvento bisognava abbandonare le uova e i formaggi, digiunando a pane e acqua nella II, IV e VI feria e mangiando il sabato una minestra col vino e due minestre col vino la III e V feria. Nel giorno di Natale, fino all’ottava, si mangiava due volte al giorno e in refettorio. Da questa ottava fino all’ottava dell’Epifania una sola volta e in cella, eccetto che nel giorno stesso dell’Epifania e nelle feste di dodici lezioni. Dall’ottava dell’Epifania sino al giorno delle Ceneri, si rimaneva a pane e acqua nella IV e VI feria. Il digiuno di tre giorni settimanali a pane e acqua, come nell’Avvento, era previsto anche dalle Ceneri fino a Pasqua, tranne che a Pasqua stessa e negli altri giorni festivi nei quali si doveva mangiare in refettorio. Dall’ottava di Pasqua fino a Pentecoste si poteva mangiare una minestra col vino, con un’altra pietanza se ci fosse stato il modo di procurarla, ma i monaci per quattro giorni la settimana dovevano mangiare una sola volta. Nell’ottavario di Pentecoste il pasto si consumava per due volte al giorno in refettorio ed erano ammessi i formaggi e le uova, a esclusione dei giorni di digiuno delle quattro tempora, nei quali si mangiava in refettorio una sola volta. Dall’ottava di Pentecoste fino al 13 settembre erano previste le stesse modalità di consumo del cibo contemplate per il periodo dal 14 settembre all’Avvento del Signore. Più attenuate, nel numero complessivo dei giorni dedicati al digiuno, erano, invece, le prescrizioni per i monaci cenobiti, che dimoravano presso la domus inferior di S. Stefano - a circa un chilometro di distanza dall’eremo di Santa Maria della Torre - e seguivano una regola che a taluni studiosi è sembrata più vicina all’osservanza camaldolese. Da Pasqua fino all’Avvento, con alcune eccezioni, i monaci potevano mangiare due volte al giorno. Nel periodo dell’Avvento il digiuno a pane e acqua era previsto soltanto nella VI feria, mentre nella II e nella IV potevano consumare una minestra col vino. Da Natale fino all’ottava dell’Epifania, e tranne la vigilia della festa, mangiavano due volte.
Nella Certosa francese
Può essere senz’altro interessante condurre una rapida comparazione tra le usanze alimentari praticate dai monaci in Calabria e quelle della primitiva fondazione in Francia, a partire dalle norme contenute nelle Consuetudines Cartusiae di Guigo I, quinto priore della Certosa francese e legislatore dell’Ordine. Lunedì, mercoledì e venerdì i monaci digiunavano a pane e acqua, con la possibilità, a gradimento di ciascuno, di aggiungere il sale; martedì, giovedì e sabato potevano cucinarsi dei legumi – con l’aggiunta il giovedì del formaggio – accompagnati dal vino, che non doveva mai essere puro ma sempre mescolato con acqua. Dalle idi di settembre a Pasqua i monaci consumavano un solo pasto al giorno, con l’eccezione delle solennità; da Pasqua alle idi di settembre potevano, invece, mangiare due volte il martedì, il giovedì e il sabato. La loro dieta, pur ricoprendo in essa un ruolo importante le erbe e la frutta, non era vegetariana. I monaci, infatti, consumavano anche formaggio, pesci e uova. Queste prescrizioni alimentari erano ricondotte a un regime più mite in alcune particolari circostanze. Al priore, per esempio, era consentita l’interruzione del digiuno, salvo che non si fosse trattato di digiuno principale, quando il monastero ospitava dei vescovi o degli abati, giacché in tale caso questi ecclesiastici dovevano sedersi a mensa con lui. Anche in presenza di una malattia grave o nel tempo delle “minuzioni” la dieta prescritta conosceva delle eccezioni. Nel primo caso, infatti, era lecito comprare del pesce (che normalmente veniva mangiato solo se ricevuto in dono), mentre nel secondo i monaci potevano mangiare per tre giorni consecutivi due volte al giorno, ricevendo del cibo migliore del solito.
Il pulmentum, il pesce, il formaggio (e un po’ di vino annacquato)
Altri elementi, che ci aiutano a comporre il quadro sulle abitudini alimentari dei certosini, li troviamo nell’autobiografia composta, agli inizi del XII secolo, da Guiberto di Nogent, che si sofferma brevemente sugli usi della Certosa francese nel 1114. La domenica i monaci ricevevano dal procuratore la provvista di pane e legumi, con l’aiuto dei quali cucinavano nella propria cella sempre lo stesso genere di pulmentum. Al pane e ai legumi affiancavano, più raramente (la domenica e i giorni di solennità), il pesce e il formaggio, ma il pesce solo quando ricevuto da “buone persone”, giacché non era consentito comprarne. Se bevevano del vino, questo era così “tagliato” con l’acqua che non dava alcuna forza né poteva procurare alcun piacere. Anche Pietro il Venerabile, nel capitolo ventottesimo del De miraculis, offre alcuni sintetici ragguagli sull’uso del cibo presso i certosini, evidenziando, innanzitutto, come fosse loro abitudine affliggere e stancare il corpo con continui digiuni. Le linee generali del regime alimentare dei monaci tracciate dall’abate cluniacense ribadiscono alcuni dati che abbiamo sopra ricordato: astinenza perpetua dalla carne; uso di pane nero e di vino annacquato (ma il vino non bisognava berlo mai prima o dopo della mensa); consumo del pesce solo se ricevuto “ex charitate” e non comprato; digiuno a pane e acqua la seconda, quarta e sesta feria. E sembra opportuno segnalare come tanto le Consuetudini di Guigo quanto i testi di Guiberto di Nogent e di Pietro il Venerabile facciano esplicito riferimento al consumo di pesce, di cui negli Statuti calabresi di Lamberto non si fa menzione. La circostanza è senz’altro da approfondire, ma occorre ricordare come, proprio di fronte al monastero serrese di S. Stefano, esistesse una località detta pischera – tuttora così denominata e documentata, col nome Piscina, anche in due vedute settecentesche dell’insediamento monastico calabrese pubblicate da Tromby – nella quale i monaci tenevano un allevamento di pesci, certamente per soddisfare i loro consumi alimentari. Totalmente assenti sono, invece, le notizie riguardo a pratiche alimentari relative al periodo della permanenza di San Bruno in Calabria, tra il 1091 e il 1101, pur se una leggenda agiografica, riscontrata a Caulonia, farà riferimento all’uso quotidiano del cibo da parte del santo. In questa tradizione, con singolare anacronismo, l’esperienza del primo eremitismo calabro-greco e quella del monachesimo latino sono presentate come storicamente contemporanee, tanto che San Bruno – vissuto nell’XI secolo – viene detto fratello di S. Ilarione (vissuto sette secoli prima), il quale, alla foce di un fiume, si cibava con le bucce di tre chicchi di lupini che Bruno consumava rimanendo immerso presso la sorgente. Non una semplice curiosità, da consegnare agli archivi delle polverose leggende, ma, con ogni evidenza, un modo per sottolineare una sorta di superiorità nell’ascesi degli anacoreti italo-greci sul successivo monachesimo. Una buccia leggendaria, insomma, che, con significativo riferimento alla questione del cibo, nasconde la polpa di un confronto tra due storiche modalità di vivere l’esperienza monastica.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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