Giovedì, 15 Dicembre 2011 20:27

Era calabrese la Marinella di De Andrè

mini deandre"Questa di Marinella è una storia vera / che scivolò nel fiume a priavera / ma il vento che la vide così bella / dal fiume la portò sopra una stella". Chi non ricorda la prima splendida strofa della Canzone di Marinella del cantautore genovese Fabrizio De Andrè, giustamente considerato uno dei massimi poeti italiani del secolo scorso? In molti si saranno chiesti chi fosse e che origini avesse la Marinella amata dal "re senza corona e senza scorta". Ora grazie al volume "Il libro del mondo" di Walter Pistarini, in cui è ricostruita la vicenda, è possibile dare un nome alla protagonista dell'episodio di cronaca realmente accaduto, cantata nella canzone che determinò la sorte artistica del cantautore genovese. "Se una voce miracolosa - disse il cantautore - non avesse interpretato nel 1967 La canzone di Marinella, con tutta probabilità avrei terminato gli studi in legge per dedicarmi all'avvocatura. Ringrazio Mina per aver truccato le carte a mio favore e soprattutto a vantaggio dei miei virtuali assistiti". Lo stesso Fabrizio De Andrè raccontava di essersi ispirato ad una notizia di cronaca nera che aveva letto quando era ragazzo e che lo aveva particolarmente colpito. La ricostruzione nel libro di Walter Pistarini si basa su una ricerca condotta dallo psicologo Roberto Argenta - che aveva pubblicato un primo resoconto su "La Stampa" (nella pagine di Asti) del 13 gennaio 2007 - fatta di ore di lavoro in biblioteca. Dalla tenacia del ricercatore era emerso un primo indizio sul fatto di sangue a cui il celebre cantautore si era ispirato per la sua canzone. Si tratta della storia di Maria Boccuzzi, una prostituta di 33 anni che venne ritrovata morta nel 1953 nell'Olona, alla periferia di Milano. La notizia portava il seguente titolo: "Carica di vistosi gioielli all'appuntamento con la morte", ma fin qui la fonte era frammentaria e narrava di una prostituta che dopo aver tentato la carriera di ballerina con il nome d'arte Mary Pirimpò, si era innamorata di un personaggio equivoco ed aveva cominciato a prostituirsi. Questa storia ha trovato successivamente un riscontro certo in un articolo de "La Nuova Stampa" del 30 gennaio 1953 - giorno successivo a quello del ritrovamento del corpo - intitolato "La mondana trovata uccisa nell'Olona", che narra la vicenda così: "Quella di Maria Boccuzzi...è la storia di una vita torbida troppo presto conclusasi. Venuta a Milano con i genitori dal piccolo centro calabrese di Radicena, dov'era nata l'8 ottobre 1920, Maria Boccuzzi abbandonava la famiglia e il modesto lavoro di operaia alla nostra Manifattura tabacchi, per inseguire la chimera  dell'arte scenica. Ma cadde sempre più in basso, fino ad essere fermata una notte dalla squadra buoncostume". Altri dettagli sull'omicidio raccontano: "sei ferite d'arma da fuoco inducono a ritenere che l'assassino anche abbia infierito sulla disgraziata e, deciso a rendere quanto più perfetto il delitto, abbia provveduto a cancellare ogni possibile traccia del suo crimine...s'impadronì di tutti i suoi documenti, tra cui doveva esserci...una polizza di assicurazione sulla vita che garantiva un capitale di 300.000 lire a beneficio degli eredi eventuali". Dalle notizie emerse dalle indagini fatte all'epoca pare che la donna avesse manifestato al suo amante, un ballerino sospettato dell'omicidio, di voler abbandonare quella vita disordinata. Il giovane De Andrè all'epoca dei fatti aveva 13 anni e sicuramente aveva letto queste notizie proprio sulla stampa locale. Radicena è la frazione calabrese dalla cui unione col villaggio di San Martino e Jatrinoli è nato nel 1926 il comune di Taurianova. A proposito di questa storia, in una intervista a Vincenzo Mollica Fabrizio De Andrè disse che l'ispirazione per La Canzone di Marinella gliela aveva fornita "un fatto di cronaca nera che aveva letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte".

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Martedì, 13 Dicembre 2011 19:57

Salerno nega l'aggressione. La denuncia c'è

In merito alla notizia, data ieri, di un pasticcere serrese che ha denunciato di essere stato aggredito dal consigliere regionale Nazzareno Salerno, Il Vizzarro.it sente il dovere di precisare alcune cose, anche in relazione alle dichiarazioni rilasciate dallo stesso consigliere regionale ad alcuni quotidiani calabresi.

Pubblicato in ATTUALITÀ
Martedì, 13 Dicembre 2011 19:00

Serra città aperta

mini serra_san_brunoLa tranquillità è sparita, e Serra San Bruno non c’è più. O meglio c’è ancora, ma è così cambiata che si stenta a riconoscerla. In città si respira un’aria tanto leggera quanto paradossale. Gli scalpellini, i falegnami, le maestranze di un tempo sono state maldestramente rimpiazzate da orde di cannibali, poppanti malati di ‘ndrangheta e aspiranti veline smaniose di libertà a buon mercato. Un circo all’aperto, un mondo alla rovescia. Dove basta un nonnulla ed una banale lite si tinge di vendetta. E gli anziani, unica credibile guida popolare, vengono costretti ai margini del tessuto socio-culturale. Dispensatori di saperi passati di moda. Voci fuori campo come nelle strisce dei Peanuts. Tanto che sembra normale che siano bastati solo due mesi per relegare all’oblio il clima mistico dettato dalla venuta del Pontefice. Un’illusione scaduta in fretta come un barattolo di yogurt dimenticato in fondo al frigorifero.

Benedetto XVI aveva lasciato un messaggio impregnato di senno ed equilibrio, che nessuno neanche lontanamente ha pensato di dover seguire alla lettera. E cosi il tran tran quotidiano si trasforma in uno scenario degno della New York del primo ‘900. Dominata da gangs e coltelli.

Basta poco e Serra si popola di personaggi che sembrano usciti dai peggiori articoli di cronaca. Intere colonne di giornale che raccontano di vissuti diversi ma sempre della stessa violenza.

Un attivista e tutta la sua Associazione vengono minacciati con un bossolo di lupara sistemato ai piedi dell’uscio di casa, dritto su se stesso come gli abeti secolari che ci dominano dall’alto dei boschi. Contemporaneamente una squadriglia di teppistelli pensa bene di animare una notte altrimenti vuota sfregiando qualche autovettura, sfondando l’entrata di una palestra e di una scuola pubblica. Giusto per distruggere e saccheggiare qualcosa. Un noto avvocato viene accarezzato a pugni da un parente. I furti nelle case del centro storico continuano ad essere all’ordine del giorno, o meglio della notte. Un tenace trentacinquenne si mostra deciso a riconquistare l’ex-moglie minacciandola con un serramanico.  Due ragazze rivali in amore dibattono l’oggetto del conteso armate di sbruffonate e coltelli, meglio del Rugantino nella Roma del Papa Re.

Il bacillo della violenza contamina tutti ed anche i patrizi della politica pare non ne siano immuni: un consigliere regionale avrebbe (il condizionale è d’obbligo) spiegato a suon di pugni ad un suo ex-dipendente che non avrà mai i soldi che gli spettano, almeno stando a quanto ha denunciato alla polizia la presunta vittima dell’aggressione.

Ed allora, come si fa a riprendere il cammino in direzione di un orizzonte nuovamente umanizzato? Su quali basi si può fondare la riconquista di un'armonia entro uno spazio ormai distrutto e sconvolto? Quale cura si può auspicare se l’interesse per la drammatica uccisione di Pasquale Andreacchi, a distanza di soli due anni, si è affievolito nell’indifferenza più totale, raffreddatosi come la cera colata dalla testa di una candela stanca?

Pubblicato in LO STORTO

  Una plebaglia arrogante e superstiziosa stipata in buie stamberghe riscaldate dall’alito del maiale e dalle feci della gallina o grufolante nelle strade e nelle piazze di un paese senza fogne, così lurido che la miscela di Laplace pompata a tutta forza dal veterinario Francesco Ferrara a stento riesce a disinfettare. Una massa informe, pavida e incosciente, gonfia d’istinti bestiali e vuote giaculatorie, ipocrita nelle sue lamentazioni, disperata nei suoi vizi, soffocata nelle spire squamose d’una presuntuosa ignoranza.

 Non c’è, nell’immagine di Serra e dei serresi tratteggiata dal medico condotto, Ufficiale sanitario comunale e più-che-sospetto mangiapreti Antonio Romano nella relazione su L’epidemia di morbillo in Serra San Bruno (1909), quella compassione e quell’afflato didascalico coi quali una ventina d’anni prima Carmelo Tucci rappresentava i serresi ai fanciulli della scuola elementare nel breve Cenno geografico-storico sul comune di Serra San Bruno: cittadini dignitosi, puliti, laboriosi e modesti pur nella totale rassegnazione alla più spietata miseria.

 E così pure paiono eclissate, nelle pagine di questa relazione deliberatamente sbilanciata verso l’invettiva, la fiducia nell’esistenza di una viva e presente «coscienza di popolo», da educare e coltivare, o la genuina simpatia con «gli stanchi, gli affaticati, gli oppressi» che avevano contraddistinto Malattie infettive e loro profilassi, l’opuscolo redatto da Romano nel 1906 e distribuito agli insegnanti affinché s’istruissero i giovani su come riconoscere e prevenire il morbillo, la scarlattina, l’infiammo, il tifo addominale, la dissenteria, il colera asiatico, la granulosa, il vaiolo arabo, la difterite e la tubercolosi, affezionatissime e spesso letali compagne di carbonai, segatori, scalpellini, tessitrici, puerpere.

Ne L’epidemia di morbillo la fiducia nel potere formativo e persuasivo della scuola lascia il posto all’amara constatazione della necessità della bajonetta, alla rabbia positivista e vagamente affettata dell’uomo di scienza costretto suo malgrado ad accreditare e perpetuare la bieca immagine dei suoi conterranei come “selvaggi d’Europa” e a scernere nella diffusione di questo morbo ancora in larga misura sconosciuto, ma certamente non grave, che dal primo maggio al 19 luglio 1909 aveva colpito 858 persone uccidendone 83, il segno di una bruciante sconfitta umana e professionale.

Perché sarebbe stato facile  -era stato fatto negli anni precedenti, a Serra come a Mongiana, in casi di scarlattina e vaiolo arabo- contrastare la malattia e confinarla nel ristretto spazio di una o due famiglie, se solo i serresi non avessero colpevolmente taciuto al loro medico, per timore della quarantena alla quale Romano li avrebbe inevitabilmente sottoposti, la russajna che già a febbraio li aveva presi. Colpevoli d’aver creduto alle universali virtù curative delle nespole e delle ciliegie, consegnandosi in questo modo alla dissenteria, al supplizio della merda; ma soprattutto colpevoli d’aver realizzato, nel giorno 22 maggio, il folle proposito di una processione in onore di San Rocco per impetrare la salute esponendo sugli usci i malati, i bambini, i deboli, trasformando così poche dozzine di casi in centinaia. Intorno alla metà di giugno Romano e gli altri due medici Giacomo Pisani e il neo assunto Giuseppe Tucci visitavano quotidianamente più di duecento malati ciascuno, nonostante la Provincia avesse ridotto i loro stipendi, costretti talvolta a registrare spaventose complicazioni.

A due bambine di via Anastasio e via Fulciniti erano comparse ulcere nere sulla mucosa interna della guancia che nonostante i lavaggi con nitrato d’argento e soluzione salicilica continuavano ad espandersi fino a quando, invasi palato e gengive e fatti gonfiare viso e collo, non avevano trascinato le bambine in un profondo coma e infine alla morte per cancrena della bocca. Tre bambini, apparentemente guariti, erano stati invece fulminati da una paralisi cardiaca da tossiemia, dalla lordura che avevano nel sangue. Quattro se li era portati via la scarlattina, un altro la difterite, 73 la broncopolmonite: tutti ragazzi di neanche dodici anni. La novenne Rosa Macrì di via Sorvara a Spinetto, pur avendo le carni crepitanti come carta velina e un enfisema cutaneo che, partendo dalla cervice, le avvolgeva il torace e l’addome fino alla radice delle cosce, fortunatamente non morì.

 Il veterinario Ferrara e le sue squadre, aiutati dai carabinieri, dovevano entrare a forza nelle case (234 a Terravecchia, 211 a Spinetto), per disinfettarle con soluzione in acqua di sublimato corrosivo, ridurre gli abitanti all’agonia di un bagno caldo, lavarne i poveri panni con l’acqua di Labarraque e quindi costringerli a spalmarsi sul corpo finalmente pulito la pomata a base di acido salicilico.

 Ma la gente continuava a raccogliersi e a sciamare dalla casa alla chiesa al cimitero, a organizzare processioni e veglie, a baciare le statue mute, tremendo veicolo d’infezione, invocando la benedizione dell’aria, convinta com’era della generazione spontanea di una malattia inviata dal Signore a proliferare nei miasmi per punire, nella fragile scorza dei figli, i peccati dei genitori.

Aveva tentato, Romano, di porre un freno alla follia popolare sfruttando l’autorevolezza del medico, le prerogative dell’Ufficiale Sanitario, la persuasività dell’uomo di scienza. Venuto casualmente a sapere della diffusione del morbillo, aveva sollecitato l’ordinanza del primo maggio con la quale i padri di famiglia, gli insegnanti di scuole pubbliche e private, le majìstre, gli osti e gli altri venditori di bevande spiritose venivano obbligati a denunciare i casi di malattie esantematiche. La sera del 21 maggio si era precipitato dal sindaco Luigi Filippo Chimirri - fratello del quasi settuagenario, illustrissimo avvocato Don Bruno Chimirri, ex ministro dell’Agricoltura e poi delle Finanze, senatore del Regno – e aveva inutilmente richiesto che la processione fosse vietata. Le scuole erano state chiuse, certo, ma a che pro, se poi quegli stessi bambini venivano trascinati in riunioni e processioni affollate di sputazze?

 Il 7 giugno, finalmente, di fronte a una situazione prossima all’insostenibilità, l’amministrazione comunale decideva di raccogliere tutto il suo coraggio ed emanare l’ordinanza in base alla quale si vietavano «tutti gli assembramenti di persone da qualsiasi motivo determinati sia in luogo aperto che in luogo chiuso».

 Ma si sa, è la constatazione amara di Romano, che il fanatismo politico e religioso è come corrente elettrica che si propaga non vista, ma avvertita e profonda, nelle moltitudini invase da un’idea, e facilmente si acutizza, trascinando la massa in uno stato di febbre convulsiva che la rende capace solo di sentire, non di riflettere né di ragionare, per consegnarla legata mani e piedi a preti e politicanti indaffarati a perpetuare ed estendere la loro forza. Politica e religione, anch’esse colpevoli in quanto complici dell’epidemia, Romano le ritrae a tinte fosche, come forze oscure, irrazionali e impersonali, intente a complottare ai danni della luminifera verità della scienza, con modi e toni che richiamano da vicino quell’anticlericalismo e materialismo fin troppo schietto e becero di riviste ottocentesche come il Libero Pensiero (dal 1873 il Libero Pensatore), il sedicente «giornale dei razionalisti» uscito settimanalmente tra il 1866 e il 1875 prima a Parma, poi a Firenze e infine a Milano.

 E l’accusa più infamante dalla quale Romano deve difendersi è proprio quella, mossagli dai preti, di essersi inventato tutta la storia del contagio e della quarantena solo per dare libero sfogo al suo conclamato anticlericalismo, per impedire alla gente di andare a messa e riuscire così a minare alla radice la religiosità del popolo.

 L’amministrazione non aveva perso tempo a fiutare il sentimento popolare e ad assecondare la volontà di un popolino piegato dalle «lojolesche mene» dei preti: dopo sole 48 ore l’ordinanza del 7 giugno veniva revocata dal sindaco su «conforme parere della Giunta Comunale» sulla base della constatazione che «nessuna misura preventiva poteva ormai evitare il contagio». Una giustificazione assurda che alle orecchie di Romano suonava come un insulto personale, probabilmente dettata non da senatoriale ebetudine ma da un lucido e consapevole calcolo politico.

Ferito, insultato e offeso, Romano rassegnava quindi le proprie dimissioni dall’incarico di ufficiale sanitario, dimissioni che sarebbero state effettive non appena terminata l’epidemia. Scavalcando il Comune, si rivolgeva direttamente alla Provincia e alla Prefettura, invocando la forza bruta dei carabinieri - la bajonetta finalmente - a vigilare a che i malati non ricevessero visite e non uscissero di casa; garantiva ai cittadini e agli studenti l’accesso alle scuole e agli altri uffici pubblici solo se vestiti con abiti freschi di bucato, aumentava la frequenza delle disinfezioni, fermamente determinato a ripulire il paese dal morbo e dalla lordura.

 Alla metà di luglio, finalmente, l’epidemia era rientrata. Le scuole venivano riaperte, e Romano si apprestava a redigere la relazione da inviare all’Ufficio Sanitario Provinciale. Tuttavia, non intendendo lasciare che tutta la vicenda si riducesse ad un dattiloscritto da far ingiallire negli archivi della Provincia, al contrario fermamente deciso rendere pubblica la sua relazione, non solo come piccolo contributo alla letteratura epidemiologica sul morbillo, allora in forte aumento, ma anche e soprattutto come atto d’accusa nei confronti della gente, del Comune e della Parrocchia, il primo agosto Romano faceva frettolosamente stampare il suo resoconto alla tipografia L. De Francesco & Raho di Serra San Bruno e ne inviava una copia alla Provincia, l’altra alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, dove sarebbe stata custodita e quindi resa pubblica, un memento per ricordarsi di cosa può succedere quando una popolazione è abbandonata a se stessa, alla sua ignoranza, e viene privata della competente e continua attenzione dei propri medici.

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