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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
SERRA SAN BRUNO - Nella notte tra sabato e domenica ignoti si sono introdotti in una villa ubicata in via Matteotti, compiendo un'autentica razzia. Pare che i malfattori abbiano approfittato della temporanea assenza degli inquilini, un’anziana donna ed il proprio figlio, partiti per un breve soggiorno in una città calabrese nella quale risiedono alcuni parenti, per intrufolarsi nottetempo nella casa. Con ogni probabilità, assicuratisi della partenza dei proprietari, dopo aver scavalcato un muro di cinta, i ladri si sono introdotti nell’abitazione attraverso un accesso secondario. Da quanto è stato possibile apprendere, i malviventi non si sarebbero limitati solamente ad asportare oggetti di valore, ma avrebbero danneggiato pesantemente mobili ed arredi. Un fatto apparentemente inesplicabile, alla cui origine potrebbe esserci la frustrazione derivante dall’incapacità di forzare una cassaforte rinvenuta all’interno dell’abitazione. L’episodio, sul quale stanno indagando gli uomini del Commissariato di Serra San Bruno diretto dal Commissario Capo Domenico Avallone, rappresenta l’ultimo di una lunga sequela di eventi di questo genere che, ormai con cadenza regolare, si verificano nella cittadina bruniana. Episodi sempre più frequenti che dimostrano anche la spregiudicatezza di gente evidentemente avvezza a compiere azioni del genere.
Il Comitato civico Pro-Serre non demorde nella battaglia in difesa dell’ospedale di Serra San Bruno, fortemente ridimensionato con i tagli del piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario, e ridotto a solo 20 posti letto di medicina dai provvedimenti del commissario ad acta, il presidente della Regione Giuseppe Scopelliti. Gli attivisti serresi hanno organizzato un nuovo sit-in di protesta per martedì 13 dicembre a Catanzaro, e nell’annunciarlo ribadiscono le loro critiche al presidente della Commissione snaità Nazareno Salerno e al sindaco di Serra Bruno Rosi, che hanno a loro volta criticato le iniziative del Comitato e sarebbero stati “sbugiardati” in merito alla notizia dei fondi per la messa in sicurezza della struttura ospedaliera. Di seguito la nota integrale diffusa dal Comitato Pro-Serre:
«Nonostante il dramma vissuto dalla nostra terra e dai cittadini del comprensorio (in 38.000 senza una struttura sanitaria adeguata e con una solo autoambulanza a disposizione) c’è chi ancora coglie la palla al balzo per strumentalizzare i fatti, il più delle volte del tutto inventati, per continuare a rimpinguare la propria immagine politica, senza mai pensare al bene della cittadinanza. E così il consigliere regionale del Pdl Salerno e tutti i suoi seguaci si sono pronunciati sui fondi per le ristrutturazioni esterne del “San Bruno”, di cui al momento non esiste alcuna prova documentata, accaparrandosene la paternità.
Andiamo per gradi. Vista la situazione di profondo sdegno da parte del comprensorio nei confronti di chi fino a qualche mese fa prometteva l’ospedale del futuro ed oggi, dopo il valzer del “mi dimetto - non mi dimetto”, si trova ancora alla guida della Commissione sanità, Salerno ha pensato bene, per sedare gli animi, di raccontarci l’ennesima bugia e si è autoproclamato salvatore della patria, attribuendosi la paternità di un fondo “salva intonaci” che in realtà non è mai esistito, quantomeno non per l’ospedale di Serra San Bruno. Si tratta piuttosto di una somma cospicua, complessivamente 14 milioni di euro, che secondo le direttive regionali andavano ripartiti solo a favore dei P.O. di Tropea e di Vibo Valentia. Piuttosto, come rivelato dal Quotidiano qualche giorno fa, è stata la Commissione dell’Asp di VV a chiedere per iscritto a Scopelliti che parte dei fondi originariamente destinati allo Jazzolino di Vibo fossero dirottati sul “San Bruno”. A riguardo da parte della Regione non è stata inoltrata alcuna risposta. D’altronde perché finanziare la ristrutturazione di un ospedale che nei piani di Scopelliti è già chiuso da tempo?
Partendo dal presupposto che intonaci, murature, infissi e cornicioni messi a nuovo serviranno a nulla quando alla porta del Pronto Soccorso busseranno infartuati e donne in gravidanza, risulta ancora più chiaro che chi si permette di apostrofare l’operato del Comitato Civico Pro Serre, in realtà muove queste critiche solo perché si sente messo all’angolo da una cittadinanza disillusa, stanca delle eterne bugie e che trova la forza di scendere in strada, come accaduto anche a Reggio Calabria, per urlare la propria indignazione nei confronti di una classe politica che non solo trascura gli interessi del territorio, ma addirittura persevera nel dispensare falsità a destra e a manca, mantenendo un atteggiamento poco riguardoso nei confronti dei cittadini stessi.
Intanto i 300 cittadini dei comitati per la difesa degli ospedali di montagna, che riuscirono poco più di una settimana fa a bloccare via Cardinale Portanova congestionando per 5 ore il traffico reggino, e che sono stati bollati dal solito Salerno come una trentina di scalmanati, sono riusciti a far ottenere un incontro fra i Sindaci del territorio e Scopelliti. L’incontro si terrà martedì 13 a Catanzaro, e il Comitato Pro Serre sarà presente ancora una volta, poiché non si sente affatto rappresentato dal sindaco di Serra San Bruno, che si impegnò immediatamente a riempire colonne di giornali per lodare l’impegno, oggi rivelatosi una bufala, di Salerno e del suo fondo “salva-intonaci”, ma che ancora non si sente in dovere di raccontare alla popolazione, ad esempio, perché il Tavolo Massici continui a bocciare l’operato del commissario ad acta Scopelliti, oppure perché oggi nel suo partito nessuno parla più di “ospedale del futuro”».
Il sindaco Totò Minniti varerà la seguente giunta comunale nel corso del prossimo e primo civico consesso di sabato 17, durante il quale presterà giuramento. Vicesindaco ed assessore AntonioCarè, assessore Francesco Fazio, presidente del consiglio comunale Domenico Suppa. La lista vincente “Ramoscello d’ ulivo per la rinascita” che ha espresso il sindaco Antonio Minniti (foto) ha totalizzato 758 voti con il 48,55 % dei consensi. Le singole preferenze sono cosi ripartite: Raffaele Annetta 19, Antonio Carè 190, Francesco Fazio 159, Pietro Mamone 106, Luca Rullo 45 e Domenico Suppa 97. La lista “Fabrizia nel cuore” ha avuto come candidato a sindaco Bruno Rullo e ha conseguito 282 voti per il 18,06 %; i candidati a consigliere comunale hanno conseguito le seguenti preferenze: Francesco Armaleo 41, Vincenzo Pompeo Carè 17, Bruno De Masi 46, Enzo Iacopetta 54 e Stefania Platì 53. La lista “Fabrizia cives” come candidato a sindaco ha avuto una donna, Maria Belsito totalizzando 10 voti pari allo 0,6 %, le singole preferenze sono cosi ripartite: Maria Marchese 0, Francesco Paolo Belsito 1, Lucia Mendicino 0, Maria Chiappetta 0, Anna Busceri Voci 0 e Patrizia Cavaliere 0. La lista “Insieme per Fabrizia” guidata dal candidato a sindaco Raffele Suppa è stata la seconda in ordine di voti con 511 consensi pari al 32,73 %; i candidati a consigliere hanno avuto le seguenti preferenze: Domenico Carmelo Daniele 64, Maurizio Gallace 46, Antonio Tassone 93, Vincenzo Costa 81, Bruno Ienco 31 e Rosa Maria Nesci 67. Il consiglio comunale risulta cosi composto: Antonio Minniti sindaco. Consiglieri comunali di maggioranza: Domenico Suppa, Pietro Mamone, Antonio Carè e Francesco Fazio. Consiglieri comunali di minoranza: Raffaele Suppa e Bruno Rullo.
SERRA SAN BRUNO – Lento, inesorabile, a volte impercettibile. Un nemico oscuro, subdolo, senza volto, assale alle spalle le comunità ed i paesi delle aree interne della nostra regione. Il territorio montano, con la sua storia, la sua cultura, a volte estremo fortino della memoria e dell’identità rischia lentamente di sparire. A rivelarlo l’impietosa sequenza delle partenze, i cui cicli, da un secolo e mezzo, non sembrano volersi arrestare. Nel corso degli anni è cambiata la destinazione, il mezzo con cui si va via, la tipologia umana, la condizione economica e sociale di chi parte ma anche di chi resta. Ciò che però non muta è lo spirito di chi è costretto a mettersi in marcia, non per volontà, per necessità. Lo sradicamento, tanto mirabilmente descritto da Simon Weill ne “La prima radice”, appare in tutta la sua drammaticità. In anni in cui l’immigrazione viene descritta come il dramma degli altri, in quella fascia di territorio visivamente rappresentata dall’altipiano delle Serre, il fenomeno, tra picchi più o meno alti, è sempre andato avanti, senza sosta. Non è infrequente imbattersi in centri storici ormai spopolati, caratterizzati da porte sprangate, da finestre tristemente serrate. Nei luoghi deputati all’aggregazione spesso si registra l’assenza delle generazioni di mezzo. Le braccia da lavoro o i cervelli partono per tornare magari fugacemente nel solo periodo estivo. Un impoverimento costante, ben descritto da una comparazione dei diversi censimenti. Prendendo come riferimento i dati riferiti a nove comuni della fascia montana, San Nicola da Crissa, Vallelonga, Simbario, Spadola, Brognaturo, Serra San Bruno, Mongiana, Fabrizia e Nardodipace, si osserva immediatamente un drastico calo della popolazione residente. Ove si consideri, infatti, che nel 1861, anno del primo censimento generale della popolazione italiana, gli abitanti ammontavano alla ragguardevole cifra di 27.320, si comprende immediatamente come la scure dell’emigrazione si sia abbattuta impietosamente. Un terremoto di dimensioni vertiginose. I 16.604 abitanti che ancora risiedono nei centri considerati, evidenziano, infatti, un calo di ben 10.716 unità nell’ultimo secolo e mezzo. Una cittadina di dimensioni medio piccole sparita dalla carta geografica. Per avere un’idea del dato è come se un visitatore recandosi a Serra San Bruno, Fabrizia, Brognaturo e Vallellonga trovasse quattro cittadine fantasma, prive di popolazione. La situazione appare ancor più scoraggiante ove si consideri che il progressivo calo dei residenti prosegue ormai dal 1951. Nei nove comuni, oggi, la popolazione è addirittura inferiore di 8283 unità a quella del 1921 quando, a dispetto delle partenze oltreoceano e della Grande guerra, vi dimoravano ancora 24.887 persone. Al termine di un altro conflitto mondiale, nonostante le altissime perdite in termini di vite umane, al censimento del 1951 la popolazione risulta 28.759. Il boom economico con la famosa freccia del Sud, il treno che dall’Italia meridionale scaricava quotidianamente centinaia di braccia da lavoro a Torino e nelle altre città del triangolo industriale, intaccherà dapprima solo relativamente il numero dei residenti, attestatisi nel 1961 a 27.698. Situazione ben diversa vent’anni dopo, quando si registrano quasi diecimila presenze in meno e 17.969 abitanti. Segue una breve quanto effimera ripresa. Nel 1991 la popolazione sale, infatti, a 18.025. Gli anni novanta ed il primo scorcio del nuovo secolo, nonostante i primi flussi migratori in entrata, fanno registrare l’ennesima flessione. Nel 2001 vengono censiti 17.149 abitanti, oggi scesi a poco più di 16.000. In altri termini dal 1991 ad oggi e come se le popolazioni di Spadola, Brognaturo e Simbario fossero svanite nel nulla.
(articolo pubblicato nelle pagine vibonesi de Il Quotidiano della Calabria)
Una plebaglia arrogante e superstiziosa stipata in buie stamberghe riscaldate dall’alito del maiale e dalle feci della gallina o grufolante nelle strade e nelle piazze di un paese senza fogne, così lurido che la miscela di Laplace pompata a tutta forza dal veterinario Francesco Ferrara a stento riesce a disinfettare. Una massa informe, pavida e incosciente, gonfia d’istinti bestiali e vuote giaculatorie, ipocrita nelle sue lamentazioni, disperata nei suoi vizi, soffocata nelle spire squamose d’una presuntuosa ignoranza.
Non c’è, nell’immagine di Serra e dei serresi tratteggiata dal medico condotto, Ufficiale sanitario comunale e più-che-sospetto mangiapreti Antonio Romano nella relazione su L’epidemia di morbillo in Serra San Bruno (1909), quella compassione e quell’afflato didascalico coi quali una ventina d’anni prima Carmelo Tucci rappresentava i serresi ai fanciulli della scuola elementare nel breve Cenno geografico-storico sul comune di Serra San Bruno: cittadini dignitosi, puliti, laboriosi e modesti pur nella totale rassegnazione alla più spietata miseria.
E così pure paiono eclissate, nelle pagine di questa relazione deliberatamente sbilanciata verso l’invettiva, la fiducia nell’esistenza di una viva e presente «coscienza di popolo», da educare e coltivare, o la genuina simpatia con «gli stanchi, gli affaticati, gli oppressi» che avevano contraddistinto Malattie infettive e loro profilassi, l’opuscolo redatto da Romano nel 1906 e distribuito agli insegnanti affinché s’istruissero i giovani su come riconoscere e prevenire il morbillo, la scarlattina, l’infiammo, il tifo addominale, la dissenteria, il colera asiatico, la granulosa, il vaiolo arabo, la difterite e la tubercolosi, affezionatissime e spesso letali compagne di carbonai, segatori, scalpellini, tessitrici, puerpere.
Ne L’epidemia di morbillo la fiducia nel potere formativo e persuasivo della scuola lascia il posto all’amara constatazione della necessità della bajonetta, alla rabbia positivista e vagamente affettata dell’uomo di scienza costretto suo malgrado ad accreditare e perpetuare la bieca immagine dei suoi conterranei come “selvaggi d’Europa” e a scernere nella diffusione di questo morbo ancora in larga misura sconosciuto, ma certamente non grave, che dal primo maggio al 19 luglio 1909 aveva colpito 858 persone uccidendone 83, il segno di una bruciante sconfitta umana e professionale.
Perché sarebbe stato facile -era stato fatto negli anni precedenti, a Serra come a Mongiana, in casi di scarlattina e vaiolo arabo- contrastare la malattia e confinarla nel ristretto spazio di una o due famiglie, se solo i serresi non avessero colpevolmente taciuto al loro medico, per timore della quarantena alla quale Romano li avrebbe inevitabilmente sottoposti, la russajna che già a febbraio li aveva presi. Colpevoli d’aver creduto alle universali virtù curative delle nespole e delle ciliegie, consegnandosi in questo modo alla dissenteria, al supplizio della merda; ma soprattutto colpevoli d’aver realizzato, nel giorno 22 maggio, il folle proposito di una processione in onore di San Rocco per impetrare la salute esponendo sugli usci i malati, i bambini, i deboli, trasformando così poche dozzine di casi in centinaia. Intorno alla metà di giugno Romano e gli altri due medici Giacomo Pisani e il neo assunto Giuseppe Tucci visitavano quotidianamente più di duecento malati ciascuno, nonostante la Provincia avesse ridotto i loro stipendi, costretti talvolta a registrare spaventose complicazioni.
A due bambine di via Anastasio e via Fulciniti erano comparse ulcere nere sulla mucosa interna della guancia che nonostante i lavaggi con nitrato d’argento e soluzione salicilica continuavano ad espandersi fino a quando, invasi palato e gengive e fatti gonfiare viso e collo, non avevano trascinato le bambine in un profondo coma e infine alla morte per cancrena della bocca. Tre bambini, apparentemente guariti, erano stati invece fulminati da una paralisi cardiaca da tossiemia, dalla lordura che avevano nel sangue. Quattro se li era portati via la scarlattina, un altro la difterite, 73 la broncopolmonite: tutti ragazzi di neanche dodici anni. La novenne Rosa Macrì di via Sorvara a Spinetto, pur avendo le carni crepitanti come carta velina e un enfisema cutaneo che, partendo dalla cervice, le avvolgeva il torace e l’addome fino alla radice delle cosce, fortunatamente non morì.
Il veterinario Ferrara e le sue squadre, aiutati dai carabinieri, dovevano entrare a forza nelle case (234 a Terravecchia, 211 a Spinetto), per disinfettarle con soluzione in acqua di sublimato corrosivo, ridurre gli abitanti all’agonia di un bagno caldo, lavarne i poveri panni con l’acqua di Labarraque e quindi costringerli a spalmarsi sul corpo finalmente pulito la pomata a base di acido salicilico.
Ma la gente continuava a raccogliersi e a sciamare dalla casa alla chiesa al cimitero, a organizzare processioni e veglie, a baciare le statue mute, tremendo veicolo d’infezione, invocando la benedizione dell’aria, convinta com’era della generazione spontanea di una malattia inviata dal Signore a proliferare nei miasmi per punire, nella fragile scorza dei figli, i peccati dei genitori.
Aveva tentato, Romano, di porre un freno alla follia popolare sfruttando l’autorevolezza del medico, le prerogative dell’Ufficiale Sanitario, la persuasività dell’uomo di scienza. Venuto casualmente a sapere della diffusione del morbillo, aveva sollecitato l’ordinanza del primo maggio con la quale i padri di famiglia, gli insegnanti di scuole pubbliche e private, le majìstre, gli osti e gli altri venditori di bevande spiritose venivano obbligati a denunciare i casi di malattie esantematiche. La sera del 21 maggio si era precipitato dal sindaco Luigi Filippo Chimirri - fratello del quasi settuagenario, illustrissimo avvocato Don Bruno Chimirri, ex ministro dell’Agricoltura e poi delle Finanze, senatore del Regno – e aveva inutilmente richiesto che la processione fosse vietata. Le scuole erano state chiuse, certo, ma a che pro, se poi quegli stessi bambini venivano trascinati in riunioni e processioni affollate di sputazze?
Il 7 giugno, finalmente, di fronte a una situazione prossima all’insostenibilità, l’amministrazione comunale decideva di raccogliere tutto il suo coraggio ed emanare l’ordinanza in base alla quale si vietavano «tutti gli assembramenti di persone da qualsiasi motivo determinati sia in luogo aperto che in luogo chiuso».
Ma si sa, è la constatazione amara di Romano, che il fanatismo politico e religioso è come corrente elettrica che si propaga non vista, ma avvertita e profonda, nelle moltitudini invase da un’idea, e facilmente si acutizza, trascinando la massa in uno stato di febbre convulsiva che la rende capace solo di sentire, non di riflettere né di ragionare, per consegnarla legata mani e piedi a preti e politicanti indaffarati a perpetuare ed estendere la loro forza. Politica e religione, anch’esse colpevoli in quanto complici dell’epidemia, Romano le ritrae a tinte fosche, come forze oscure, irrazionali e impersonali, intente a complottare ai danni della luminifera verità della scienza, con modi e toni che richiamano da vicino quell’anticlericalismo e materialismo fin troppo schietto e becero di riviste ottocentesche come il Libero Pensiero (dal 1873 il Libero Pensatore), il sedicente «giornale dei razionalisti» uscito settimanalmente tra il 1866 e il 1875 prima a Parma, poi a Firenze e infine a Milano.
E l’accusa più infamante dalla quale Romano deve difendersi è proprio quella, mossagli dai preti, di essersi inventato tutta la storia del contagio e della quarantena solo per dare libero sfogo al suo conclamato anticlericalismo, per impedire alla gente di andare a messa e riuscire così a minare alla radice la religiosità del popolo.
L’amministrazione non aveva perso tempo a fiutare il sentimento popolare e ad assecondare la volontà di un popolino piegato dalle «lojolesche mene» dei preti: dopo sole 48 ore l’ordinanza del 7 giugno veniva revocata dal sindaco su «conforme parere della Giunta Comunale» sulla base della constatazione che «nessuna misura preventiva poteva ormai evitare il contagio». Una giustificazione assurda che alle orecchie di Romano suonava come un insulto personale, probabilmente dettata non da senatoriale ebetudine ma da un lucido e consapevole calcolo politico.
Ferito, insultato e offeso, Romano rassegnava quindi le proprie dimissioni dall’incarico di ufficiale sanitario, dimissioni che sarebbero state effettive non appena terminata l’epidemia. Scavalcando il Comune, si rivolgeva direttamente alla Provincia e alla Prefettura, invocando la forza bruta dei carabinieri - la bajonetta finalmente - a vigilare a che i malati non ricevessero visite e non uscissero di casa; garantiva ai cittadini e agli studenti l’accesso alle scuole e agli altri uffici pubblici solo se vestiti con abiti freschi di bucato, aumentava la frequenza delle disinfezioni, fermamente determinato a ripulire il paese dal morbo e dalla lordura.
Alla metà di luglio, finalmente, l’epidemia era rientrata. Le scuole venivano riaperte, e Romano si apprestava a redigere la relazione da inviare all’Ufficio Sanitario Provinciale. Tuttavia, non intendendo lasciare che tutta la vicenda si riducesse ad un dattiloscritto da far ingiallire negli archivi della Provincia, al contrario fermamente deciso rendere pubblica la sua relazione, non solo come piccolo contributo alla letteratura epidemiologica sul morbillo, allora in forte aumento, ma anche e soprattutto come atto d’accusa nei confronti della gente, del Comune e della Parrocchia, il primo agosto Romano faceva frettolosamente stampare il suo resoconto alla tipografia L. De Francesco & Raho di Serra San Bruno e ne inviava una copia alla Provincia, l’altra alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, dove sarebbe stata custodita e quindi resa pubblica, un memento per ricordarsi di cosa può succedere quando una popolazione è abbandonata a se stessa, alla sua ignoranza, e viene privata della competente e continua attenzione dei propri medici.
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