mini rosi-mastro_brunoScultore della cultura, precursore della questione meridionale. Dal temperamento granitico e con la testa alta, ben dritta sulla schiena. Padre di un lamento irrequieto, bramoso di un riscatto che la sua terra, in realtà, non conoscerà mai. Neanche oggi. Bruno Alfonso Pelaggi, detto Mastro Bruno, a cent’anni dalla sua scomparsa rimane la più pregevole voce poetico-dialettale della Calabria del tardo ‘800. Poeta della protesta contro i mali del Meridione, dalle sue rime passò la denuncia dei sofferenti, dei miseri, di chi appartenendo agli ultimi difficilmente altrimenti avrebbe potuto rendere esplicito il proprio sdegno. Nel suo canto il patimento è patimento reale, la fame è fame vera. Talmente vera che “si pìgghja culla pala!”. Ecco perché a 100 anni dalla sua  scomparsa, è sembrato doveroso proporre una rassegna culturale di ben due giorni che mantenesse vivo l’interesse per questo artista. Ieri cantore della dignità e della miseria dei nostri avi, oggi orgoglio indiscusso per Serra San Bruno tutta. O quasi. Perché, in realtà, c’è chi non gradisce. Anzi rimane del tutto indifferente. In silenzio. Estraniandosi con leggerezza dai fatti come se si stesse celebrando il centenario di “la pitta chìna”. Ed è drammatico che questo silenzio assordante arrivi proprio dal palazzo municipale: nessuno dei membri della giunta comunale si è sentito in dovere di presenziare all’evento o di spendere una parola a riguardo. Unica presenza registrata quella del sindaco (forse perché invitato?), che durante il convegno di apertura ha sostato per circa un quarto d’ora sull’ingresso della sala. Impalato sulla porta, le braccia incrociate sul petto, l’espressione timida e quasi seccata. Come ad una cena a casa dei suoceri: “Ci vado, ma contro voglia!” 

Per di più, agli organizzatori di una manifestazione che ha dato lustro all’intera cittadina e a cui hanno partecipato centinaia di persone, non è stato nemmeno evitato di pagare la quota prevista per usufruire  dell’unica sala convegni disponibile in tutta la città. Supa corna vastunati. Anzi scarpidhati. 

Se davvero si vuole determinare il tanto agognato riscatto, una rinascita per la nostra terra, e non si inizia da quello che già abbiamo, dal nostro splendore, dalla nostra cultura, anche da Mastro Bruno Pelaggi e dal suo ricordo, da che cosa iniziamo? Se c’è l’intenzione reale di avviare un’inversione di rotta che sia oltre che civile ed economica, anche culturale, com’è possibile che giornate del genere passino in sordina? Mastro Bruno non avrebbe avuto riserbo e difficoltà a partorire un doveroso panegirico a riguardo. Magari un elogio all’ignoranza. 

Pubblicato in LO STORTO
Mercoledì, 11 Gennaio 2012 00:10

Serra, la scuola "Tedeschi" chiude per due giorni

mini soffitto_scuola_tedeschiSERRA SAN BRUNO - L'edificio scolastico "Azaria Tedeschi" rimarrà chiuso nei giorni 11 e 12 gennaio. Il sindaco Bruno Rosi, preso atto delle segnalazioni del personale scolastico ed eseguiti i doverosi sopralluoghi da parte di addetti comunali, ha ordinato la chiusura immediata dell'edificio al fine di operare un intervento di derattizzazione. Il problema pare fosse stato sottoposto all'attenzione del primo cittadino prima delle recenti vacanze natalizie ma, a quanto pare, le due settimane di chiusura non sono bastate a ripristinare la sicurezza igienica dell'istituto, rendendo necessaria la chiusura dello stesso per ulteriori due giorni.

Sempre in tema di sicurezza all'interno dell' istituto scolastico "A. Tedeschi", noi de "il Vizzarro.it", allarghiamo al sindaco Bruno Rosi l'invito arrivato in redazione da parte di un genitore che ci suggeriva di "dare un'occhiata" al soffitto dell'aula magna che, a suo dire, versa in condizioni pessime a causa di alcune infiltrazioni d'acqua dal tetto, rappresentando un reale rischio per l'incolumità di alunni, docenti e personale scolastico.

 

Pubblicato in ATTUALITÀ
Martedì, 10 Gennaio 2012 17:28

In ricordo di Padre Modesto

mini padre_Modesto_dueIl 15 gennaio 2004,  dopo alcuni mesi di sofferenze fisiche, nella Casa Santa Rita di Mesoraca, si è spento Padre Modesto Calabretta  francescano dell’Ordine dei Minori. Se ne è andato pian piano ed in silenzio così come aveva vissuto per poco meno di un  secolo sempre al servizio della Chiesa e soprattutto degli umili e degli ammalati e dovunque  in ogni contrada della Calabria.

Padre Modesto, al secolo Bruno, Calabretta, era nato il 26 novembre 1919 a Serra San Bruno (VV), nel “deserto” della contemplazione scelto nel 1091 da Brunone di Colonia per fondare la sua prima Certosa in Italia. Nel 1932 era entrato nel Collegio Serafico di Pietrafitta (CS) e nel 1935 aveva intrapreso il noviziato nel convento del SS. Ecce Homo di Mesoraca. Compiuti gli studi liceali tra Cosenza e Reggio C., aveva frequentato il Corso di Teologia a Tropea e qui nel 1946, per l’imposizione delle mani di Mons. Felice Cribellati era stato ordinato sacerdote. Negli anni successivi aveva operato come vicerettore, rettore e quindi padre spirituale dei seminaristi nei vari Collegi della Calabria. Per 25 anni era stato Superiore a Bisognano (CS) dove ha restaurato l’antico convento e propagato il culto del Beato Umile della stessa città. La tappa precedente del suo cammino di apostolato era stata Cutro dove vi era rimasto per otto anni  amato e stimato e anche qui aveva rinverdito la fede verso il Crocifisso e fatto restaurare il chiostro e buona parte dell’intero complesso conventuale. Ma soprattutto era stato sempre in mezzo alla gente e agli ammalati che visitava con continuità portando la parola di Cristo e conforto alle famiglie. Sempre a Cutro, dopo gli anni di Bisignano, era stato di nuovo destinato e P. Modesto nonostante la sua avanzata età aveva accettato con francescana obbedienza. Qui, nella città del Crocifisso, il 6 ottobre 1996 aveva celebrato il suo giubileo sacerdotale. In quella circostanza, l’allora Arcivescovo di Crotone Mons. Giuseppe Agostino nel ricordare le tappe significative della missione pastorale di P. Calabretta, si era soffermato sull’importanza del nome “Modesto” assunto al momento di diventare frate francescano. E parafrasando il titolo provocatorio di un film francese “Dio ha bisogno degli uomini”, Mons. Agostino aveva voluto sottolineare come la Chiesa e la Comunità civile abbiano bisogno di uomini buoni e soprattutto di preti buoni e “P. Modesto è sicuramente un prete buono”. Durante questi anni, assieme all’opera di predicatore, aveva operato come visitatore apostolico delle Clarisse di Rossano nominato dalla Santa Sede. Negli ultimi anni era stato nominato vice postulatore della causa di canonizzazione del Beato Umile di Bisignano. Questa è stata la sua ultima grande opera tanto inseguita e portata avanti assieme all’altro vice postulatore Don Luigi Falcone, sacerdote bisignanese e bibliotecario generale della Pontificia Università Lateranense e al Postulatore Generale di tutte le Cause per i Santi francescani P. Luca De Rosa di Napoli.

Questo sogno per P. Modesto si era realizzato il 19 maggio 2002 quando Papa Giovanni Paolo II ha celebrato la santificazione del Beato Umile, un altro Santo per la Calabria, il Santo dei nostri tempi. Quel giorno in Piazza San Pietro P. Modesto era là assieme alla “sua” amata gente di Bisignano.

Un altro desiderio aveva il frate serrese: dare il via al processo di canonizzazione di Fra’ Antonio da Saracena, ma il buon Dio ha deciso diversamente per lui. Poco prima di lasciare questa terra, per desiderio dell’Emerito Arcivescovo Giuseppe Agostino, domenica 13 luglio 2003, nel corso di un solenne pontificale presieduto dal Cardinale Josè Saraiva Martins, Prefetto della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi, il nostro “Modesto” era stato insignito della “Croce Pro Ecclesia et Pontifice” per “i meriti acquisiti nel suo ministero svolto per lunghi anni nella Chiesa di Calabria ed in particolare di Bisignano, ma soprattutto, perché, grazie alle sue fatiche, ai suoi pianti, ma anche alla sua tenacia, oggi possiamo onorarci di avere un nuovo Santo calabrese.”

La Comunità francescana di Sant’Umile e tutta la città di Bisignano, con in testa il Sindaco, non hanno dimenticato e riconoscenti lo hanno voluto loro “figlio” per sempre, così come,del resto, P. Modesto aveva sempre desiderato. La sua umilissima esistenza, ora, trova eterno riposo assieme ai “suoi” bisignanesi  che, nel giorno delle esequie lo hanno letteralmente pianto. E il P. Maurizio Dodaro, suo superiore, nel dare l’ultimo saluto, ha ringraziato Iddio “per averci dato questo modesto frate che ha tanto dato e al quale da oggi possiamo rivolgerci come il nuovo santo di Bisignano dopo sant’Umile”. Ed ancora, nell’ambito delle celebrazioni religiose per il Santo di Bisignano, l’Amministrazione comunale gli ha intestato la riqualificata piazza antistante il Santuario. Oggi sulla tomba risalta un messaggio anonimo. “A Padre modesto – Padre amabile, Padre ammirabile, te ne sei andato in silenzio lasciando un vuoto incolmabile. Con te se ne va un grande sacerdote, un uomo piccolo nel corpo, ma grande nell’animo e sinceramente rimpianto. Modesto di nome e di fatto, esempio perfetto di umiltà e civiltà, volto pulito, senza macchia, specchio di santità. Grazie per essere esistito, grazie per le benedizioni sulle nostre case, le nostre famiglie, le nostre vite; grazie per il bene immenso e generoso; hai vissuto per il prossimo e sempre nostro nel Signore. Addio, umile fraticello, sei bello nella luce di Dio poiché luce sei stato sulla terra ed in cielo per l’eternità. Parlerò di te e non mi dimenticherò finché avrò vita.”

Son passati pochi anni dalla scomparsa dell’umile “modesto” frate di Serra San Bruno e son tanti e da ogni regione a chiederne la beatificazione. Gli uomini di buona volontà propongono il loro progetto ma solo il buon Dio sa provvedere!

Pubblicato in CULTURA

mini arresti_9_gen_2012SERRA SAN BRUNO - I carabinieri della Compagnia di Serra San Bruno guidati dal capitano Esposito Vangone hanno tratto in arresto Antonio e Cosimo Francesco Caglioti, padre e figlio, di 55 e 24 anni, di Sant'Angelo di Gerocarne, con l'accusa di ricettazione e detenzione illegale di armi. In un'autorimessa di proprietà degli arrestati sono stati trovati un fucile, due passamontagna, una paletta segnaletica ed un lampeggiante in uso alla polizia. Pare che i due Caglioti siano imparentati con Fortunato Patania, ucciso nel settembre scorso nei pressi di un distributore di benzina poco distante dallo svincolo autostradale di Serre. I carabinieri, alla luce del materiale sequestrato e dei contrasti tra le cosche della zona che sembrano emergere da recenti fatti di cronaca e indagini giudiziarie, ritengono di avere scongiurato un omicidio di 'ndrangheta.

Pubblicato in ATTUALITÀ
Domenica, 08 Gennaio 2012 15:32

Comune, minoranza in catalessi

mini consiglio_comunale_serraSERRA SAN BRUNO - Menti assopite dall’ebbrezza dello spumante o catalessi procurata sulle note di "scurdammoce ‘o passato?". Di fronte alle molteplici disinvolture politiche della maggioranza pidiellina che si sono riprodotte nel corso di questo primo scorcio di consiliatura, la minoranza sembra non saperne - o forse volerne - approfittare. Ma che nemmeno con la revoca di Bruno Zaffino, l’assessore più pesante dell’esecutivo comunale, l’opposizione non prendesse la palla al balzo quantomeno per ricordarsi, nel bene o nel male, di rappresentare circa il 60 % degli elettori serresi, molti non se lo sarebbero aspettato. Oppure, come direbbe qualcuno, è tutto normale, accade pure nelle migliori famiglie e anche in quelle delle compagini politiche serresi, se non fosse per il fatto che in esse accade in contemporanea. Accade sia nel Partito democratico che non riesce a trovare la via per rialzare la china dalla batosta elettorale e che nel consiglio comunale è rappresentato dall’ex candidato a sindaco Rosanna Federico, accade nei frammenti che sopravvivono della lista “La Serra” divisa in due dalle differenti scelte politiche dei consiglieri comunali Raffaele Lo Iacono e Giuseppe Raffele, ed infine accade anche nella lista “Al lavoro per il cambiamento” con un Mirko Tassone inspiegabilmente “assente”. Cosa succede? Dal tutti contro tutti della campagna elettorale si è passati al “tutti amici” di questi giorni, eppure qualcosa non torna. Nessuna uscita pubblica dei quattro consiglieri comunali a rimarcare quanto successo nelle fila della maggioranza, un fatto politico che non trova precedenti nella recente storia della cittadina montana. Neppure il patron del centrosinistra, il consigliere regionale Pd Bruno Censore, è intervenuto a sottolineare il momento di difficoltà del centrodestra serrese, che ora è alle prese col toto assessori - a proposito del quale il sindaco Rosi è stato chiaro: nessun assessorato esterno. Una spiegazione ci sarebbe e potrebbe essere la seguente. Tra i big del centrosinistra che potrebbero trarre vantaggio da una defaillance della maggioranza ci sarebbero gli acerrimi avversari Lo Iacono e Censore. Entrambi tacciono, forse pensando che l’uscita dell’uno a sfavore della maggioranza, la cui caduta non gioverebbe a nessuno dei due, non farebbe che avvantaggiare la posizione dell’altro in grado di veicolare su se stesso il malcontento popolare esistente, per questo meglio tacere e limitarsi a galleggiare. Un’altra ipotesi, che riportiamo solo come tale, potrebbe essere ben più beffarda: chissà che la Befana non abbia voluto regalare ai serresi una maggioranza comunale un tantino più allargata. 

Pubblicato in LO STORTO

mini mastro bruno-cimiteroParole, musica, immagini. Parole sussurate con un nodo in gola; parole urlate ma a denti stretti; parole che fremono e mutano sino a diventare musica, rincorrendosi tra i giochi di ombre e luci che addobbano la sala. Parole, musica e immagini che, ospitate nell’elegante cornice di Palazzo Chimirri, hanno dato vita ad una manifestazione, poliedrica e coinvolgente, dedicata al poeta “Mastru Brunu Pelaggi” in occasione della ricorrenza del primo centenario della sua morte. Un evento completamente autofinanziato, nato dalla sinergia tra l’associzione culturale “Il Brigante” e il Vizzarro.it, il cui obiettivo era quello di omaggiare e far rivivere un artista eclettico e geniale, un uomo tanto umile quanto rivoluzionario, un serrese semplicemente speciale, come pochi altri purtroppo, a cui la cittadina della Certosa ha avuto l’onore di dare i natali.

La due giorni dedicata a Bruno Alfonso Pelaggi, “Mastru  Brunu” per i serresi, è iniziata con un convegno dal titolo “Mastro Bruno e la poesia di protesta”. Il dott. Cesare Pelaia, pronipote del poeta, il prof. Tonino Ceravolo, studioso e storico, e l’antropologo Luigi de Franco, sono i relatori che hanno ripercorso e analizzato la figura personale e letteraria di quello che in molti erroneamente definiscono “il poeta-analfabeta”. Al tavolo dei relatori ha dato il suo prezioso e toccante contributo anche Franco Gambino, fratello del compianto Sharo, la cui storia personale è intimimamente legata a quella della famiglia Pelaggi.

E' stata ripercorsa la storia dell’Unità d’Italia, sono stati raccontati gli anni che hanno forgiato il Mastro Bruno uomo, prima che il poeta che conosciamo. Sono stati fugati alcuni dubbi, primo tra tutti quello che lo voleva analfabeta. E' toccato al prof. Ceravolo spiegare come, ritiratosi stanco al tramonto, dopo aver scolpito il granito per tutto il giorno, il Pelaggi, invece che scriverli di proprio pugno, preferisse dettare i suoi componimenti alla figlia Maria Stella. Due ore intense e ricche di storia, due ore volate via tra cultura popolare, antropologia, letteratura, preziosi ricordi personali e soprattutto, sconfinato amore per la propria terra.

La seconda parte della kermesse ha preso il titolo di “Scarpidhati”, uno spettacolo realizzato dalle Officine Teatrali “Il Brigante”, con musiche del maestro Sergio Di Giorgio (sorprendente polistrumentista, tra i fondatori dei Re Niliu) e del maestro Vittorio Russo (pianoforte), con la partecipazione degli “Autori Appesi”.

Con “Scarpidhati” gli autori - il collettivo di scrittura Ulucci Alì - ripercorrono, come già fatto nel convegno pomeridiano ma con altri strumenti espressivi, la storia della Calabria pre e post Unità d’Italia. Lo fanno dal punto di vista di chi, come Mastro Bruno, quella cupa epoca l’ha vissuta e ce l’ha tramandata attraverso testimonianze, cronache dell’epoca, poesie, musiche e immagini tanto interessanti quanto suggestive. Uno spettacolo entusiasmante e coinvolgente capace di far rivivere ai presenti in sala, la stessa rabbia, la stessa delusione e la stessa sensazione di impotenza, che le genti del tempo nutrivano quotidianamente nei confronti di una storia, quella dell'Unità d'Italia, non certo portatrice di prosperità per le popolazioni del sud.

Quattro attori, nella veste di narratori, tengono il tempo della serata mentre, come in un’altalena di musica e parole, le poesie di Mastro Bruno, si alternano alle note di una musica la cui origine si perde nella notte dei tempi. Nelle “storie” del poeta-scalpellino ognuno degli spettatori si riconosce e nelle umiliazioni che la gente comune era costretta a subire tutti trovano allarmanti similitudini col nostro tempo.

Manifestazione perfettamente riuscita dunque. Sala gremita, posti a sedere tutti occupati ed un bel po’ di gente che pur di assistere si è accontentata di rimanere in piedi. Ad ogni modo, sicuramente, malgrado il successo non c'è stata tutta la gente che avrebbe dovuto esserci.

Cerimonia molto sentita anche stamattina al cimitero di Serra San Bruno, dove il parroco don Gerardo Letizia ha celebrato una messa in suffragio di Bruno Pelaggi, benedicendo l'ossario che ospita il poeta. I bellissimi versi di "Alla Vergine Maria", declamati nello stesso luogo, hanno accompagnato gli ultimi momenti della celebrazione.

Il 6 gennaio del 1912 Serra perdeva uno dei suoi figli migliori e con Serra lo perdeva anche la Calabria ed il meridione tutto. Ieri, 6 gennaio 2012, a ricordare i primi 100 anni della morte di uno dei più grandi artisti che la nostra terra abbia mai avuto, a ricordare uno dei più eccelsi “Mastri di la Serra”, non c’era tutto il paese com’era lecito aspettarsi ma c’erano “soltanto” 250 persone. Che fine ha fatto l’orgoglio serrese? Che fine ha fatto l’amore per una terra ricca di tradizioni  e storia, la nostra storia? Che fine hanno fatto i serresi?

Pubblicato in CULTURA
Venerdì, 06 Gennaio 2012 01:49

Mastro Bruno Pelaggi, il poeta della protesta

mini busto_mastro_BrunoCon la morte di Bruno Alfonso Pelaggi (“Mastru Brunu”) avvenuta il 6 gennaio 1912, esattamente un secolo fa, scompariva una delle voci più potenti e originali della poesia dialettale in Calabria. Pelaggi era nato a Serra San Bruno il 15 settembre 1837 da Gabriele e Giuseppina Drago e aveva trascorso una vita povera di avvenimenti esteriori, se si eccettuano l’arruolamento a 17 anni nella fanteria borbonica, l’incarico di consigliere comunale nella stessa Serra e, probabilmente, la nomina a giurato in un processo a Catanzaro. Come molti altri serresi del suo tempo, apparteneva al ceto degli artigiani (“Mastranza di la Serra”, li definiva un noto strambotto popolare) avendo lavorato tutta la vita come scalpellino, certamente con una buona conoscenza del mestiere, se è vero che Mastro Bruno fu uno degli artigiani locali che contribuirono, alla fine del XIX secolo, alla ricostruzione della Certosa gravemente danneggiata dal terremoto settecentesco. Il mestiere svolto da Pelaggi, insieme con il fatto che abitualmente dettava i propri componimenti poetici (“li stuori”) alla figlia Maria Stella, contribuirà in modo determinante a coniare il luogo comune di “poeta-analfabeta” – altre volte declinato sotto la forma più descrittiva di “poeta-scalpellino” – che si era impadronito delle tecniche di versificazione grazie a una sorta di “sapienza” istintiva, di intuizione poetica naturale, indipendente da qualsivoglia formazione culturale. Sicuramente, Mastro Bruno non pubblicò mai nulla e le sue poesie si trasmisero in forma orale e mediante manoscritti, non autografi e forse non di unica mano, circostanza che autorizza a parlare di una tradizione per diversi aspetti malsicura. Anche per questo motivo esiste nella storia della letteratura calabrese un problema-Pelaggi – com’è autorevolmente attestato dagli studiosi che hanno avuto modo di occuparsi del poeta (da Umberto Bosco a Pasquale Tuscano, da Pasquino Crupi a Sharo Gambino e Antonio Piromalli) – di cui l’occasione celebrativa deve spingere a indicare sinteticamente le caratteristiche essenziali.

La questione appare evidente quando si analizza lo stato delle fonti, sulle quali le edizioni disponibili delle poesie pelaggiane non aiutano a chiarificare i numerosi dubbi in maniera definitiva. Intanto, se si esclude una raccolta curata da Sharo Gambino nel 1973 che non può considerarsi una vera e propria edizione delle “storie” poetiche di Pelaggi, il lettore può rivolgersi a quattro diverse pubblicazioni: “Le poesie di Mastro Bruno” (a cura di Angelo Pelaia, Catanzaro, Tip. FATA, 1965); “Tutte le poesie” (a cura di Biagio Pelaia, Serra San Bruno, Tipo-Legatoria Mele, 1976); “Poesie” (a cura di Giampiero Nisticò, Chiaravalle Centrale, Edizioni Effe Emme, 1978) e “Li stuori (Le poesie)” (a cura di Biagio Pelaia, Serra San Bruno, T. L. M., 1982). Ma, atteso che tali diverse edizioni si presentano tutte come sillogi complete delle poesie di Mastro Bruno, quel che colpisce subito, già a una prima comparazione, è il differente numero di componimenti raccolti: ventuno nel volume del 1965, venticinque in quello del 1976, rispettivamente ventisei e ventinove nelle ultime due. Vale a dire che dal 1965 al 1982 hanno fatto il loro ingresso nel corpus poetico pelaggiano ben otto nuove composizioni tra poesie e frammenti. Non solo, ma delle medesime poesie si possono, talvolta, notare, tra un’edizione e la successiva, aggiunte di versi e strofe anche in misura significativa. Per esempio, il componimento “La pigghiata di Zzimbariu” nell’edizione curata da Biagio Pelaia nel 1976 consta di 36 versi, che diventano 69 nell’edizione del 1982 dovuta allo stesso curatore. Analogo il “destino” della poesia “Amici di Tibberiu”, che appare per la prima volta nell’edizione Nisticò del 1978, ma con le sole prime sette strofe, alle quali si aggiungono ulteriori diciotto strofe, per un totale di venticinque, nell’edizione Pelaia del 1982. Per non dire delle varianti che è possibile osservare e per le quali può capitare che non si fornisca a loro giustificazione un riscontro documentale, ma, come accade in un verso della poesia “A ‘Mbertu Primu”, ci si limiti a notare che “il concetto si rende meglio” con una nuova espressione che modifica la lectio sino a quel momento trasmessa. Il fatto è che, come si evince dalle suddette edizioni delle poesie pelaggiane, le fonti di questi componimenti si riducono all’incerta tradizione orale e a imprecisati manoscritti intorno ai quali non sussiste l’accordo degli stessi curatori. Basti pensare che Angelo Pelaia, a cui è dovuta la prima edizione dei versi di Mastro Bruno, si riferisce come fonte soltanto a un quaderno scritto nel 1915 (tre anni dopo la morte di Pelaggi) da un’amica della figlia del poeta, mentre Biagio Pelaia, nella premessa alla sua edizione del 1976, dichiara di non condividere tale posizione perché, a suo dire, non sarebbe possibile escludere la grafia della figlia medesima, considerato che di questa non sono pervenuti autografi. Con la conseguenza, in difetto di una tradizione manoscritta sicura sull’intero corpus delle poesie, che i curatori talvolta si affidano esclusivamente, per la ricostruzione del “dettato” del poeta, a ipotesi di tipo logico o a considerazioni di natura linguistica o a interpretazioni motivate dal contesto storico-sociale. D’altra parte, non mancano nemmeno perplessità e interrogativi in merito all’attribuzione di tali poesie, se Giampiero Nisticò ne ha riconosciuto come inequivocabilmente attribuibili a Pelaggi ventidue, ne ha espunto in modo categorico altre tre (tra cui la notissima “Alla Vergini Maria”), mentre ha ammesso tra i componimenti autentici la celebre “Alla luna”, rivelando, però, per il solo fatto di averne discusso, l’esistenza di un “retroterra” problematico riguardo a tale attribuzione. Quel che si può dire con certezza è che la pubblicazione della prima edizione delle poesie ha certamente incoraggiato ulteriori “scoperte”, promuovendo, in qualche modo, anche il “recupero” di una parte della tradizione orale per molto tempo rimasta nell’oblio. Proprio per questo, sembra oramai necessario auspicare un’edizione critica, al momento lontana da venire, che provi a sciogliere i diversi nodi attualmente rimasti irrisolti.Parallelamente, si renderebbe indispensabile una seria ripresa degli studi intorno al poeta, anche per chiarire le controverse questioni critiche e interpretative che scaturiscono dai suoi versi. Prima tra tutte quella relativa al rapporto con il ministro di origini serresi Bruno Chimirri (1842 – 1917), apparso a molti, in particolare nel componimento “Don Bruninu Chimirri e li sirrisi”, esageratamente adulatorio: “Don Bruninu Chimirri è galantuomu, / ca di nudhu giammai si vindicàu. / Vui lu sapiti tutti quant’è buonu / e quant’offesi si dimienticau; / e lu sapiti ch’allu sulu nuomu / l’Italia tutta la frunti ‘nchinau / […] Jio poeta non su’, ca scarpidhìnu, / ma dicu sempi «Viva Don Bruninu!»”. Circostanza che è sembrata ancor più degna di nota se si considera che si tratta del medesimo poeta il quale, con accenti lirici indubbiamente più alti rispetto all’occasionale poesia dedicata al Chimirri, ha dato voce alla condizione storica dei calabresi nei decenni successivi all’unificazione nazionale e nella fase di passaggio tra Otto e Novecento, presentandosi, agli occhi della critica, come autore di una poesia di contestazione che non soffre di timori reverenziali nel prendersela con ministri e deputati o nell’alzare il proprio grido di dolore a Dio (“Non bidi, o Patritiernu, / lu mundu mu sdarrupi, / ch’è abitatu di lupi / e piscicani? / Priestu, mina li mani! / Vidi cuomu mu fai, / càcciandi di ‘sti guai, / manneja aguannu”). Da qui un giudizio critico che vuole Mastro Bruno poeta autentico soprattutto quando è poeta della protesta, riconducendo nella cornice del bozzettismo, della satira arguta e dei componimenti d’occasione quasi tutto il resto della sua produzione poetica. Un giudizio, probabilmente, da riconsiderare con attenzione, non certo per rovesciarlo nel suo contrario, ma per restituire Pelaggi a una dimensione meno unilaterale e più piena, quella della poesia senza ulteriori specificazioni e aggettivi. 

 

(articolo pubblicato su Il Quotidiano della Calabria)

Pubblicato in CULTURA

mini manoscrittoLo storico inglese Christopher Duggan, nel suo saggio “La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi", sostiene che il nucleo emotivo su cui si basa l’unità d’Italia sia debole ed inconsistente. Figlio di ambizioni e frustrazioni, di slanci e di sconfitte, vi è stata l’incapacità da parte dello Stato nazionale di risolvere la cosiddetta Questione Meridionale. Per dirla con Sciascia, si parla di questione meridionale grazie all’impegno degli scrittori meridionali, senza le cui denunce essa sarebbe rimasta una “leggenda nera”. Cantore in presa diretta della nascita dello Stato unitario e della Questione Meridionale, dei problemi ad esso connaturati e dei danni che il nuovo governo arrecò al Mezzogiorno ed in particolare alla Calabria, è stato il poeta Mastro Bruno Pelaggi (Serra San Bruno 15 settembre 1837 – 6 gennaio 1912) che visse quasi tutta la sua parabola umana a Serra San Bruno, patria anche dell’amico, più volte ministro, Bruno Chimirri. Il poeta serrese faceva uno dei mestieri più duri, lo scalpellino; aveva imparato la vita alla severa scuola della crudezza e aveva improntato la sua esistenza ai principi morali della giustizia e dell’uguaglianza, assumendo il concetto del bene e del giusto quale regola inflessibile di condotta, che osservò con estrema coerenza, senza timore di scontrarsi con l’ordine costituito e con la moralità del tempo. Esaminando le liriche di Mastro Bruno è possibile rinvenire, in alcuni componimenti, dei concetti e dei principi omogenei. Pur non potendo parlare di pensiero sistematico, in quando il poeta scalpellino non ebbe una cultura letteraria né tantomeno filosofica, è possibile tuttavia parlare di una concezione etico-politica che caratterizza la maggior parte delle sue poesie e che ne fa un acuto osservatore e denunciatore della nascente Questione Meridionale. Non si può parlare di una “poetica politica” come frutto di una coscienza di classe, essa è figlia piuttosto di un “istinto di classe” che nasce dalla consapevolezza che al mondo esistono due categorie di esseri, gli sfruttatori e gli sfruttati, e dalla percezione del poeta serrese di appartenere a quest’ultima. In Mastro Bruno la Questione Meridionale, come rilevato dallo studioso Biagio Pelaia che ha curato “Li Stuori” (nota raccolta dei versi di Pelaggi) fin dalla prima edizione, si manifesta non soltanto come testimonianza diretta, ma soprattutto come vicenda umana personalmente vissuta e sofferta che lo conduce, partendo dalla propria esperienza, a fare delle considerazioni e delle riflessioni più generali ed universali che saranno poi alla base della coscienza meridionalistica. Mentre vi è una serie di otto componimenti interamente dedicati al periodo monarchico-unitario, vi è un frammento costituito da otto quartine dal titolo “Quand’era giuvinottu” in cui il poeta serrese tenta di cogliere, dal suo punto di vista e a posteriori, le differenze tra il regime borbonico e quello unitario, facendo riferimento anche all’attività cospirativa nei confronti del primo.

Quand’era giuvinottu,                                                                                          Quand’ero giovanotto

jio mi ricuordu appena                                                                                            io mi ricordo appena

ca si dicia ca vena                                                                                                   che si diceva venisse

Cientumasi;                                                                                                                           Cientumasi;

di sira, ‘ntra li casi,                                                                                              di sera, dentro  le case,

cu’ certi carvunari,                                                                                                      con certi carbonai,

pimmu ‘ndi dinnu mali                                                                                                  per parlarci male

dilli Borboni                                                                                                                         dei Borboni.

Ch’era ‘nu lazzaroni                                                                                            Che fosse un lazzarone

‘n sigrietu si dicia;                                                                                               segretamente si diceva;

c’ognunu non vulìa                                                                                        perché ognuno non voleva

mu parra forti,                                                                                                          parlare ad alta voce,

picchì a sicura morti                                                                                               perché a sicura morte

jia ‘ncuntru, o carciratu                                                                               andava incontro, o carcerato

e pue cadia malatu                                                                                                   e poi cadeva malato

e si futtia.                                                                                                                            e si scornava.

Tandu non capiscia;                                                                                         Allora non potevo capire;

però (mancu li cani!),                                                                                         però (cosa malagevole!)

cu chist’atri suvrani                                                                                              con questi altri sovrani

si dijuna.                                                                                                                                  si digiuna.

‘N Calabria ormai la luna                                                                                  In Calabria ormai la luna

Va sempi alla mancanza,                                                                                        va sempre a mancare,

e non c’è cchiù spiranza                                                                                        e non c’è più speranza

ca ‘ndargimu.                                                                                                            che ci risolleviamo.

 C’arriedi sempi jimu,                                                                     Poiché andiamo sempre più indietro,

 li mastri e li fatighj;                                                                                sia le maestranze e sia il lavoro;

chissu lu capiscivi                                                                                                        questo l’ho capito

non di mò;                                                                                                                     da molto tempo;

Ca lu Guviernu vò                                                                                                        perché il governo

sulu pimmu ‘ndi spògghja,                                                                                     vuole solo spogliarci,

mu ‘ndi leva la vòggjia                                                                                  facendoci passare la voglia

mu stacimu…                                                                                                               di rimanere qui…

In questo componimento, nei versi iniziali, Mastro Bruno, ricordando uno dei tanti episodi della sua gioventù, riporta un piccolo squarcio dell’attività cospirativa che verosimilmente dovrebbe datarsi intorno al 1848, quando la propaganda antiborbonica era molto intensa. Cientumasi era il cospiratore, quello che oggi sarebbe identificato col termine “terrorista”, uno dei briganti ribelli che all’epoca erano mal sopportati dall’assolutismo borbonico. Dai primi versi traspare la segretezza e la paura dell’attività cospiratrice pre-risorgimentale di cui anche i piccoli centri come Serra San Bruno erano interessati. Di certo il regime borbonico non sopportava critiche o denunce sociali e gli autori erano puniti con il carcere o addirittura con la morte. Il poeta dopo aver descritto quest’attività pone il confronto col regime unitario ed il dato di fatto emergente è sconvolgente. Se durante la monarchia borbonica la libertà, soprattutto quella di espressione e dissenso, era pressoché negata, se il regime assolutistico faceva di tutto per mantenere la Calabria nell’arretratezza sociale e nella conseguente povertà, col nuovo regime sabaudo le classi che potremmo definire proletarie sfiorano la fame e vengono sommerse da nuove tasse per rimpinguare le casse dello Stato piemontese che si era fortemente indebitato e la cui economia era assai inferiore rispetto a quella dello stesso Stato borbonico. E’ noto agli storici come le maestranze artigianali, che spesso erano dei veri e propri artisti, dopo l’unificazione entrarono in un periodo di crisi inarrestabile che ne comportò un lento e inesorabile processo di decadenza fino alla loro scomparsa.

Basta! – Simu ‘Taliani! –                                                                                  Basta! – Siamo Italiani -

Gridamma lu Sissanta.                                                                               Abbiamo gridato il Sessanta.

(Ad Umberto I, vv. 69-70)

Per il cosiddetto meridionalismo classico, la Questione Meridionale consiste nella mancata integrazione economica del Sud nel processo di sviluppo capitalistico a cui era avviato il Nord, mentre per le correnti d’ispirazione marxista questa integrazione in realtà è avvenuta, ma secondo le modalità con cui il capitalismo, nella sua fase avanzata, rende funzionale al suo sviluppo l’economia dei paesi arretrati, annettendoli ed utilizzandoli come serbatoio di manodopera a basso costo e come colonia a cui vendere i prodotti. Le parole di Mastro Bruno sono emblematiche nell’esprimere la passione con cui anche i ceti proletari e più poveri hanno guardato all’unificazione; il passaggio di Garibaldi nella penisola fu infatti motivo di acceso patriottismo anche tra i ceti meno abbienti, che guardavano all’unità come alla promessa di un futuro migliore. L’impresa dei Mille sembrava voler chiamare tutti gli italiani verso una meta comune, superando ogni differenza etnico-localistica. Ma questo non avvenne e dopo l’Unità le divergenze sociali ed economiche riaffiorarono. Con la caduta delle barriere doganali un maggiore flusso di viaggiatori ed uomini di cultura arrivò nel Mezzogiorno e, non conoscendo la realtà sociale e le ragioni dell’arretratezza, si espressero con motivi di disprezzo nei confronti della gente del Sud. A ciò è da aggiungere come improvvisamente il nuovo Stato si trovò a fare fronte ai debiti contratti dallo Stato sabaudo, per risolvere i quali si procedette ad una politica di tassazione più marcata proprio nel meridione. Sul popolo calabrese, dopo l’Unità d’Italia, si abbatté una serie infinita di tasse: la comunale e la provinciale, la tassa di famiglia e quella sul macinato, oltre all'inimmaginabile tassa di successione e all'impensabile leva obbligatoria. La gente del meridione, dopo aver vissuto l’illusione di essere riscattata dall’unità nazionale, dovette rassegnarsi di nuovo e il Mezzogiorno subì un abbandono non soltanto economico ma soprattutto sociale e morale. Cosi Mastro Bruno, esprimendo disperazione e solitudine e identificando l’uomo meridionale sfruttato e deriso dai potenti nonché deluso dagli uomini, scrive al Re:

Picchì hai mu li nascundi                                                                                   Perché devi nascondere

li gridi calabrisi?                                                                                                        i lamenti calabresi?

Non pagamu li spisi                                                                                             Non paghiamo le tasse

‘guali a tutti?                                                                                                                      uguali a tutti?

Ma tu ti ‘ndi strafutti;                                                                                             Ma tu te ne strafotti;

li deputati cchiùi:                                                                                               i deputati ancora di più:

duvi ‘ncappama nui,                                                                                          devo siamo capitati noi,

povar’aggenti!                                                                                                                    Povera gente!

(Ad Umberrto I, vv. 97 – 104)

Ma non avendo nessuna risposta da Umberto I il poeta decide di rivolgere il suo lamento al Padreterno, nella speranza che almeno il cielo si accorga della sofferenza che attanaglia il meridione e la sua provvidenza sconvolga l’ordine terreno basato sulla diseguaglianza:

Non vidi, o Patritiernu,                                                                                      Provvedi, o Padreterno,

lu mundu mu sdarrupi,                                                                                        a distruggere il mondo,

ch’è abitatu di lupi                                                                                              perché è abitato da lupi

e piscicani?                                                                                                                           e pescecani?

(Lettera al Padreterno, vv 1- 4)

A nui ‘ndi scuorticaru                                                                                      A noi ci hanno scorticato

li previti, l’avaru                                                                                                                i preti, l’avaro

e lu Guviernu.                                                                                                                     e il governo.

(Lettera al Padreterno, vv 110 - 112)

In effetti, tra il 1865 ed il 1890 lo Stato unitario spese ingenti somme per l’acquisto di beni ecclesiastici e demaniali, che di fatto impedirono investimenti che avrebbero potuto ottimizzare l’agricoltura meridionale. Il degrado in cui fu lasciato il Mezzogiorno fece sì che l’insicurezza economica dei comuni del sud causasse il rifiuto dei loro amministratori nei confronti di prestiti a condizioni vantaggiose per la costruzione di opere pubbliche, con la conseguenza che  di queste condizioni vantaggiose approfittarono settentrionali intraprendenti che vedevano in questi prestiti una sorta di investimenti redditizi a lunga scadenza. Alla fine Mastro Bruno Pelaggi, deluso ed amareggiato, preso dallo sconforto e sentendo tutte le sue forze svanire, decide di raccontare il suo tribolare alla luna, quale unica e impassibile spettatrice delle sue sofferenze, affidando al suo mutismo il compito di raccoglierle e portarle a riposare con se. Essa è l'interlocutore a cui il poeta serrese rivolge i suoi lamenti, con la consapevolezza di non ottenere mai risposta, poiché essa rappresenta l'infinito, l'eterno e l'immortale, è insomma quello che un uomo non potrà mai essere.

Quantu’agghjuttivi amaru                                                                         Quante amarezze ho ingoiato

‘ntra ‘st’esistenza mia!                                                                                       in questa mia esistenza!

Luna, si non niscia                                                                                              Luna, se non fossi nato

quant’era mieggju!                                                                                                       quant’era meglio!

Pubblicato in CULTURA

mini spera_randi«C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio». Uno dei passi salienti de “La lentezza”, il romanzo in cui Milan Kundera descrive la nostra epoca «ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuole farci capire che oramai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata da se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria». Un passo chiaro, esplicativo di un’età ed un tempo costretti a convivere con lo spettro dell’oblio. Nel momento in cui la tecnologia offre apparentemente un’illimitata possibilità di preservare il passato, si registra una grande propensione a dimenticare. Un’esistenza, la nostra, invasa dall’informazione e dalla cronaca quasi mai destinata a diventare storia. Episodi clamorosi, sui quali l’enfasi mediatica esercita la propria sconfinata energia, lasciano presto il passo al demone invisibile della “velocità”. Uno spettro al quale non sembra sfuggire nessuno, a partire dalle piccole comunità, nelle quali per secoli il racconto orale ha tramandato il ricordo di eventi lontani, di fatti senza tempo. Ciò che spesso oggi manca è, quindi, la memoria a breve termine, il vissuto quotidiano destinato a non divenire mai storia. A volte però esercitare il ricordo diventa una forma di dovere. A poco più di un quarto di secolo, un tempo relativamente breve, viene per esempio da chiedersi dove sia finita quella che i serresi, con una locuzione dialettale, avevano battezzato “la Spera randi”. Un magnifico ostensorio sparito e mai più ritrovato. Il furto, compiuto a Serra San Bruno, nella notte del 18 novembre 1982, all’epoca lasciò inebetita l’intera cittadina. A distanza di anni, il ricordo sembra invece affievolirsi, a tratti addirittura svanire. Eppure non si tratta di un’opera minore. L’ostensorio rappresentava uno dei più grandi capolavori dell’arte calabrese. Era stato realizzato a Napoli, nel 1820, presso la fonderia Russo, ad opera dell’artista serrese Domenico Barillari. Un autentico capolavoro, capace di suscitare l’ammirazione del «Presidente della Accademia delle Belle Arti e disegno D. Costanzo Angelici il quale – nel vedere il modello, secondo il resoconto fatto per la “Platea”, da don Domenico Pisani, avrebbe manifestato -  la grande sua meraviglia dicendo: non essere credibile essere quella Opra, parto d’Ingegno Calabrese». Un oggetto artisticamente imponente, del quale, Domenico Pisani, in un breve saggio dal titolo “Vita e opere di Domenico Barillari” ha scritto: «L’opera è curata in ogni dettaglio e si presenta ricca di particolari: il piede e decorato da foglie di acanto che si accartocciano  e da un tralcio di vite che si insinua intorno alla base e si ripete più in alto. Una perlinatura dorata scorre parallela ad un serto di alloro disposto in fascia mentre, al di sopra, volute fitomorfe fanno da base, sul recto, a tre statuine a tutto tondo che rappresentano la Fede, la Speranza e la Carità e, sul verso, all’Agnus Dei». Il suo grado di perfezione aveva indotto gli artisti serresi del tempo a diffondere la leggenda secondo la quale l’autore, per evitarne la riproduzione, avrebbe gettato in mare il modello ligneo. Alto 112 centimetri e largo 40, del peso di 33 libbre , quasi sei chili, venne trafugato dalla chiesa dell’Addolorata. Oltre all’ostensorio il furto interessò una pisside ed alcuni calici in argento, un crocifisso in avorio ed una statuetta della Madonna. Ad agevolare il lavoro dei ladri, la presenza, all’epoca dei fatti, di una distesa di piccoli orti collocata alle spalle della chiesa. Dal luogo in cui oggi sorge il parcheggio di piazza Tozzo i malviventi poterono introdursi indisturbati nell’edificio di culto, dopo aver segato le sbarre di una finestra che dava nella sacrestia. Sul luogo, i carabinieri rinvennero, numerose cicche di sigaretta, segno che l’operazione andò avanti per diverse ore, alcuni seghetti, una pinza e un paio di cacciavite. La chiesa dell’Addolorata, del resto, già in passato aveva attirato le attenzioni degli “amanti” di arte sacra. Come riporta il resoconto di un cronista che all’epoca si occupò del furto dell’ostensorio, «Nel ’73 in pieno giorno [venne] asportata una tela di notevole valore artistico, opera dell’artista serrese Salomone Barillari. Qualche anno fa ci fu un altro furto. In quell’occasione vennero asportati numerosi oggetti d’arte di notevole valore che non sono mai stati recuperati». Un patrimonio artistico particolarmente ricco quello custodito a Serra San Bruno, dove, già tra Sette e Ottocento si erano segnalati gli appetiti sacrileghi dei ladri. A partire dal terremoto del 1783 iniziò ad essere saccheggiato ciò che rimaneva della Certosa. Furti e ruberie, descritti in un saggio di Bruno De Stefano Manno, nel quale si risale al movente dell’omicidio, consumato nel 1844, di un certosino di origine francese, padre Arsenio Compain che avrebbe pagato con la vita il desiderio di recuperare le opere d’arte trafugate dal monastero. Oggetti ed arredi sacri spesso finiti nelle case di facoltose famiglie del circondario. A riprova le tante abitazioni sulle quali spesso campeggiano fregi ed ornamenti risalenti all’antica fabbrica certosina. Le tracce dell’ostensorio sembrano, invece, essere irrimediabilmente svanite, a dispetto del riscatto offerto, nell’immediatezza dell’evento, dalla confraternita dell’Addolorata. Sulla “Spera randi” pare essere lentamente calato il velo dell’oblio. Eppure in molti all’epoca ritenevano che l’ostensorio non avesse mai lasciato Serra, custodito in un luogo sicuro, dove nessuno sarebbe mai andato a cercarlo.

Pubblicato in CULTURA

mini decretoSERRA SAN BRUNO - E’ datato 21 dicembre 2011 l’atto di revoca con il quale il sindaco Bruno Rosi ha estromesso l’assessore Bruno Zaffino dalla giunta. Il decreto con il quale il Capo della Giunta che guida palazzo Tucci  ha notificato la revoca dell’assessorato al diretto interessato, contiene le motivazioni ufficiali formulate dal sindaco per spiegare la sua decisione. Nel decreto, in merito, si legge: “Ritenuto di dover dare maggior incisività all’azione politico-amministrativa e considerato che ricorrono motivi di opportunità relativi all’attuazione del programma politico-amministrativo che impongono la necessità di rimodulare la Giunta Comunale al fine di dare maggior impulso all’attuazione dello stesso programma e raggiungere gli obiettivi prefissati”. L’ormai ex-assessore, che nei giorni scorsi era uscito allo scoperto dichiarando che “è doveroso che il sindaco spieghi ai cittadini i motivi per i quali mi ha revocato dall’esecutivo comunale” sembra aver accettato, seppur non certo di buon grado, la decisione, dicendosi comunque pronto a “continuare a sostenere la maggioranza e il PDL senza precluderne i rapporti”.

Una scelta, quella del sindaco, che agli occhi di molti appare ancora tanto improvvisa quanto sorprendente, visto che proprio il primo cittadino di Serra San Bruno, in una nota stampa diramata non più di un mese adddietro, si era detto “sorpreso” dal fatto che alcuni organi di stampa avessero riportato notizie riguardanti un rimpasto di giunta che a suo dire “non hanno fondamento a livello politico e nemmeno a livello di semplice pettegolezzo”, aggiungendo inoltre che “non esiste al momento nessuna ipotesi di rimpasto. E’ scontato - aggiungeva il sindaco - che gli assessori abbiano delega piena ed ampia autonomia d’azione nell’ambito dell’attuazione del programma politico-amministrativo”. Un cambio radicale di rotta, dunque, che non allontana i venti di guerra, che qualcuno prevedeva o forse percepiva, all’interno della maggioranza, ma anzi li alimenta, dando la sensazione che la parola fine a questa storia debba ancora essere scritta.

Pubblicato in POLITICA

Il Vizzarro.it - quotidiano online
Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova

Reg. n. 4/2012 Tribunale VV

redazione@ilvizzarro.it

Seguici sui social

Associazione "Il Vizzarro”

via chiesa addolorata, n° 8

89822 - Serra San Bruno

© 2017 Il Vizzarro. All Rights Reserved.Design & Development Bruno Greco (Harry)