Il Vizzarro.it - quotidiano online
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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Riceviamo e pubblichiamo:
‘Ndrangheta, magistratura, politica e massoneria: un quadrato perfetto con al centro alcuni uomini infedeli dei servizi segreti. È questo il singolare ritratto del malaffare mafioso in Italia che emerge dal nuovo libro di Enzo Ciconte Politici e malandrini da qualche giorno in libreria. A leggere le pagine del volume, ma anche a sfogliarne solamente l’indice, emerge chiaramente come il libro affronti l’argomento sia nella sua complessità storica e sociologica sia nella dovizia di fatti, personaggi e particolari che restituiscono al lettore l’immagine di una ‘ndrangheta capace di stringere rapporti e alleanze con politici a vari livelli passando dal controllo diretto o indiretto delle amministrazioni comunali fino ad arrivare all’infiltrazione negli organi di governo regionali e nazionali (e persino in paesi lontani dall’Italia come l’Australia).
Grande attenzione è posta al problema della presenza della ‘ndrangheta nelle fila delle amministrazioni pubbliche e dei partiti che operano nel Nord Italia dove nella ricerca dell’obiettivo dell’elezione a tutti i costi, di fronte al tramonto delle ideologie e della conseguente incapacità dei partiti di attrarre consensi, nuovi e vecchi politici in carriera non hanno disdegnato di chiedere “una mano” ai boss per raggiungere il risultato prefisso. In uno scenario così fosco l’autore non manca però di raccontare anche le storie dei tanti “signornò” che all’onore mafioso hanno preferito quello della buona coscienza e dell’onesta.
Il libro
La ’ndrangheta è l’organizzazione mafiosa in perenne trasformazione. La storia del filo che lega politici e ’ndrangheta è quella più negletta perché la mafia calabrese ha vissuto per un lungo periodo storico in una zona oscura impenetrabile alla conoscenza. Fare la storia del rapporto tra malandrini e politici vuol dire affrontare – e cercare di spiegare – una diversità che fa della ’ndrangheta un unicum nel panorama mafioso. La ’ndrangheta in determinati momenti storici si è differenziata da mafia e camorra sia perché ha stabilito relazioni con il Pci e con la destra eversiva, sia perché è l’unica organizzazione ad avere rapporti con uomini politici che operano nel Centro-Nord Italia e persino in alcuni Paesi stranieri. La ’ndrangheta s’è assicurata la protezione di una borghesia mafiosa ingorda ma anche miope, senza ideali e incapace di immaginare un futuro per la propria terra diverso da quello della subalternità ai governanti di turno o ai mafiosi. ’Ndrangheta, magistratura, politica e massoneria sono un incrocio perfetto. Al centro, come una rotonda che regola il traffico, uomini infedeli dei servizi segreti. Nella prima parte c’è il racconto di lunga durata che dalla Calabria del 1861 arriva sino ai nostri giorni. La seconda parte è dedicata al condizionamento ’ndranghetista su pezzi della politica di alcune regioni: Lazio, Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria, Lombardia. La terza parte mostra come la ’ndrangheta si sia interessata di politica in giro per il mondo. La quarta parte illustra alcune forme recenti di resistenza e di ribellione alla prepotenza e alla volontà di dominio ad opera in particolare di sindaci o di assessori o consiglieri comunali calabresi e del Nord Italia.
L'autore
Enzo Ciconte insegna Storia della criminalità organizzata all'Università Roma Tre e Semiologia e analisi del linguaggio mafioso all'Università dell'Aquila. È considerato tra i massimi esperti di fenomeni mafiosi.
Antonio Cavallaro
Ufficio stampa
Rubbettino Editore
Per alcuni autori della letteratura meridionalistica e non solo, molto spesso, l’infanzia o l’adolescenza sono state un utile strumento di lettura e d’analisi: primo per raccontare storie che fossero espressione di un contesto socio-culturale territoriale regionale, se non addirittura nazionale; secondo, evidenziare eventuali fenomeni sociali. E’ il caso di Saverio Strati con il suo “Tibi e Tascia” e “Mani vuote”, di Corrado Alvaro con “Gente in Aspromonte”, di Pier Paolo Pasolini con “Ragazzi di vita” ed “Una vita violenta”, ma anche della letteratura del centro-nord del Paese, come con Fenoglio ed il suo Agostino di “Malora”, di Carlo Cassola con “La ragazza di Bubbe”e per certi aspetti, anche se figura controversa, ma comunque adolescenziale, anche l’Alessandro di “Eroi del nostro tempo” di Pratolini; ed infine, ultimi, non per ordine d’importanza, Silone e prima ancora di Verga, rispettivamente con il loro Neorealismo politico e Verismo letterario. Ma non sono solo i personaggi di questi romanzi le icone della letteratura sociale del sud del Paese (escludendo i borgatari violenti di Pasolini e le metafore di Pratolini, Fenoglio, Gadda, ecc.) i paradigmi di quegli scenari reali o presunti (molto spesso agropastorali della prima metà del Novecento) che la realtà, pure letteraria, ha oramai consegnato alla storia o alla finzione cinematografica. Più di altri, a raccontarci di tutto questo è il Gesuino di Malifà di Sharo Gambino (Frama e Rubbettino edizioni), l’esempio e l’emblema di quel racconto sociale che esce fuori dagli stereotipi della violenza di mafia, di casta sociale o delle vicende degli adulti in generale e ne mette in luce le contraddizioni dell’uomo in quanto essere, e dell’essere sociale con i suoi ma e i suoi perché. L'Autore, per la prima volta nel panorama letterario meridionalistico, in superficie spinge dal fondo dell’abisso della coscienza collettiva, di quel Meridione indifferente ed a volte apatico, in particolare di quella Calabria rurale, che in parte oramai appartiene al passato, la violenza feroce, distinta dai tratti gentili dell’adolescenza, tratteggiandone aspetti e psicologia, tanto da farne un'unicità ed un caso letterario. Sì, il Malifà di Gambino esce dagli stereotipi e proietta sullo sfondo di quel mondo l’immagine di quella violenza degli adulti, frutto ed effetto di condizionamenti culturali e deviazioni sociali, ma porta in rilievo, soprattutto, un altro tipo di violenza: più cruda, più feroce, più drammatica, perché fatta d’innocenza ed ingenuità; perché perpetrata da bambini in un mondo di adulti violenti, ma subita da un ragazzo per l’espiazione di una colpa che lui non ha commesso, nel momento più bello e più tragico della sua vita. E' quell'attimo in cui, nell'avvertire la gioia inebriante dell'abbracciare e sentire il profumo di un corpo caldo bagnato di una donna e la scoperta del suo stesso, di corpo, con il torpore della ragione e la piacevole inquietudine dell’anima, nell’aprirsi dei sentimenti, lo allontana così dal suo Dio ( perché sente il paradosso della ragione della fede, sentendo la ragione dell'avvertire), e lo avvicina alla vita degli uomini, però, purtroppo, quando già il suo cammino è oramai segnato (da quel suo stesso Dio?) verso le porte del paradiso. Dall’altra, la visione deistica e l’inculcata percezione della presenza sbagliata di quel Dio non suo, nonché l’idea di una religiosità opprimente, fatta anche di residuati ancestrali di paganesimo e visione delirante, quasi eremitiana, di primo cristianesimo orientale o da primo Medioevo; ma anche presenza violenta nell’assenza di un padre e di una speranza insperata per un futuro migliore, lo portano al risveglio della coscienza ed al "lume della ragione," e lo assegnano al mondo delle cose e dell'inquietudine del corpo.
E’ vero, il Gesuino di Gambino con la sua Malifà è un concetto letterario nella Storia, ma che trova la sua origine e si alimenta nell’arretratezza socio-culturale e nell’ignoranza religiosa ed a volte violenta della ruralità sociale di Ragonà e Cassari di Nardodipace, nonché della Calabria degli anni cinquanta, residuali scampoli di una feudalità d’anno Mille. Ma è anche l’espressione di una società morente (perché vittima dei suoi stessi pregiudizi) la quale, non riuscendo a creare tensione connettiva e sviluppo sociale, si ripiega su se stessa e muore. Se la morte del protagonista è la metafora di una società che raggiunge il suo epilogo e si piega su se stessa, sotto il suo stesso peso, dall’altra, però, la presenza di figure, direi minori, poste sullo sfondo: il Fiorello, l’organizzatore di rivolte, l’uomo che rifiuta l’idea manzoniana dell’ineluttabilità della violenza del potere sulla società, fanno dire all’autore che c’è una possibile speranza, anche in quell’emisfero fatto di sottomessi. Purtroppo, il mondo di Gesuino nonostante tutto non è morto, anche se in agonia, mentre quello indicato e suggerito da Fiorello non è ancora nato, perchè Godot, non è ancora arrivato. Nel riferimento letterario di Malifà, saranno pure cambiate le forme del suo malessere sociale, ma non la sostanza. La terra che vide Gambino fare il maestro serale nel 1959 - “Eroe del nostro tempo!” - sin da più di trent’anni, oramai ha la sua chiesa ed il suo cimitero; non girano più per le strade uomini avvinazzati a portare cadaveri stecchiti al camposanto del vicino paese o durante le lunghe nevicate invernali non si conservano più morti in casa, in attesa di poter aprire un varco lungo distese di neve e scoscesi pendii. Ma il riferimento letterario del Gesuino di Gambino gira ancora, come residuato di ere a noi lontane nel tempo, carico e gravato dei suoi pregiudizi religiosi e della sua idea di giustizia, un po’ ricurvo per il peso degli anni e della sua statura, a volte, con il suo sacco vuoto sulle spalle, e le lunga braccia penzoloni, come rami rinsecchiti. Metafora di una metafora! Figure che la modernità non ha cancellato e che il presente sta sbiadendo, ma comunque, ancora testimoni di un Tempo, come corpi di pietre scolpite su una strana isola: alieni che tracciano scie, senza volerlo, nella memoria delle loro Malifà. Aspetti di un mondo dove la finzione letteraria non ha avuto confini e la realtà, anche d’oggi, è sfumata, dove il bianco dell’uno ed il nero dell’altro intridono l’area di un grigio indistinto. L’idea di speranza di Gambino e di autodeterminazione e presa di coscienza di sé dei malifioti con Fiorello, non è come quella di Silone con il suo Berardo Viola, il quale condisce di visione leniniana pseudo-pararivoluzionaria la pentola della storia dei cafoni della Marsica. Il Fiorello di Malifà, nelle sue istanze ed esigenze di rivolta non ha ambizioni velleitaristiche di organizzare la loro rivolta attraverso il giornale e l’informazione, o di fomentare sedizioni e spedizioni punitive; non individua nelle classi sociali più abbienti l’elemento e l’ostacolo d’ abbattere per la creazione di una società comunista (come nel caso della rivolta di Caulonia) ma rivendica il diritto di dissentire e di protestare, nelle regole e con le regole (questa sì è finzione letteraria!) organizzando a sua volta i malafioti, contro quello Stato che gli nega l’identità di cittadino: la mancanza assoluta di strutture viabilistiche, l’assenza di un medico, di un prete, delle più elementari condizioni di vita sociale. Nella Malifà di Gambino, ovvero, la Ragonà e la Cassari vive degli anni cinquanta, questi sono i temi e gli aspetti che sembrano riportarci, anche se eufemisticamente, all’Eboli leviana. Un mondo al di fuori del tempo e della storia, un mondo dove quel Cristo stenta ancora ad arrivare, anche perché l’assenza di quello stesso Cristo, ne determina la mancanza della critica della ragione e dell’autocritica della coscienza, disponendo così il proprio biglietto da visita, ancora stampato col grigio dell’ignoranza. Il paradosso è che, nonostante il vorticare, a volte violento, del mondo d’oggi e delle società occidentali, la spinta propulsiva del motore di quel Nazareno, ancora non s’intravvede, e l’attesa di Vladimiro e compagni sembrerebbe inutile. Il viaggio di Girotta da Malifà alla casa del medico, perché visitasse quel corpo morente, sembra essere la metafora dell’assenza di un “cammino”, di quel famoso e più volte evocato Cristo (come il richiamo di Godot, diluito e spalmato sull'attesa dell'eternità) lungo il palcoscenico della vita. Così, le pozioni magiche della Scazzòntara (vicina di casa dei Sambàrvara) mentre Gesuino muore, non ci portano di certo oltre “I morti della collina”, e ci lasciano nel nostro viaggio “dei fatti e delle gesta” - come - “simboli del destino” dei malifioti, molto, molto prima del cimitero di “Spoon River”, e direi nel tempo remoto, anche se fuori dalla storia. E’ “Il mondo dei vinti”. E sebbene sia un universo fatto di una umanità vera, paesaggi reali, sentimenti concreti, come i personaggi alla Concia della Brancaleone del “Carcere” di Cesare Pavese; un universo oramai quasi archiviato dalla grigiosa e sfumata memoria di una senilità traballante, o dalla nebbia del tempo, di ancora sopravvissuti testimoni di un mondo, o ancora come patrimonio collettivo dentro le ingiallite pagine di un libro. Racconti, questi, nati non dall’estro fantasioso di uno scrittore immaginifico, ma solo vicende, a volte non definite col proprio nome, e registrate dall’acuta ed attenta osservazione di uomini che con la loro umanità si sono calati nell’inferno di quel presente.
Vincenzo Nadile
Riceviamo e pubblichiamo:
L’ultimo scorcio del 2012 ha annoverato Maria Cirillo tra gli scrittori di opere narrative. L’uscita del suo libro, avvenuta il 21 dicembre scorso, ha segnato nuovamente il passo al protagonismo culturale fabriziese. L’autrice, infatti, è fabriziese doc. Nata a Fabrizia, ha vissuto e lavorato per 40 anni nella sua cittadina natia, dalla quale ha ricevuto affetto e stima ed alla quale ha reso i propri servigi con dedizione e professionalità. Nel suo primo romanzo “Lì, all’ombra delle pietre accastellate”, ha consacrato il suo amore per l’arte narrativa, esaltando e facendo rivivere la passione per i fantastici luoghi del misterioso territorio del Pecoraro, un tempo integralmente fabriziese ed infine ridimensionato dalle scissioni di Mongiana e Nardodipace. È sul versante occidentale di quest’ultimo, in stretta connessione con quello mongianese ed il frontale di Fabrizia, che si svolge il cuore della storia narrata dalla scrittrice Maria Cirillo. È una storia che appassiona già dalle sue prime pagine e che conforta la mente, conducendola dolcemente in un mondo fantasioso. Un romanzo autenticamente realistico, sia nella trama che nella concretezza moderna e contemporaneamente primitiva dei suoi struggenti personaggi.
Il romanzo è stato pubblicato dalla Casa Editrice Prospettiva di Civitavecchia.
Vincenzo Costa
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