Quando aprì il portone del suo appartamento, Sharo Gambino rimase impietrito. Era l’inizio del 1973. A Serra San Bruno faceva freddo e “Don ‘Ntoni” Macrì era avvolto in un cappotto scuro. Lo guardava dritto negli occhi. Il mammasantissima della ‘ndrangheta jonica disse che era andato in quel palazzo perché doveva recarsi da un notaio che stava al piano di sotto. Almeno così disse. E per caso si era accorto del nome sul citofono. Sharo lo conosceva bene: sulla scrivania, di là, c’erano le ultime bozze della seconda edizione de La mafia in Calabria. Aveva già scritto di quel boss della vecchia mala reggina, e lui adesso era lì davanti che provava a spiegargli, con un elegante giro di parole, il senso della sua inaspettata visita. Aveva letto, oltre che qualche suo articolo sulla ‘ndrangheta, anche la prima edizione del libro-inchiesta sulla ‘ndrangheta, e si dimostrava quasi sorpreso del clamore suscitato da sequestri e omicidi.
Poi cominciò ad abbassare progressivamente il tono della voce. Si mise a parlare, con malcelata vaghezza, dei pericoli a cui va incontro chi scrive e fa i nomi di “bravi cristiani”. Si fermò un attimo, che a Sharo sembrò non finire mai, e lo fissò in silenzio. Uno sguardo che non lasciava adito a mezze interpretazioni: continuare a fare i nomi sarebbe stato molto pericoloso. Poi Macrì riprese il discorso, continuò fluido nel suo ragionamento. Non valeva la pena spingersi oltre, questo voleva dire “cumpari ‘Ntoni” dall’alto dei suoi 64 anni. Specie poi quando si ha un bel lavoro - aggiunse, facendosi molto più esplicito - una bella famiglia, tre bambini piccoli. Sharo, a cui si gelò il sangue a sentire menzionare i suoi figli, cercò subito di chiudere lì il discorso. Spiegò con impazienza che lui si occupava del fenomeno ‘ndrangheta, quasi da studioso, e che non si sarebbe spinto a mettere alla berlina singole persone facendone i nomi. Congedò così sbrigativamente quel pezzo da 90 che aveva bussato al suo portone, e per dimenticare l’episodio tornò subito ad immergersi tra i suoi scritti. Poi però nell’incubo ci ritornava ogni mattina, giusto qualche ora dopo l’alba, quando una volta uscito di casa per accompagnare i figli a scuola, prima di mettere in moto la sua fiat 127, lasciava i bimbi a distanza di sicurezza per il timore fondato che qualcuno nella notte gli avesse imbottito l’auto di tritolo. E loro, Sergio, Tiziana e Marinella, lo guardavano confusi e spaventati da lontano.
Sharo Gambino, scomparso ormai dal venticinque aprile di quasi cinque anni fa, era nato a Vazzano, altro paesino di periferia, nel cuore dell’entroterra Vibonese, a metà fra il Tirreno di Tropea e l’impervio massiccio montano delle Serre. Visse gran parte dei suoi ottantatré anni a Serra San Bruno, avvolto nel caldo abbraccio della moglie Melina e tra gli appaganti schiamazzi di una prole affettuosa e cospicua: un figlio e cinque figlie. Iniziò quasi per caso la sua carriera letteraria, dopo che la stessa signora Gambino, maniaca dell’ordine e della pulizia, lo aveva con validi argomenti persuaso ad abbandonare la ben più caotica e sudicia arte della pittura. Tutti, compreso Sharo, impiegarono davvero poco a capire che, nonostante i comunque buoni risultati ottenuti con tele e pennelli, lo scambio si sarebbe rivelato nel tempo più che giusto. Scrisse 42 libri. Tra questi La mafia in Calabria rappresenta un punto fermo nella vasta bibliografia dello scrittore, e non solo. Quell’inchiesta, pubblicata nel 1971, segnò uno spartiacque nel modo di raccontare il fenomeno mafioso in Calabria. Anzi segnò un inizio. Fu la prima opera a svelare rituali e cerimonie della ‘ndrangheta. La prima lucidissima fotografia della fase di trasformazione da mafia rurale a organizzazione ramificata e potente. I nomi, incurante delle minacce di don ‘Ntoni, Sharo li fece eccome. Raccontò i summit storici come quello di Montalto; le tradizioni, i linguaggi e i simboli dell’onorata società; gli omicidi eccellenti, tra cui proprio quello del padrino sidernese che lo era andato a cercare; la mattanza dei vecchi boss; la ferocissima guerra di Reggio; l’anonima sequestri; la spartizione dei lavori per l’autostrada; la nuova ‘ndrangheta che non abita più le stalle e i fienili, ma siede ai tavoli che contano per spartire il piatto con politici e Stato.
Gambino è stato dunque il precursore assoluto dello “scrivere di ‘ndrangheta”, tra l’altro in un’epoca in cui farlo significava compiere un atto, più che di cronaca, di profondo coraggio. Basti pensare che alla fine degli anni ’70 la mafia calabrese non era ancora stata riconosciuta dalla giustizia ufficiale, al contrario di quanto invece già avveniva per la “sorella maggiore” siciliana, tanto che, per gran parte del Novecento i giudici catanzaresi usavano il termine generico Mala vita per designare i soggetti che associatisi tra di loro formavano un’organizzazione criminale.
Ne La Mafia in Calabria, fra le altre cose, Gambino spiega come la mafiosità calabrese sia una forma mentis diffusa nell’intero sistema sub culturale della regione, caratterizzato peraltro da una straordinaria debolezza delle autorità e dalla tendenza della popolazione a diffidare degli organi statali e a cercare riparo nel sistema informale delle istituzioni di mutuo-soccorso, in primis la famiglia e la clientela. Così si è andata creando una duplice morale che, da una parte, vede con favore i legami personali e dall’altra rende omaggio all’ordinamento formale, ma in realtà in maniera solamente esteriore, perché intimamente lo avversa.
Quello che parte quindi in quegli anni dalla bocca, anzi dalla penna, di Sharo, è un’accusa che emerge nell’indifferenza e nel silenzio più assoluto, una denuncia che non trova destinatari bendisposti a condividerla, smorzata soprattutto da tutti quegli intellettuali che sorvolano con malcelata superficialità sulla reale consistenza di una ‘ndrangheta già radicata da tempo in ogni ambito della società. Intellettuali che, al pari di Gambino, ieri come oggi, avrebbero avuto la possibilità di raccontare la “Calabria vera”, piuttosto che limitarsi a guardarla fingendo di non vederla. I suoi sono quindi scritti solitari. Più unici che rari. Racconti che solcano gli Appennini, dalla Sila all’Aspromonte, ponendone in chiaro verità e tormenti. Arando una terra amara e disperata, intaccata dal sangue e dal pianto inappagato di scagnozzi cresciuti troppo in fretta a colpi di zappa e lupara. Figli di una Calabria già spenta, incapace di concedere soluzioni, dove affiliarsi al male è sempre più spesso un obbligo, un’alternativa alla fame e alla miseria. Una terra in cui o “si parte o si muore”.
Proprio per questo Gambino finisce quasi per diventare uno scrittore scomodo, perché dagli altri scrittori si distingue parlando di una criminalità organizzata per tutti ancora poco intentata. Anzi totalmente inesistente. Scrive, Gambino, raccontando fatti e vissuti che riecheggiano nel silenzio assordante della sua epoca. Parla di ‘ndrangheta e lo fa non per metterne in evidenza gli aspetti folkloristici e popolari, ma identificandola fin dal principio come un male assoluto fortemente radicato. Una pianta maligna da estirpare che avrebbe trovato, come poi fu, terra fertile in una Calabria maledetta, stanca e disillusa che lo scrittore, senza sosta, utilizza come sfondo ai suoi racconti. A storie pronte ad immortalare la vita sempre uguale dei paesi minuti. Dei volti dei vinti. Delle esistenze piccole e comuni, che non trovano spazio nella storia ufficiale. Pagine che parlano, oltre che di mammasantissima, anche di monti e di fiumi, di capre ed ostie sconsacrate, di erotismo e del mangiare, di ombre e partenze, bombe e Chiostri, lenzuola e cravatte, Santi e briganti. E soprattutto delle terre dimenticate da Dio: di Nardodipace e Ragonà, anzi, di Malifà.
La sua visione del mondo non ristagna nelle biblioteche buie o negli scaffali polverosi di freddi studi privati. Gambino queste cose le racconta perché, soprattutto, le vede e le vive. Ricerca con dedizione quotidiana la storia e l’identità perduta del suo territorio, della Calabria. Ha modo di trovare illuminazione per la stesura dei suoi romanzi da riscontri concreti, carpiti in un mondo che, oltre a sentire suo, osserva e poi soccorre. Proprio un decennio dopo il tramonto del secondo conflitto mondiale, ha modo di toccare con mano il disagio e l’arretratezza di Nardodipace e delle rispettive frazioni, riuscendo a richiamare l’attenzione sulle condizioni in cui viveva la gente del luogo. Lo fa come gli compete, da intellettuale che non nutre affatto il timore di rimboccarsi le maniche e sporcarsi il palmo delle mani, mettendo a dimora i semi della sua passione in una terra apparentemente arida, che però ancora oggi custodisce con orgoglio i frutti del suo impegno di scrittore, e di uomo.
Sergio Pelaia
Salvatore Albanese
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“Guardatelo, guardatelo, è un attore nato” e mi indicava soddisfatto ai suoi amici. Le mie smorfie di gioia e le varie espressioni goliardiche (che ho evidentemente ereditato da lui) provocate dalla promessa precedentemente fattami di una “cosa bella”, lo inorgoglivano. Peppe Correale e Nik Spatari. Loro discutevano, ridevano, disegnavano, e “Sergio”, per non “rompergli l’anima”, lo avevano messo davanti ad una montagna di creta, con qualche “sgorbia”. Ogni tanto Rocco Ritorto, il poeta, si aggiungeva alla compagnia e da qualche soppalco creato dal Maestro Peppe Correale per posizionare le sue meravigliose creazioni di bronzo, di creta e di marmo che contornavano il laboratorio, recitava, come se fosse su un pulpito, le sue poesie “una appressu all’ata”. Correale mi prendeva la mano e mi spiegava, e mi insegnava, lo stesso faceva anche Nik Spatari. Papà non mi si avvicinava mai in quei pomeriggi. Mi sapeva in buone mani. Il mare di Siderno, che intravedevo oltre la ferrovia vicinissima alla casa dell’amico sidernese, era di un blu meraviglioso per un bambino abituato a vedere per trecento giorni l’anno i boschi verdi di Serra San Bruno. Correale nella mia fantasia, per somiglianza fisica, era Domenico Modugno. Spatari era Sandokan. Il ricordo di quel laboratorio è ancora vivo: quelle giornate cambiarono per sempre la mia vita. Altrettanto bello per me il ricordo di Siderno, di Mammola, dove Nik e Hiske stavano costruendo l’attuale MU.SA.BA. Continuai a seguire mio padre nei suoi viaggi artistici e d’inchiesta. Un giorno fermò la sua 127 verde nei tornanti di strada che dalle Serre scende ripida come una vipera attorcigliata sul tronco di un albero, verso la Locride. Mi mostrò il “selvaggio west” - ”… li’ abita Sasà Galluzzo, il pittore” - indicandomi Grotteria che era proprio sotto di noi. “Questa è una delle zone più belle della Calabria, culla di civiltà e di storia, eppure è una zona terribile, che si sta distruggendo da sola. Un paradiso abitato da gente che vive queste zone come se vivesse l’inferno”. Non capivo. Guardavo quei luoghi, come se fossi stato un “turista tedesco”, e ricordavo solo Correale e Spatari, Galluzzo e Ritorto…davvero non riuscivo a capire di quale male oscuro parlasse. Poi capii. Capii quale male lo dannava, quale fosse la sua rabbia. Quanto amava questa Terra e come la sua analisi su quello che sarebbe stato il prossimo futuro, il presente che noi conosciamo oggi, fosse giusta e terribilmente vera. “Amo e ho amato la Calabria di un amore morboso”. Poi mi raccontò una storia che io vi voglio raccontare, nella sua semplicità, come venne raccontata ad un bambino di dieci anni. E’ piena di quei sentimenti, di quella passione e di quell’amore per il suo popolo che accompagnarono Sharo per tutta la vita. Durante un incendio nel bosco, mentre tutti gli animali fuggivano, un passerotto volava verso l’incendio, in direzione contraria rispetto agli altri, con una goccia d’acqua nel becco. “Dove vai!?” gli gridò il cinghiale. “Vado a spegnere il fuoco”, rispose il passerotto, “Con una goccia d’acqua!?” disse il cinghiale con un sorriso di sogghigno. “Io la parti mia la fazzu…”. Questo il ricordo semplice di uno dei figli di Sharo Gambino, che dei calabresi e di quella Calabria buona fu figlio e padre.
Sergio Gambino
(Servizio pubblicato su "Il Corriere della Calabria")