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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Nella serata di ieri, i carabinieri della Stazione di Soriano Calabro, guidati dal maresciallo Barbaro Sciacca e diretti dal capitano della Compagnia Carabinieri di Serra San Bruno, Stefano Esposito Vangone, hanno proceduto alla notifica di un'ordinanza per espiazione pena detentiva emessa dal tribunale di Palmi nei confronti di Giuseppe Mastruzzo, 41enne disoccupato di Limbadi già noto alle forze dell'ordine, ma domiciliato a Gerocarne, per il reato di ricettazione, commesso a Feroleto della Chiesa, nel Reggino, nel lontano 1996. L'arrestato, tradotto presso la propria abitazione in regime di domiciliari, dovrà adesso espiare la pena di un anno e cinque mesi.
Come le grandi celebrazioni, officiate per omaggiare e onorare i grandi uomini che hanno dato un loro indelebile contributo alla società, allo stesso modo, ha assunto grado di solennità la messa celebrata il 23 settembre scorso per ringraziare don Gerardo Letizia, parroco della parrocchia San Biagio di Serra San Bruno, da poco in pensione dopo una lunga e proficua carriera ecclesiastica.
FABRIZIA - In un silenzio assordante, interrotto soltanto dalle urla di dolore della madre e dal suono delle campane, la salma di Alessandro Greco è giunta nella chiesa Matrice di Fabrizia, dove per l'ultima volta i familiari, i parenti, gli amici ed anche semplici conoscenti, hanno voluto salutare un giovane che, tra mille difficoltà e dopo tanti sacrifici, aveva deciso di emigrare in Svizzera. Nessuno, però, si sarebbe mai aspettato che oggi, a soli 25 anni, Alessandro tornasse nel suo paese, nella sua Fabrizia, chiuso in una bara. Oggi Sandro è uscito per l'ultima volta dalla sua casa.
Il 7 ottobre del 1993, mons. Cantisani attribuiva alla parrocchia di Brognaturo lo status di Santuario. Praticamente da sempre, i fedeli delle Serre vibonesi, in occasione della novena che introduce i festeggiamenti in onore della Madonna della Consolazione (prima domenica di settembre), si univano giornalmente in pellegrinaggio, dirigendosi a Brognaturo per prendere parte alla messa. Anche se adesso i pellegrini sono diminuiti, ogni anno non mancano i fedeli che seguono l’antica tradizione.
Oggi è il giorno in cui si festeggia la "miracolosa" Madonna della Consolazione, nata da mano acheropita e scoperta nel lontano 1721. Secondo quanto narra la leggenda, durante alcuni lavori di ristrutturazione che si stavano facendo in chiesa, un muratore, per puro caso, scopre sotto l’intonaco di una parete un affresco rappresentante la Madonna col Bambino. In un primo momento cerca di riportare alla luce l’immagine per intero, ma, subito dopo, come scosso dalla scoperta, la ricopre con la malta che stava utilizzando per i lavori all’interno della chiesa. Ma, ogni tentativo da parte sua di ricoprire il miracoloso affresco risulta vano. Allorché il muratore, uscito dalla chiesa, diffonde tra i fedeli della notizia del ritrovamento dell’effige mariana.
Tra le persone accorse per vedere l’affresco, vi era anche uno storpio, il quale, giunto di fronte alla Madonna col Bambino, ebbe come l’istinto di profferire l’invocazione «sii per sempre la nostra consolazione». Dette queste parole, lo storpio guarì miracolosamente, e i fedeli, presenti al prodigio divino, da allora chiamarono l’immagine mariana col nome di Madonna della Consolazione. La comunità brognaturese attribuì altri miracoli alla propria patrona. Tra questi, si racconta che, grazie all’intervento protettore della Madonna della Consolazione, sia in occasione del violento terremoto del 5 febbraio 1783 (che rase al suolo l’intera Calabria), sia in occasione dell’alluvione del 21 novembre del 1935 (causato dallo straripamento del fiume Ancinale), nessun abitante di Brognaturo perse la vita.
Come si ricordava nell’articolo riguardo la nascita di località Spinetto a Serra San Bruno (vedi correlato a piè di pagina), sul territorio comunale esistono due chiese omonime dedicate alla Madonna dell’Assunta, della quale oggi si tengono i solenni festeggiamenti. Oltre alla “divisione” della popolazione, che si venne a creare di conseguenza al terremoto del 1783, per molti anni, spinittari e teravicchiari (rispettivamente abitanti del nuovo e del vecchio nucleo urbano), il 15 di agosto hanno festeggiato separatamente la festa dell’Assunta con due differenti programmi religiosi e civili, entrambi presieduti dalle omonime congregazioni.
Come racconta Domenico Pisani nel capitolo “L’arte” della pubblicazione “Serra San Bruno e la Certosa” – curata a sei mani con Salvatore Luciani e col professor Tonino Ceravolo – «l’opera che più ha fatto parlare di sé è la bella statua lignea della Madonna dell’Assunta (XVIII sec.), conservata nella chiesa (antica ndr)».
La stessa, quasi sicuramente opera dell’artista serrese Antonio Scrivo, è stata fatta su modello della meravigliosa Assunta di manifattura napoletana (XVII sec.), che si trova nell’omonima chiesa di Spinetto, trasferita in quella dopo il terremoto del 1783, e che la comunità ivi sorta non volle ridare alla popolazione di Terravecchia.
Dunque, una volta che l’antica chiesa dell’Assunta – conosciuta anche come chiesa di San Giovanni o della “panella”, per il fatto che i certosini vi distribuivano il pane per i poveri – riprese il normale esercizio delle funzioni, venne commissionata una nuova statua della Madonna sul modello dell’antica.
«Quando si pensò di restaurare la vecchia chiesa – scrive ancora Pisani – […] gli abitanti di Terravecchia ordinarono una copia perfetta a uno sconosciuto scultore serrese, forse Antonio Scrivo». In realtà, la Madonna realizzata da Scrivo per la chiesa dell’Assunta di Terravecchia, sarebbe la seconda copia fatta su modello dell’antica. «Probabilmente – sostiene Domenico Pisani – per l’esecuzione della nuova statua fu indetto un concorso. Ciò spiegherebbe l’esistenza di una terza scultura, opera di Vincenzo Zaffino (artista serrese ndr) […] conservata nel museo diocesano di Rossano, dove fu portata dall’arcivescovo Bruno Maria Tedeschi».
Forse la statua di Zaffino ai serresi non piacque. Ragion per cui venne di seguito commissionata a Scrivo. La leggenda racconta che, dopo che Vincenzo Zaffino ebbe realizzato la sua copia dell’Assunta, la figlia di lui nacque con un accentuato strabismo, percepibile anche sulla statua Madonna che egli aveva realizzato. «Fu così che per voto – dice ancora Pisani – eseguì la statua di Santa Lucia, oggi conservata nella chiesa dell’Addolorata di Serra». Secondo la tradizione orale, la figlia di Zaffino ottenne così il miracolo della guarigione.
-Serra, le chiese dell’Assunta e le origini del 'conflitto' tra Spinetto e Terravecchia
«La nostra Calabria rammenta con estremo dolore l’anno 1783 epoca del gran Tremuoto, o a dir meglio, dei Tremuoti, che l’hanno sobbissata»*. Queste sono le parole di don Domenico Pisani, che nel voler tramandare ai posteri «i fatti e le vicende più rimarchevoli» di Serra San Bruno, cominciò a scriverne una cronistoria, “La Platea”. Come ogni zolla di terra della Calabria, anche Serra fu colpita dal tremendo terremoto (il 5 e il 7 febbraio) del 1783. Circa 30 persone persero la vita, e vittima del tremendo fenomeno fu anche la Certosa, che dell’originaria struttura si può notare, oltre le mura, la cinquecentesca facciata in granito.
Dopo che l’intera regione tremò, gli abitanti di Serra San Bruno furono costretti ad abbandonare il centro urbano (attuale Terravecchia) e ad erigere abitazioni di fortuna nella zona oltre il ponte, sull’altra sponda del fiume Ancinale. «E perché il luogo più aggevole – scrive don Domenico Pisani – […] era quello al dilà del Ponte, fino allora incolto, e seminato di Spine (da qui il nome Spinetto ndr) perciò buona parte delle famiglie ivi ricorsero, e si alloggiarono nelle proprie baracche».
Tra gli altri, a stabilirsi nell’appena nato villaggio, anche il vicario don Vincenzo Giancotti «Cancelliere della Curia del Convento, perciò a pochi giorni si formò di Tavole la Chiesa nello stesso luogo dove è attualmente e la quale avea aspetto di Chiesa Parrocchiale» e che assunse il nome di Maria SS. Assunta, dato che la vecchia e omonima chiesa, nel centro abitato distrutto, era ridotta in rovina.
Per circa un anno, la nuova Chiesa assunse la caratteristica di Parrocchia, e le funzioni vennero officiate per tutta la popolazione che vi accorreva. I sacerdoti di Serra, «annojati da una parte, e dall’altra affezzionati verso l’antica Chiesa», la riadattarono alla meglio per riprendere l’esercizio delle funzioni. Ad ogni modo, Il vicario Giancotti – che assisteva nella curia della Certosa – preferiva, per la vicinanza col Convento, la nuova chiesa sorta in località Spinetto, tanto da chiederne, fino ad ottenerlo – col favore del priore della Certosa – il regio assenso per il mantenimento della stessa ivi costruita. «Qual Partito siasi suscitato fra le due popolazioni, e qual contrarietà abbia dimostrato la Popolazione di Serra» sono ancora le parole di don Pisani, che rispetto agli eventi succedutisi lascia spazio all’immaginazione. Ma qui, non entriamo nel profondo delle diatribe tra i fedeli sostenitori della nuova parrocchia e coloro i quali volevano far riprendere l’attività religiosa nell’antica chiesa, oramai conosciuta con il titolo di «Chiesa del Purgatorio». Ad ogni modo, è doveroso raccontare un fatto molto curioso e degno di nota, che qui si riporta per intero: «In conseguenza di tale contrarietà si racconta: Che venuto a piantare la novella Chiesa un Regio Ingegniere di cognome Sig: Morèna, tanto non soffrendo vedere un affezionato all’antica, chiamato Francesco Pisano […] prese costui l’Ingegniere Morèna a colpi di mano prima, e poi lo rovesciò a Terra, producendo un corrispond.? tumulto fra quelli d’amb’i Partiti, che eran presenti, dove si facevano i preparativi per la nascente Chiesa».
A questa, corrisposero altre azioni perpetrate per fermare la costruzione della nuova struttura, cattive ma non del tutto ingiustificate, in virtù del fatto che nel regio assenso s’includeva il trasporto di tutti i sacri arredi dall’antica alla nuova chiesa. Tra questi, anche la statua della Madonna dell’Assunta, storia che racconteremo a breve, in occasione dei prossimi festeggiamenti.
Dai singolari eventi storici sopra descritti, nasce l’atavico “conflitto” tra gli abitanti di Terravecchia e quelli di Spinetto, differenza che, con fare scherzoso, ancora oggi viene rimarcata dalle due popolazioni serresi, sempre pronte a sottolineare, ciascuna da parte sua, le negatività degli abitanti viventi al di là e al di qua dell’imparziale fiume Ancinale.
*Le citazioni tra caporali sono qui riportate testualmente
È cominciata così stamattina la messa in località Spinetto, con don Ferdinando che comunica ai fedeli la notizia di trasferimento. L’avviso ufficiale sarebbe arrivato direttamente dal Vescovo, che nella giornata di ieri ha reso edotto il parroco della Chiesa dell’Assunta di Spinetto di Serra San Bruno, sul suo trasferimento nella cittadina di Chiaravalle C.le, senza che i fedeli abbiano però ancora chiari i motivi di questa scelta.
Stamani, dunque, alla notizia del trasferimento – evidentemente non condivisa – è stato espresso qualche malcontento e di seguito i fedeli hanno disertato la funzione a mo’ di protesta. Quando i corrispondenti della stampa locale si sono recati presso la chiesa per comprendere cosa fosse accaduto, qualche fedele avrebbe invitato i giornalisti ad allontanarsi per far passare in sordina il procedimento di mons. Vincenzo Bertolone. Per don Ferdinando sarebbe dunque finita l’esperienza da guida spirituale a Serra San Bruno.
Nella mattinata, dopo la decisione dei fedeli di abbandonare la funzione domenicale, il prete si sarebbe ritirato in sacrestia con il sindaco di Serra e il priore della congrega dell’Assunta di Spinetto. Dopo l’udienza in sacrestia, la funzione è ripresa con la partecipazione di pochissimi fedeli. Contestualmente è nato un comitato spontaneo costituito da cittadini che chiedono al Vescovo di ritirare il provvedimento.
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Il 18 luglio 1974, giusto 40 anni orsono, moriva a Roma Mons. Bruno Pelaia, Vescovo di Tricarico. È stato l’ultimo, in ordine cronologico, dei prelati figli di Serra San Bruno, feconda terra di spiritualità. I suoi predecessori, li ricordiamo, furono: Mons. Domenicantonio Peronaci (1682 – 1775) vescovo di Umbriatico; Mons. Domenico Giancotti, vescovo di Isola Capo Rizzuto; Mons. Giuseppe Barillari, Pastore di Cariati (1847-1902); coevo a questi fu Mons. Biagio Pisani (1850 - 1919), arcivescovo di Famagosta, Cesarea e Lepanto; l’arcivescovo di Rossano Calabro, Mons. Bruno Maria Tedeschi, morto a Salerno nel 1843.
Il nostro Mons. Bruno Pelaia nasceva, sulle sponde dell’Ancinale e all’ombra della millenaria Certosa, il 27 maggio 1903. Nasceva, come ci ricorda il compianto Sharo Gambino nel suo “Sull’Ancinale…” (Ed. Mit. 1982), «da umile famiglia nella quale c’era stato già un suo zio prete memorabile per bontà e semplicità, don Angelo Pelaia, morto per improvviso attacco cardiaco mentre sull’altare della chiesa dell’Addolorata, dove era padre spirituale, stava officiando il vespro».
Compiuti gli studi ginnasiali nel Seminario di Squillace, il seminarista Pelaia passò al Seminario Regionale di Catanzaro per gli studi liceali e teologici e conseguita la laurea in Sacra Teologia, è stato ordinato sacerdote il 29 luglio 1928 da Mons. Giovanni Fiorentini, arcivescovo di Squillace-Catanzaro e già vescovo di Tricarico. Nello stesso anno si portava a Roma per frequentare il corso triennale di specializzazione in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico e qui, nel 1931, conseguiva la licenza in Materie Bibliche.
Sempre nello stesso anno gli veniva affidata, dalla Sacra Congregazione dei Seminari ed Università degli Studi, la cattedra di Sacra Scrittura, Ebraico e Greco biblico, prima nel Seminario Regionale di Chieti, quindi in quello di Catanzaro e poi nel Pontificio Regionale di Reggio Calabria.
Di nuovo a Catanzaro, dal 1954, nel ricostruito Seminario Teologico, distrutto dai bombardamenti, e qui vi rimaneva per molti anni. In questo trentennio è stato apprezzato e chiarissimo maestro portando l’alto livello scientifico del Cardinale Agostino Bea e di Padre Alberto Vaccari, dei quali era stato fedele allievo. Tanti sono i suoi lavori editoriali lasciatici in eredità: Traduzione dai testi originali, ebraico ed aramaico, dei libri di Esdra e Neemia (Ed. Marietti, Torino 1957); La Rivelazione (Lezioni di Teologia per Laureati, Reggio C. 1947); la collaborazione per la sezione biblica alla Enciclopedia Ecclesiastica (Marietti - Vallardi 1941); alcune monografie su: Sant’Alberto Magno (Chieti 1932), L’abbandono di Gesù in Croce (Roma 1934), L’Eucarestia nel Vangelo (Teramo 1935), L’apostolato nel pensiero e nel cuore di S. Paolo (Roma 1936), Il Professor Francesco Scerbo, orientalista calabrese (Milano 1958), Eschatologia messianica Quarti Libri Esdrae (Roma 1931)
Così scriveva il Bollettino Diocesano di Tricarico nel 1960: «Singolarmente impegnativo è l’insegnamento dell’esegesi e delle altre materie bibliche, sicché prendono molte ore di studio ed obbligano ad un continuo aggiornamento. Ma il prof. Pelaia ha sempre voluto mettere a servizio della Chiesa, oltreché il suo intenso studio, anche il suo sacerdozio. Sacrificando perciò il tempo del suo riposo, ascoltava volentieri le confessioni ed impartiva la direzione spirituale ai seminaristi...assolveva con la precisione e la competenza, che lo distinguono, il delicato compito di confessore ordinario e straordinario delle comunità religiose affidategli dagli Ecc.mi Vescovi; si prestava ben volentieri nel ministero delle confessioni anche al popolo...L’A. C. ha trovato in Monsignor Pelaia il sacerdote assistente ed il maestro nei corsi regionali e diocesani, sia per la FUCI che per la G. F., per i Laureati ed i Maestri Cattolici, domandandovi bontà sacerdotale e chiarezza di dottrina. In questo succedersi di lavoro senza pausa, è doveroso ricordarlo, mai fu vinto da stanchezza o impazienza, ma l’affabilità ed il sorriso erano la veste e l’anima del suo apostolato....Ovunque Mons. Pelaia si distingueva per serenità e precisione, fedeltà e praticità».
Nel 1960, il 29 giugno festa di San Pietro, nella Basilica dell’Immacolata di Catanzaro, Bruno Maria Pelaia riceveva, dall’allora arcivescovo catanzarese Armando Fares, la Consacrazione Episcopale. Il 14 agosto, accolto festosamente da clero e fedeli, arrivava a Tricarico, in provincia di Matera, doveva iniziava il suo apostolato di Pastore prima come vescovo titolare di Landia, quindi Coadiutore del vescovo di Tricarico Mons. Raffaello Delle Nocche e, alla morte di questi, Vescovo di quella Chiesa il 10 febbraio 1961, prendendone solenne possesso l’11 maggio 1961.
È stato uno zelante, amico e severo Pastore della sua Chiesa e soprattutto un Padre, un Padre particolarmente rivolto ai suoi seminaristi, ai quali donava tutto il suo interesse, li aiutava nei problemi personali, li aiutava anche materialmente perché potessero proseguire con serenità i loro studi e per essi istituì con i propri risparmi una borsa di studio diocesana e segnatamente per quelli più bisognosi. E ancora. Il magistero pastorale di Mons. Pelaia, durante i suoi quattordici anni di episcopato, si è sviluppato in vari modi: dai discorsi e dalle conferenze, dalle esortazioni semplici per i fedeli semplici e soprattutto attraverso le dodici lettere pastorali indirizzate a clero e popolo finalizzate al richiamo alla fede, alla fedeltà alla chiesa, all’autentica e genuina interpretazione del Concilio. Scriveva nella 1^ Lettera Pastorale: «Siate fermi nella fede in Dio Padre Onnipotente, senza di cui non si comprende il mondo, la vita, il nostro destino, la storia stessa. Una raffica violenta di materialismo ateo si appresta, con malcelata baldanza, ad avvelenare le nostre popolazioni semplici e laboriose con orpelli di progresso, di scienza e di benessere».
Ed in altra Lettera: «La fede è adesione personale, convinta, sofferta, che non può trovare surrogati di nessun genere;... è il “sì” che consente al pensiero divino di entrare nel nostro, per arricchirlo, per illuminarlo e per conseguenza impone alla nostra vita scelte nuove e impegnative, non solo nel settore intellettuale e ideologico ma anche e soprattutto in quello morale, professionale e familiare».
Il Prelato serrese avrebbe voluto donare di più, «dolente se per motivi di salute non sempre ho potuto mettere in opera quanto avrei desiderato e talvolta anche dovuto», chè i suoi quattordici anni di episcopato tricaricese furono caratterizzati da condizioni fisiche assai precarie con frequenti ricoveri ospedalieri. Le note delle “Attività del Vescovo” si son fermate al 31 dicembre 1973. E però non si rese estraneo alla vita della Diocesi, fu sempre “presente”.
Ma, confortato dalla presenza affettuosa di pochissimi intimi e di alcuni familiari che erano sopraggiunti da Serra San Bruno, all’età di 71 anni, Mons. Bruno Maria Pelaia si è spento a Roma alle 9.30 del 18 luglio 1974. Aveva tanto amato la sua Serra, non se n’era mai dimenticato, vi tornava sempre d’estate, nella casa del fratello Angelo e circondato dai devotissimi nipoti, per ossigenare il corpo e rinforzare la sua spiritualità davanti alla tomba del Santo di Colonia. Chi scrive lo ricorda nelle sue passeggiate serali nei pressi della chiesetta di san Rocco assieme ai giovani seminaristi serresi oggi apprezzati e amati sacerdoti.
Serra San Bruno, la madre terra, lo ha sempre amato e cercato. E dalla Serra San Bruno di oggi, Mons. Bruno Pelaia meriterebbe maggiore attenzione e memoria anche in questo 40° della sua morte.
Mimmo Stirparo
Il caso di Oppido Mamertina, seguito poi da quello di San Procopio, è finito al centro delle cronache di tutta Italia. I fatti ormai sono noti: Madonne e Santi in processione sostano e si inchinano davanti alle abitazioni che accolgono vecchi boss costretti ai domiciliari, e come per fatalità, per la prima volta – è proprio il caso di dirlo – grazie a Dio, il mondo inizia a condannare riti e rituali che fino ad ora si era semplicemente limitato ad osservare. Poi, ieri, una nuova polemica. Questa volta a mettersi di “traverso” è la Chiesa: la storica processione della Madonna del Carmine a Vibo Valentia, che si sarebbe dovuta svolgere per le vie del centro storico della città, viene annullata. Lo stop preventivo è arrivato dalla parrocchia della stessa Chiesa del Carmine, di concerto con la Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, in seguito alle determinazioni assunte dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza.
Polizia e carabinieri per diversi giorni hanno sottoposto al vaglio i nominativi dei “portatori della statua della Madonna del Carmelo”. Fra di loro – evidenziano le forze dell’ordine – vi sarebbero diversi soggetti vicini ad ambienti criminali. Da qui il passo è breve: «Misure straordinarie – si è detto – per il “commissariamento” della processione». Proprio così, commissariamento, come avviene per i Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa in cui gli amministratori voluti dal popolo vengono sostituiti da altri scelti dal governo, in analogia (tornando al sacro) con quanto accadde già nelle ultime festività pasquali a Stefanaconi, quando le statue vennero portate in spalla dai ragazzi della Protezione civile.
A Vibo, il Prefetto aveva piuttosto suggerito alle autorità religiose di far trasportare la Madonna su un furgoncino guidato da un rappresentante della Protezione civile. Misura, però, risultata non gradita. A “controindignarsi” questa volta è stata proprio la parrocchia del Carmine di Vibo, che, contrariata dalla sola idea di vedere la statua della Vergine recata in processione da qualcos’altro o da qualcun’altro che non siano gli abituali e più noti portantini – secondo gli inquirenti «vicini alla cosca di 'ndrangheta dei Lo Bianco» – dichiara, addirittura, l’annullamento della cerimonia, una delle più sentite e seguite del capoluogo. In definitiva, il rito è dunque saltato. In chiesa, in serata, si è celebrata la messa, nella piazzetta del Carmine si sono tenuti i festeggiamenti civili. Alle pareti ancora resiste un piccolo manifesto affisso prima della contesa per indicare il percorso che avrebbe dovuto seguire la processione.
L'astinenza da corteo a cui la diocesi ci condanna, il vuoto che questa probabilmente genera, soprattutto, nello stomaco dei fedeli, non può di certo risultare più insopportabile di una manciata di pezzenti che si inchinano al cospetto del boss. Ma l’idea di rifiutare anche il camion guidato dal referente della Protezione civile non è di certo un atto di giustizia. Si tratta, anzi, di un provvedimento che lascia la sensazione che nulla di coraggioso sia stato fatto per arginare il problema. O che, comunque, nulla sia stato fatto per restituire realmente la Madonna ai credenti evitando di tenerla ostaggio di una valenza “culturale” del tutto distorta, che si nutre di “inchini”, metafore e simboli emblematici. Così si è finito per negare la processione a tutti, anche a chi ripudia la mafia ed intende piegarsi solo ai piedi della stessa Madonna in segno di reale venerazione religiosa.
Siamo invasi dalla retorica ridondante di chi si scaglia contro la «non giusta considerazione della bella e ospitale Calabria», ma mai, stranamente, ci si chiede dove abbia poi condotto tanta eloquenza nel decantare una terra spacciata, solamente, per pura e genuina. Sarebbe molto più proficuo, forse, se gli assertori di tanta magnificenza – quelli che in genere si rifugiano nelle formule dei «meravigliosi mari e montagne», del bergamotto reggino e della ‘nduja di Spilinga – prendessero davvero posizione di fronte ad un declino, soprattutto culturale, di cui non si può più tacere. Indichino soluzioni tangibili e percorribili e non frutti impuri della peggiore ipocrisia. Perché altrimenti questa terra, già socialmente ed economicamente fragile, rischia di affondare definitivamente per i troppi inchini.
Per questo soprattutto la Chiesa, pregna di intellettualismo elitario, di teologi che hanno fatto finta di non accorgersi di questa involuzione, che sono stati velatamente indulgenti con la capacità della ‘ndrangheta di influenzare anche lo spazio “sacro” delle manifestazioni religiose popolari, adesso sbaglia di grosso se immagina che le processioni possano cambiare rotta e modalità su semplice indicazione del Prefetto di turno o su sospensioni dell’ultimo minuto. Piuttosto, ciò dovrebbe accadere secondo un atto di coraggio che abbia origine soprattutto nella Chiesa stessa, obbligata a farsi carico di un problema che – in troppi casi – essa stessa ha contribuito a generare per mera e timorosa compiacenza. Per comodità e quieto vivere. L’inchino al cospetto dei “notabili” e dei “potenti”, il togliersi il cappello davanti al boss, è un atto di soggezione che la Calabria deve ripudiare con forza e non sfuggire timorosamente per decreto.
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