Mercoledì, 04 Settembre 2013 12:11

Inghiottiti dal nulla. L'incubo della lupara bianca arriva anche nelle Serre e nel Soveratese

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mini bosco_mamma_118Peggio che uccidere un uomo, è ucciderne anche il ricordo. Farlo svanire nel nulla, cancellarne la memoria, privarlo anche di una degna sepoltura e tenerlo sospeso, come in un limbo eterno, in uno spazio e in un tempo che non è né della vita né della morte. Un destino tremendo, che in Calabria è toccato a molti, tanto da diventare metodo, pratica consolidata, privilegiata da chi vuole annientare una persona non solo fisicamente, da chi vuole cacciare il “nemico” in un inesorabile oblio. È la famigerata lupara bianca, l'arma più temibile della 'ndrangheta, che uccide, inghiotte e non lascia tracce dietro di sé, solo dubbi atroci, domande disperate che non troveranno mai risposta. E tanto dolore. Le vittime non si contano più, come non si contano le madri che cercano con cocciutaggine una verità che solo in alcuni, rari casi sono riuscite a far venir fuori. Di contro, invece, questa barbara pratica criminale si sta materializzando anche in territori che, finora, ne erano rimasti immuni. Perché la lupara bianca “conviene”

, rappresenta per le 'ndrine una “soluzione” definitiva, che crea molti meno problemi rispetto all'omicidio in cui il cadavere viene fatto ritrovare. Le vittime sono i nostri desaparecidos, per lo più giovani, che hanno pagato con la vita una scelta sbagliata, una frequentazione pericolosa, un gesto avventato, un “errore”, un affronto considerato intollerabile da chi, per perpetrare il proprio potere, deve imporre agli altri la legge della sopraffazione.

La storia forse più nota è quella di Santino Panzarella, scomparso nel luglio 2002 a Curinga, centro poco distante da Lamezia Terme. Di lui è stata ritrovata solo una clavicola, quasi un decennio dopo, nelle campagne di Polia, nel Vibonese. Le indagini hanno rivelato che il motivo per cui è stato ucciso e fatto sparire sarebbe la relazione amorosa che aveva intrecciato con la moglie di Rocco Anello, temuto boss di Filadelfia. E proprio tra quest'ultimo paese, Francavilla Angitola e Curinga c'è il triangolo della lupara bianca, che negli anni ha fagocitato decine di persone scomparse nel nulla, all'improvviso, senza che nessuno vedesse e senza che se ne sapesse più nulla. Lo stesso destino è toccato a Valentino Galati, scomparso il 27 dicembre 2006 e mai più ritrovato, il cui fratello, Cristian, fu bruciato vivo la notte di capodanno del 2009 nelle campagne tra Filadelfia e Maida, probabilmente perché uno dei suoi tre presunti carnefici – poi arrestati e processati – era convinto che Cristian sospettasse che lui sapesse qualcosa della scomparsa del fratello. Dopo Panzarella e Galati, è toccato a molti altri – si parla di una quarantina di persone – sulla cui sorte non si è mai più riuscito a scoprire nulla.

E così è stato anche a Stefanaconi, piccolo centro alla porte di Vibo oggi tristemente noto per la faida che ha visto contrapposti i Patania alla “società” emergente dei “piscopisani”. Qui nell'ottobre del 2007 a scomparire fu Michele Penna: anche lui secondo gli inquirenti fu ucciso per una relazione amorosa, con la moglie di un esponente di spicco del clan Petrolo-Bartolotta, di cui peraltro lo scomparso avrebbe fatto parte. Ancora oggi, nonostante le condanne inflitte per il suo omicidio, i genitori di Penna continuano a chiedere invano che qualcuno li aiuti a trovare il corpo del figlio. Eppure, finora, nessuna traccia, sebbene questo sia uno dei pochi casi di cui si sa quasi tutto.

Così come si sa molto, anche se da poco, del destino a cui è andato incontro Placido Scaramozzino. Il parrucchiere di Acquaro, considerato vicino, “troppo” vicino, alla locale cosca Maiolo, il 28 settembre del 1993 fu imbavagliato, legato e trascinato in una zona impervia tra i boschi di Ariola, frazione di Gerocarne. Dal racconto di un pentito – Enzo Taverniti – è emerso che Scaramozzino sarebbe stato aggredito a bastonate, a colpi di zappa, e poi sepolto quando era ancora vivo. Per questo delitto sono stati condannati Antonio Altamura, 66 anni, detto “u sindacu”, ritenuto il capo e il garante degli equilibri della “società di Ariola”, e Vincenzo Taverniti, 53 anni, detto “Cenzu d'Ariola”. Condannati per omicidio, dalla Corte d'Assise di Catanzaro, a 28 anni di reclusione, ma non puniti per l'occultamento di cadavere,  perchè il reato nel frattempo è andato in prescrizione.

Questi delitti atroci sono stati consumati in territori – la zona collinare a ridosso del lago Angitola, l'Alto Mesima, le Preserre, le periferie di Vibo – in cui la lupara bianca è quasi diventata “tradizione”, un metodo collaudato che, quasi sempre, ha garantito l'impunità ai criminali e che quindi è stato adottato tante volte nel corso dei decenni. Insomma sono posti divenuti noti anche – in alcuni casi soprattutto – per questo. Nulla di nuovo, dunque. La novità preoccupante, invece, riguarda altri territori, come le Serre o il Soveratese, in cui negli ultimi anni si sono verificati diversi casi di persone scomparse e mai più ritrovate. La lupara bianca, insomma, è arrivata anche in zone che, pur non essendo affatto immuni dalla presenza attiva e consolidata delle 'ndrine,  storicamente non conoscevano il terrore della mafia che, oltre ad uccidere, inghiotte i corpi degli uomini e ne distrugge la memoria.

Così è successo per Giuseppe Todaro, scomparso a 28 anni da Soverato il 23 dicembre 2009. Pare che la sua famiglia fosse legata al clan Gallace di Guardavalle, entrato in guerra con il nuovo “locale” fondato a Soverato da Vittorio Sia – boss ucciso la mattina del 22 aprile 2010 – con l'appoggio dei Novella di Guardavalle, dei Procopio di Davoli e dei Vallelunga di Serra San Bruno. Tre persone ritenute organiche a queste cosche – Maurizio Tripodi, Michele Lentini e Davide Sestito – sono accusate dell'omicidio e dell'occultamento del cadavere di Todaro, mentre alcuni suoi parenti – il padre e il fratello – furono arrestati perché autori di un agguato fallito proprio ai danni di Vittorio Sia. Secondo gli investigatori i Todaro – come emerge dall'inchiesta “Mythos” – sarebbero stati arruolati dai Gallace per gestire gli affari criminali a Soverato, incontrando la reazione del gruppo Sia-Procopio-Tripodi. Tra l'altro la scomparsa di Todaro avvenne due mesi dopo l'omicidio di Damiano Vallelunga, potente boss delle Serre freddato a Riace il 27 settembre 2009.

Proprio questo omicidio eccellente ha scatenato una guerra che covava sotto la cenere da tempo, conosciuta impropriamente come la “seconda faida dei boschi”, che avrebbe lasciato sul campo decine di morti ammazzati. Tra le vittime, appartenenti ai due schieramenti, Todaro potrebbe non essere l'unico inghiottito dalla lupara bianca. C'è un altro scomparso, di cui però non si ricorda nessuno, o quasi. Si tratta di Franco Amato, 38enne svanito nel nulla il 29 settembre 2010. Era un mercoledì: Amato uscì di casa intorno alle 16.30 e non vi fece più ritorno. Risultava essere residente a Scordovillo, quartiere di Lamezia Terme in cui sorge un campo rom, ma domiciliato a Davoli. Quello che si sa è che dopo la denuncia presentata dalla moglie, 48 ore dopo la scomparsa, i carabinieri trovarono la sua auto, una Fiat Bravo nera, normalmente parcheggiata su una strada che attraversa i boschi del monte Lacina – dove qualche mese prima, a giugno, era stato assassinato Salvatore Vallelunga, fratello di Damiano –, nel territorio di Brognaturo, alle porte di Serra San Bruno. Dentro ci trovarono il suo portafogli e il telefono cellulare, circostanza che fece pensare da subito che non si trattasse di un allontanamento volontario. Si sa che Amato era stato arrestato il 13 agosto del 2008 insieme ad altre persone, tutte accusate di furto ed estorsione, dedite al cosiddetto “cavallo di ritorno”. Si sa che era un boscaiolo, e che lavorava per una ditta di trasporti di Chiaravalle Centrale. Quello che non si è saputo finora, che però è noto agli inquirenti, è che Amato fosse legato ai Gallace, e quindi potrebbe trattarsi di un caso di lupara bianca riconducibile alla faida.

Nelle Serre non era mai successo prima che la gente scomparisse così. Morti ammazzati tanti, da sempre, ma inghiottiti nel nulla mai. Dal 2009, invece, è successo più volte. E se non si può parlare di lupara bianca per il 18enne Pasquale Andreacchi, i cui resti sono stati fatti ritrovare a più riprese – il teschio e il femore in un cassonetto, altri frammenti ossei tra la boscaglia – e che è comunque andato incontro a un destino tremendo per motivi finora rimasti oscuri, ben diverso è il caso di Massimo Lampasi. Venticinque anni, già arrestato per rapina, lesioni e armi, Lampasi è sparito da Serra San Bruno la sera di domenica del 25 febbraio scorso. Di lui i carabinieri di Serra non hanno più trovato alcuna traccia, ma visti i suoi precedenti penali le piste battute sono abbastanza circoscritte. Se appare poco verosimile l'ipotesi di un allontanamento volontario, come quella di un tentativo di rapina andato a male, sembra più probabile, invece, che il 25enne possa aver dato fastidio a qualcuno che era più importante di lui nelle gerarchie criminali, e possa aver pagato con la vita tale affronto. Di certo Lampasi non era un affiliato alla 'ndrangheta, piuttosto si muoveva sul terreno della delinquenza comune e della microcriminalità. Dagli elementi raccolti dagli inquirenti sul suo conto emergerebbe come il giovane spacciasse droga e maneggiasse parecchie armi. Tra l'altro essendo stato – certamente non da solo – il presunto protagonista di una serie di furti ai danni di anziani residenti nel centro storico, che generarono una certa preoccupazione nelle popolazione e misero in allarme le forze dell'ordine, non è escluso che qualcuno abbia voluto punire la sua spavalderia fermandolo per sempre. Così ai suoi familiari non rimane neanche un approdo su cui riversare il dolore, e di lui, come di Amato, già adesso non si ricorda più nessuno.

(articolo pubblicato sul Corriere della Calabria n. 114)

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