Il Vizzarro.it - quotidiano online
Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Ricotta calda con pane raffermo, aragoste e capocollo. Combinazioni forse insolite ma che raccontano molto di quel mondo fatto di valori arcaici tipici del mondo contadino e di feticci del lusso su cui la ndrangheta costruisce la propria immagine. Non esiste certo un codice alimentare mafioso che preveda determinati cibi o ne proibisca altri ma all’interno di quelle che sono le abitudini alimentari dei capibastone emergono chiaramente i due aspetti che caratterizzano le mafie oggi: il rispetto della tradizione (che si evince anche dalla sopravvivenza dei riti di affiliazione) e l’aspetto internazionale che le mafie sono riuscite a conquistare.
Quello che però conta di più non è tanto quello che si mangia ma l’aspetto conviviale. Cene e banchetti sono momenti fondamentali per stringere alleanze, studiare strategie. I matrimoni, così come accadeva nelle famiglie nobiliari di un tempo, possono diventare occasioni consolidare rapporti tra clan, così come i battesimi e le cresime forniscono l’occasione per creare parentele “spirituali” che si trasformano a loro volta in nuovi patti, in nuove alleanze. Tutto a tavola. E’ la tavola il vero foglio bianco su cui si scrivono i contratti delle mafie.
A parlarci di questi aspetti e a raccontarcene i risvolti non solo antropologici ma anche storici e culinari è Gianfranco Manfredi, giornalista esperto in eno-gastronomia, nel primo volume del documentatissimo “Atlante delle mafie” edito da Rubbettino e lanciato in questi giorni in libreria.
L’atlante curato da Enzo Ciconte, Francesco Forgione e Isaia Sales è suddiviso in tre volumi la cui pubblicazione verrà completata nell’arco di tre anni. Il primo volume tocca già argomenti di grande interesse e attualità: dalla storia della Camorra, al rapporto tra mafie e Chiesa, dai giudici antimafia allo scandalo calciopoli.
Il volume
A cosa è dovuto il successo plurisecolare delle mafie italiane? E come mai viene definita “mafia” ogni violenza privata che ha successo nel mondo? L’Atlante delle mafie prova a rispondere a queste due domande. Partendo dalla messa in discussione dal paradigma interpretativo dell’esclusività della Sicilia nella produzione di ciò che comunemente si intende per mafia. Se un fenomeno, nato in Sicilia nell’Ottocento, ha avuto una così lunga durata, affrancandosi dalle condizioni storiche e territoriali che ne resero possibile la sua originaria espansione e proiettandosi così agevolmente nella contemporaneità (divenendo addirittura un modello vincente per tutte le violenze private del globo) non è utile continuare a descriverlo solo come un originale prodotto siciliano. Il modello mafioso, infatti, si è dimostrato riproducibile nel tempo e in altri luoghi, non più specifico solo della Sicilia e del Mezzogiorno d’Italia. Con il termine mafia si deve intendere oggi un marchio di successo della violenza privata nell’economia globalizzata. Con questa ottica, l’Atlante delle mafie passa in rassegna le “qualità” criminali che differenziano nettamente i fenomeni mafiosi dalla criminalità comune e da quella organizzata. Esse vengono sintetizzate in cinque caratteristiche: culturali, politiche, economiche, ideologiche e ordinamentali. Secondo i curatori, si può ritenere mafia la “violenza di relazioni”, cioè una violenza in grado di stabilire contatti, rapporti, e cointeressenze con coloro che detengono il potere ufficiale, sia politico, economico e religioso, che formalmente dovrebbero reprimerla e tenerla a distanza. Perciò viene contestato ampiamente il luogo comune delle mafie come antistato, come antisistema. È stato proprio questo luogo comune a tenere per anni in ombra il vero motivo del successo delle mafie. Mentre alcune forme di violenza e di contestazione armata del potere costituito si sono manifestate contro le leggi e contro la visione unitaria dello Stato (il brigantaggio nell’Ottocento, le rivendicazioni etniche-territoriali e il terrorismo politico nel Novecento) e perciò alla fine sono state sconfitte, le mafie hanno usato una violenza non di contrapposizione, non di scontro frontale, ma di integrazione, interna cioè alla politica e al potere ufficiale. Dunque, per mafia si deve intendere una violenza di relazione e di integrazione. In questa loro caratteristica consiste la ragione del loro perdurante successo.
Antonio Cavallaro
Ufficio Stampa RUBBETTINO EDITORE
SERRA SAN BRUNO - Il sole timido che filtra dalle finestre di sala Chimirri non può bastare a riscaldare gli animi fragili di una maggioranza agonizzante, ormai giunta agli ultimi affanni di un cammino tutt’altro che glorioso. Un’amministrazione in balia della tempesta che fra qualche mese potrebbe non esistere più. Sarà probabilmente sostituita da tre commissari prefettizi freddi ed ordinari: una sorta di punizione multipla in un tempo già da carestia. Aspettiamoci il peggio.
Diciassette punti su nove partite disputate finora. Quattro vittorie, cinque pareggi e nessuna sconfitta. Bilancio - questo - che, al momento, consente alla Serrese di mister Rolando Megna di occupare la terza posizione, dietro a Filogaso e Soriano. I biancoblu escono dal 'Mesiti' di Stilo con un rotondo 5 a 1, grazie alle marcature di Mazzitelli al 18' del primo tempo. Due minuti più tardi ci pensa Iorfida a raddoppiare il vantaggio e prima dell'intervallo i padroni di casa accorciano momentaneamente le distanze grazie a Zannino. Al ritorno dagli spogliatoi, la Stilese cerca in qualche modo di raddrizzare l'incontro ma al 15' Di Siena spegne le speranze dei reggini siglando il momentaneo 3 a 1. Ma è al 22' che succede l'incredibile: tiro da metà campo di Zaffino e palla che si infila in rete per il 4 a 1. A dieci minuti dal termine, Crudo chiude definitivamente i conti per il 5 a 1 finale. Ennesima vittoria stagionale per la capolista Soriano che, in inferiorità numerica, supera per 2 a 0 il Filogaso e allunga il vantaggio in classifica proprio sull'undici di mister Sisi. Di Nesci e Macrillò le reti di giornata. In Terza categoria, invece, quarto successo su altrettante partite per il Real Serra che, al 'La Quercia', batte senza grossi problemi il San Pietro Lametino. Primo tempo che si è concluso con i locali in vantaggio per 2 a 0 (Zaffino M. e De Caria G.). Nella ripresa, prima arriva il 3 a 0 sempre con Zaffino, mentre a firmare il 4 a 0 finale ci ha pensato Pisani.
Lo acclama Soriano, chiuso in quella cassa portata come una croce a spalla da giovani come lui, il giorno del suo funerale. Sul feretro, coperto da una bandiera della Juventus, c’è una fotografia: è Filippo che sorride ancora.
E c’è Filippo nello sguardo vuoto di sua madre, perso lontano nel tempo...Nelle mille parole, dette senza fiato, di seguito per non fermarsi a pensare, di suo padre il giorno prima. E nei sorrisi accesi di lacrime delle sorelle che lo stringono nei loro ricordi. Nel dolore dei familiari, tutti.
Che mondo è un mondo in cui un ragazzo di soli 19 anni viene trucidato innocente, così, per “caso”? E che Paese è quello in cui non ci si sorprende del male, dove il male che riguarda il sud è l’ovvietà che passa sotto silenzio ? Nessuna notizia nei TG nazionali, nessuna parola spesa dai molti politici latitanti, “distratti”. Che valore ha la vita di un ragazzo di soli 19 anni? O, forse, è "normale" che accada nel meridione d’Italia?
Nascere in Calabria, a Soriano e morire tornando a casa, dopo essere stati dalla propria fidanzata, non è normale, non è naturale.
Filippo era un lavoratore e veniva da una famiglia per bene come molte altre che vivono in questa terra e che non cedono all’illegalità. Questa morte è un sacrificio insostenibile, abbiamo il dovere di non renderlo vano. Abbiamo il dovere di non pensare più che fin tanto che ci si ammazza tra bande rivali la cosa non ci riguarda: è l’indifferenza che nutre il potere criminale. Perché non ci sia mai più un altro “Filippo”.
E' un tempo che non dovrebbe accadere mai quello del sopravvivere ai propri figli, ma succede e , mentre si può trovare una "ragione" ad una malattia, ad un incidente col tempo, ci sono ferite, invece, che portano con sé mille domande senza risposta fino alla fine dei giorni, di giorni come notti buie del cuore. A noi è concesso solo di immaginare ed immedesimarci sfiorando il dolore della famiglia Ceravolo, mai potremo capire a fondo quanto sia dilaniante ed eterno. Ma c’è qualcosa che noi possiamo e dobbiamo fare: condannare chi agisce nell’illegalità, cominciando a strappare le piante marce, smettendo di dar loro da “bere” i nostri volti e i nostri sguardi .
Insegniamo ai nostri figli la gioia del sacrificio e l’umiltà della dignità. Insegnamo che il valore è in loro, non nelle cose. Insegniamo che il denaro “non” è facile ! Che c'è sempre una strada migliore ed onesta percorribile, forse più faticosa, ma leggera nel cuore. Perché nessun giovane venga più reclutato dalle mafie.
Nei miei occhi chiusi, Filippo è la voce felice di sua madre che riecheggia ancora in un bel giardino, uno stereo e la musica. E’ il rumore molesto di un motorino che scorazza per queste vie nei giorni di sole; è una mano tirata su a salutare con rispetto ed un sorriso buono appena accennato ; è una divisa sportiva ed un pallone che corre sul campo di calcio.
E’ la vita che gioca e sorride spensierata. E’ la vita che vuole “andare” a mille all’ora…
Di notte è il motore di un furgone che passa alle quattro diretto verso qualche mercato, una fiera o una festa patronale . E’ lo stesso rumore che torna il pomeriggio, quando ogni casa ha finito di pranzare. E’ la vita che cresce col sudore onesto.
Soriano lo sa e si stringe attorno a questa famiglia ed al suo dolore, Soriano non è quell’arma che ha ucciso, Soriano è Filippo . Questo paese si indigna e dice “no” alle mafie e sente il dovere della memoria perché questa barbarie non si ripeta mai più, perché la morte si tramuti in vita.
Nel vuoto pieno di volti cari di questi giorni, campeggiano nella casa dei Ceravolo delle coppe sistemate con devozione su un mobile , appartengono a Filippo e al suo papà. Parla, Martino, di come si sia sentito strappare il cuore vedendo suo figlio riverso sull’asfalto, di come aveva corso verso di lui, ricevuta quell’orribile telefonata, perdendo il controllo dell’autovettura ben tre volte .Correva contro il tempo, verso Pizzoni, temeva in cuor suo che non l’avrebbe riabbracciato vivo. Parla del bambino che era e dell’uomo che sognava di diventare, del vuoto che sente, della sua solitudine. Martino ha perso un figlio, un amico, un compagno ed un fratello. Voleva comprare un nuovo camion per il lavoro appena ne avesse avuto la possibilità, Filippo, e regalare ai suoi genitori una crociera per il loro venticinquesimo anniversario di nozze. Trattiene le lacrime e ritorna ai suoi abbracci affettuosi. Racconta la sua gentilezza, di come accompagnava le signore alla macchina portando le buste della spesa; mi parla delle sue paure quando chiacchierando con qualche poliziotto o carabiniere che acquistava i loro prodotti, chiedeva se non avessero timore di portare un’arma ed effettuare operazioni pericolose. Concludeva sempre che lui non avrebbe mai avuto il coraggio di svolgere quel lavoro.
E parlano le sorelle, raccontano di un ragazzo che aveva paura dei tuoni durante i temporali e di restare solo in casa, ma al cognato, che gli raccomandava di non uscire di casa dopo gli ultimi omicidi avvenuti nel nostro territorio, rispondeva: "Cosa vuoi che facciano a me?".
In una bella lettera la sorella Maria Teresa scrive: "Ricordo le marachelle che combinavi, mi fanno sorridere, come quella volta che hai litigato con me e con Simone e hai fatto finta di andartene via di casa ed invece, fifone com’eri, ti sei nascosto sotto il tuo letto e non vedevi l’ora che io mi alzassi per venir fuori perché non ce la facevi più". E la piccola Giusi, di appena otto anni: "Caro Filippo mio bello, io sono sempre con te anche se sei in cielo, io sarò sempre con te e ti parlerò e verrò sempre, ma proprio sempre a parlarti…Per me sarai sempre il miglior fratellino del mondo".
Era ingenuo e dolce, buono e generoso. La nonna materna ricorda che quando le comprava qualcosa cercava di non farlo pesare dicendo che gli era stato regalato da qualcuno.
Martino lo conosco da quando ero bambino, conosco lui e la sua famiglia. Sua madre ha allevato i suoi figli insegnando loro il sacrificio del lavoro onesto. La signora Sina, così la chiamiamo, era la “signora bidella” del Liceo Scientifico. Rimasta vedova presto, era una donna forte. Teneva sempre il suo sguardo vigile sui ragazzi. Una presenza a cui riconoscevamo autorevolezza e rispetto.
Mi racconta, di come negli ultimi anni del suo lavoro in quel Liceo si respirasse una società diversa, cambiata, "non sono più" dice "i tempi di un tempo…" ed orgogliosa celebra un suo cognato, oggi Professore, che all’epoca in cui studiava e si trovava a Soriano in vacanza, aiutava la famiglia. Ricorda la meraviglia delle persone nel vederlo lavorare e la dignità con cui lui aiutava i fratelli commercianti a sistemare i vasi destinati alle vendite. Non sono più i tempi di un tempo, è vero! Ma non è colpa dei giovani, riflettiamo…
Martino non trova la forza di ricominciare ora che il figlio non c’è più. Si alzava con lui ogni mattina alle 4.00; la sera prima lo aiutava a sistemare la roba sul camion per il giorno dopo, gli diceva che era meglio se ne occupasse lui, dal momento che il padre stava diventando vecchio. Era instancabile, tornato a casa, aveva ancora la forza di giocare a calcio, la sua grande passione, ci metteva l’anima. Uno zio lo rammenta piccolo organizzare le partite con i cugini, ricorda i litigi e l’impegno che ci metteva. "Ogni partita per lui era come la Champions" , aggiunge il padre sorridendo.
E poi c’è Anna, la madre, il cui nome il ragazzo voleva tatuare sulla sua pelle. Nel suo sguardo perso nel tempo c'è un giorno sacro che è quello della vita che nasce e poi mille altri fatti di stelle sfavillanti nei suoi occhi, di carezze e premure, di vittorie e sconfitte, di notti insonni. L'amore verso il figlio è saldo nel profondo dell’ essere e non vi è nulla su questa terra che possa esservi paragonato, nulla.
La raggiungeva nel lettone, racconta, se c’era un temporale di notte; la costringeva a mettere la cintura di sicurezza in macchina anche se si sentiva soffocare, perché era prudente e senza cintura in macchina con lui non si saliva; bussava piano la sera quando tornava dalla casa della ragazza con cui era fidanzato da quasi due anni per non svegliare il padre. Ad Ivana aveva comprato un regalo per il suo compleanno ed aveva deciso di darglielo giorni fa, stranamente aveva voluto che lo avesse prima…
Buono e generoso nei ricordi di quanti lo hanno conosciuto, Filippo lascia un vuoto incolmabile e vola via, Angelo tra gli Angeli.
Parli ancora la sua voce, come un’eco che risuona nei nostri cuori senza mai infrangersi.
Angela Varì
SERRA SAN BRUNO - Bastano poco meno di quarantacinque minuti alla Serrese per regolare senza grossi problemi il Real Pianopoli. I biancoblu di mister Rolando Megna, dunque, riscattano il pari esterno di una settimana fa e lanciano un messaggio chiaro alle dirette concorrenti per la vittoria del campionato. Per la cronaca, nei primi minuti le squadre si limitano a controllare il pallino del gioco cercando di capire le intenzioni dell' avversario. Per vedere un' occasione degna di nota bisogna attendere il 24', quando Ascone non ci pensa due volte a tirare da fuori area. Il pallone, però, esce di poco alla sinistra del portiere. Al 36' occasione per De Siena che, sempre da fuori area, centra in pieno la traversa. A tre minuti dal termine della prima frazione, gli ospiti vanno in tilt: prima Crudo apre le marcature tutto solo davanti ad Aiello; due minuti più tardi è Greco a raddoppiare il vantaggio. Ed il numero 7 biancoblu si ripete dopo appena sessanta secondi, chiudendo la prima frazione sul risultato di 3 a 0. Nella ripresa, la Serrese si limita a controllare l'incontro, ma alla prima occasione arriva addiritttura il 4 a 0 con Megna. Al 30' st, invece, Mazzitelli ha tutto il tempo per controllare il pallone e fissare il risultato finale sul cinque a zero.
SERRESE - R. PIANOPOLI 5 - 0
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