Domenica, 14 Agosto 2022 08:40

LA VOCE NARRANTE | Calabria, esilio subìto o prescelto?

Scritto da Eliana Iorfida*
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Foto di Salvatore Federico Foto di Salvatore Federico

Qualche anno addietro ebbi il piacere di assistere a un intervento nel quale, opportunamente sollecitato sulla questione, il grande critico e saggista Goffredo Fofi affermò che le uniche regioni d’Italia ancora meritevoli di narrazione sono la Sardegna e la Calabria. Non che gli altri territori non siano degni di racconto, intendiamoci! Tuttavia, se nella circostanza ho inteso bene il pensiero “fofistico”, a me sempre caro, credo facesse riferimento a una qualche analogia antropologica. Un contorno umorale, paesaggistico, socio-culturale. Una bozza di umanità primitiva. Una scorza coriacea, allo stesso tempo intima ed esteriore, che, incredibilmente, ha saputo opporre r-esistenza alla barbarie del modernismo di massa prima e del globalismo poi, serbando la propria matrice mediterranea, non del tutto corrotta, in sporadiche sacche di raccolta. In tempi più recenti, l’intuizione di Fofi mi è stata fatalmente evocata da un altro cronista, amico mio e dei calabresi, che è il giornalista Paolo Di Giannantonio, il quale, in veste di assiduo frequentatore del nostrano finis terrae ha più volte ribadito il medesimo accostamento. 

Così ci ho pensato. Ho riflettuto anch’io su questa fottutissima “calabresità” (il lettore mi perdonerà la sconcezza: il termine “calabresità” non si può proprio sentire, lo so!). Sulla nevrosi collettiva che ispira un certo metodo di ricerca identitaria; la paranoia di narrarla o tacerla, e che, a questo punto mi pare evidente, unisce nella tragedia il capatòsta calabrese al cugino oltremare, l’altrettanto capatòsta sardo. Rimuginandoci mio malgrado, ché di Calabria non vorrei più parlarne né sentirne parlare, almeno non nei termini retorici dei quali ormai si hanno piene le tasche, la cosa che più mi ha colpito dell’ardito gemellaggio è la seguente: l’una è isola, l’altra no. Complimenti per l’acume! direte voi. E invece, se ci si pensa fuori dai cliché e dai pregiudizi, questa apparente discordanza dice tutto.

Facciamo un esercizio: riavvolgiamo il nastro ai ruggenti anni ’50 e ’60, quando Pier Paolo Pasolini scese quaggiù, nel suo viaggio “di sabbia”, a darci in modo del tutto avveduto dei “banditi” e degli “struzzi”; gli anni che precedevano di poco i sequestri di ‘ndrangheta e i tagli d’orecchi, quando non c’era strada che portasse a questo lembo infido di Meridione, che non a caso veniva chiamato la “Terza Isola” o “Isola nella Penisola”. Torniamo ancora più indietro, a quando il mondo non aveva alcun imbarazzo a trattarci esattamente per come ci percepiva: una terra di confino. In quegli anni, ad esempio, a Brancaleone Calabro, provincia di Reggio Calabria – sud del Sud – ci saremmo imbattuti in uno stralunato professùri che leggeva il giornale al Bar Roma, quel Cesare Pavese che il regime fascista aveva scambiato per un pericoloso dissidente, nemico del consenso, ma che in realtà ad altro non inneggiava, nei suoi scritti come nelle acerbe vicissitudini del sentimento, che a un complesso edipico irrisolto. Dall’esilio calabro, quattro mura vista Jonio, scriveva ad Augusto Monti:

“Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti”. 

Sette mesi in Calabria come a Ventotene, né più né meno che un’isola cinta su tre lati dal mare e un quarto, per sbaglio, da un lembo d’Appenino che pure lui, proteso a mare, si fa altro, candeggiandosi a Leucopetra. La Calabria letteraria di Pavese è una terra subìta. Nient’altro che una gabbia dorata, estrema lontananza dall’amata “casa in collina” delle Langhe. Eppure, senza averne fatto esperienza di nota oltre la soglia del paesello, l’autore inviso per un nulla torna alla sua patria come lo scrittore de Il mestiere di vivere e dei Dialoghi con Leucò. Compiuto nella sua eterna incompiutezza, pronto al capolavoro del proprio suicidio.        

Chi, a differenza di Pavese, l’esilio calabro lo scelse, fu lo scrittore veneto Giuseppe Berto, cui l’antropologo e scrittore Mauro Francesco Minervino ha di recente dedicato un bellissimo articolo, dal taglio particolare, nel suo stile, critico nei confronti di quel tratto di “Costa degli dei” che il malturismo da cartolina ha trasformato in “non luogo” da “luogo letterario” che era, eletto direttamente da colui che vi esplorò Il male oscuro. Scorse lo spuntone roccioso di Capo Vaticano dal finestrino del treno e scrisse al padre:

“L’isola degli aranci sta dall’altra parte celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c’è un tratto di mare proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo padre, non ho il coraggio, (…) e così verso sera cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia (…). Ecco, qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre e penso che in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte”.

Il luogo segreto, dal quale scrutare la Sicilia al tramonto da un’accettabile distanza sentimentale, lo scrittore veneto lo aveva trovato su quella falesia. Esilio prescelto, quel di Ricadi, nel Vibonese. Isolato di fronte a un’isola.

Così fece pure lo scrittore americano Francis Marion Crawford, arroccandosi sulla sommità della torre d’avvistamento che oggi porta il suo nome, sul litorale tirrenico di San Nicola Arcella, in provincia di Cosenza. L’aspra bellezza del luogo deve aver avuto il potere di moltiplicare le presenze fantasmatiche che già gli affollavano la mente, stabilendosi nel confino di mare ove scrisse, tra le altre, l’opera gotica La strega di Praga.   

Un’isola mancata. Siamo dunque questo? Prova ne sono i ripetuti terremoti che, da secoli, si incaponiscono a tentare l’estrema cesura dal continente. Prova ne siamo noi, singole persone fisiche e collettività; la nostra suscettibilità, inconcludenza, rivalità. Il nostro autoesilio dal grande palcoscenico del mondo per difendere la piccola e risibile scena di ciascuno; il nostro “voler essere parlati”, per dirla con Alvaro, pur essendo incapaci di parlarci schiettamente tra di noi.

Non so se Fofi, Di Giannantonio o chi per loro ci abbiano visto giusto. Non so se i cugini capatòsta sardi si riconoscano in qualche nostra stranezza o viceversa. Quello di cui ho certezza è che, personalmente, l’esilio giovanile (per mia fortuna, scelto) mi ha donato la voglia di raccontare questa terra e il suo essere Medio Oriente d’Italia dal Medio Oriente del mondo, dove allora mi trovavo. La lontananza mi ha restituito il ritorno e l’attuale esilio dal mondo (ancora una volta scelto), che me lo avvicina e me lo allontana a seconda di come mi barcameno su questa maledetta e benedetta “Terza Isola”.

*Scrittrice e archeologa, cura sul Vizzarro la rubrica La voce narrante.

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