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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
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Cosa mi spinse, ragazzina e studentessa, a lasciare il cuore della Calabria alla volta di un sogno mediorientale, islamico? Cosa, a narrarne la familiarità al mio ritorno? Me lo sono chiesta spesso prima di incontrare la risposta nelle suggestioni di chi mi aveva preceduta, riportandole in esergo a quelle Sette paia di scarpe (2014) che coincisero non solo col mio primo viaggio levantino, ma anche e più con quello nella magia della parola scritta:
“Mi viene in mente che quel lungo errare non fosse che correre dietro illusioni di patria, poiché il Mediterraneo, fino alla costa d’Asia, è noto come un Paese; anche i nomi di luoghi, che furono dati in Italia e in Grecia uguali, dovettero corrispondere a somiglianze di paesaggio; e chi si trova qui italiano e meridionale ritrova aspetti che gli dormivano nella memoria e nella fantasia”.
Trovai conferma di quello strano sentimento di appartenenza in Corrado Alvaro, quando mi accinsi alle meravigliose pagine del suo reportage dalla Turchia di Atatürk, pubblicate tra la corrispondenza della Stampa nel 1932 e poi raccolte in Viaggio in Turchia (ultima edizione Falzea, 2003).
Un’opera vera a propria, a mio giudizio tra le più rappresentative della scrittura di Alvaro nella sua unicità. Un viaggio tanto esteriore quanto interiore, nel quale confluiscono i suoi variegati registri: dalla cronaca al saggismo, dalla lirica alla narrativa, dall’istantaneità della forma diaristica alla potenza di indimenticabili passi letterari. Non è un caso se Carlo Bo gli riconobbe “una forma di giornalismo superiore, dove lo scrittore non rinuncia a nulla del suo lavoro”. I viaggi di Alvaro sono esperienza di pura antropologia, dove la descrizione dei monumenti lascia volentieri il passo alla composizione urbana e agricola del paesaggio; così come la narrazione politica e le dichiarazioni istituzionali, all’effettiva condizione umana e culturale dei popoli incontrati, nei loro momenti pubblici o familiari, di festa o lavoro, senza mai indugiare nel sensazionalismo o nel paternalismo cari all’epoca avversa in cui scriveva e che, in parte, ancora oggi segnano certa propaganda nei confronti di quanto ricade oltre il perimetro dell’Occidente.
“La vita quotidiana è scritta in viso a quelli che passano, sul selciato della strada, in fronte agli edifizi, nelle abitudini di vita, nelle botteghe, nelle domande occasionali dei vicini, nei bisogni dell’umanità che circonda il viaggiatore e che finiscono a proiettarsi nella sua stessa vita”.
Nessuno, con una certa pratica del viaggio, potrà mai smentire questa preziosa lezione alvariana, così “avanti”, così cosmopolita. Chissà attraverso quali tratti avrebbe delineato il volto dell’attuale Turchia di Erdoğan, personaggio col quale l’Occidente scende a patti criminali, salvo dargli del dittatore a favore di telecamere.
Chissà che cosa, invece, avrebbe ispirato il narrare di un’altra penna fina di Calabria, anche lei figlia del mondo, desiderosa di “non piacere a molti, ma solo ai pochi a cui piaccio”: Adele Cambria, reggina di nascita e di fuga. Ebbi l’onore di incontrarla poco prima che ci lasciasse, in occasione di una serata che, nel mio ricordo, riluce ancora di abiti colorati, grandi collane orientali e, soprattutto, dell’energia vitale incredibilmente stipata nella sua minuscola persona. Nel settembre del 1983 scrisse in un diario di viaggio, a Istanbul: “Le cupole galleggiano leggere, ampie, d’un grigio inaspettato che sfuma nel celeste costellando il profilo della città come una flotta di astronavi planate sul Bosforo”. Altrettanto vittima di quel richiamo “turchino”, la magarìa che spinge talune anime del Sud a indagare mondi affini, per quanto misteriosi, dai quali si fugge solo per potervi fare ritorno.
La sera in cui la incontrai, raccontò al pubblico che proprio la scoperta fortuita di quel diario, scritto trent’anni prima, l’aveva indotta a tornare nella vecchia Costantinopoli per guardarla con occhi nuovi e uguali. Ne nacque Istanbul. Doppio viaggio (Donzelli Editore, 2012), dove il senso dell’andare e del tornare è una sorta di retrospettiva su una città controversa quanto affascinante, da sempre sospesa tra Oriente e Occidente. Ad accompagnare Cambria nel suo ritorno, un fedele taccuino e tre grandi scrittori: Edmondo De Amicis, Pierre Loti e Orhan Pamuk, ciascuno dei quali evoca sfumature diverse di un unico grande affresco. Se i primi si lasciarono sedurre dall’Impero Ottomano e dalle carni speziate di giovinette circasse, Pamuk mette in guardia il lettore-viaggiatore, porgendogli uno sguardo profondamente critico sul Paese e sulla cosiddetta “letteratura di viaggio”, nella quale ravvisa un tradimento a vantaggio del turismo di massa.
Dal mio umile canto, non posso che rivendicare fieramente di aver tratto coordinate di viaggio e di scrittura dall’esperienza di questi due grandi maestri. Alvaro e Cambria, calabresi del mondo che hanno saputo porgere il mondo ai calabresi e all’Italia intera: l’uno, facendo del viaggio un ritorno alle fonti autentiche della storia e alle proprie stesse origini, procedendo instancabile come un Odisseo nel mare di se stesso; l’altra, scomoda e impegnata, amica e attrice di Pasolini, stuzzicando l’immaginario di chi, come noi, è sempre in cerca di una dimensione sospesa tra passato e modernità.
*La voce narrante è una rubrica del Vizzarro a cura di Eliana Iorfida, scrittrice e archeologa
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