Domenica, 08 Maggio 2022 09:51

LA VOCE NARRANTE | Donna Lisetta

Scritto da Eliana Iorfida*
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Serra San Bruno (foto di Vitantonio Tassone) Serra San Bruno (foto di Vitantonio Tassone)

L’edificio affaccia sul corso principale del paese, solo una ruga, un vicolo stretto stretto, lo separa dal palazzo accanto, uno dei più antichi del centro storico, con l’elegante caffè-pasticceria rivolto verso la chiesa e l’ingresso sul lato opposto, di fronte al monumento ai caduti. La ruga profuma di crema e delizie appena sfornate sin dal mattino. Se la si percorre fino in fondo, l’invitante fragranza prende la forma di sfoglie, brioches e bignè disposti in vassoi ordinati oltre le grate del retrobottega, dove lievitano dolci segreti.

Su quel vicolo buio si apre a sorpresa una porta a vetri a doppia anta, di quelle che una volta si oscuravano per la notte con pesanti portelline di legno assicurate ai ganci.

In estate ne oltrepassavo la soglia per una pausa a base di Spuma e pane e zucchero, prima di tornare ai giochi lasciati in sospeso per strada; nei freddi pomeriggi d’inverno, invece, con la neve e i compiti di scuola che mi seppellivano per ore davanti al braciere, la porta si riapriva solo all’imbrunire, quando tornavo a casa a passi svelti.

Oggi le finestre della facciata si aprono come sbadigli malinconici, impastati di muffa e ricordi. L’ultima volta che ci sono passata davanti ho notato il cartello “VENDESI” alla ringhiera del balconcino, lo stesso oltre il quale la padrona di casa trascorreva la domenica a spiare, non vista, l’andirivieni chiassoso della gente che usciva dalla messa e si fermava da basso per un vassoio di paste fresche. A lei, le recapitavano la mattina appena fatte.

La signora Nunziata, o come la chiamavamo tutti ‘Nziata, si sfilava il grembiule indossato come una seconda pelle fin dalle prime luci dell’alba e dal vicolo, che già odorava di panna, cannella e scorza d’arancia, guadagnava il retro della pasticceria dove il garzone le allungava ‘na ‘nguantèra di pasti frischi.

Donna Lisetta ci faceva colazione e metteva da parte il resto per l’ora del tè con noi ragazze, lusso fumante che avevo imparato ad apprezzare proprio in quella casa, visto che nella mia una tazza di caffè annacquato a fine pasto era più che sufficiente. Mia madre non voleva che importunassi la Signorina anche di domenica, ma proprio non potevo resistere al richiamo di quel bignè al cioccolato che mi attendeva in fondo al vassoio.

Durante la settimana avevo una ragione più che valida per piombare a palazzo Romano a qualsiasi ora: Lenuzza. L’affabile figlia di Nunziata mi aspettava con la scusa dei compiti, pur sapendo che saremmo finite a fare tutt’altro. Nella cartella, infatti, nascondevo la scatola di preziosi pastelli a cera Faber Castell che lo zio Pietro mi aveva portato da Milano e che servivano a dare vita al carosello di immagini fantastiche che mi attraversava la mente tra un’analisi grammaticale e un’espressione aritmetica. Quando Lenuzza si stancava di posare per le mie copie dal vero, immobile come la statua di San Bruno nel lago, l’occhio da ritrattista si spostava sulla collezione di bambole.

La “Stanza delle Bambole”, ovvero la camera per gli ospiti al primo piano, emanava il fascino macabro delle case degli spiriti: la penombra addolciva i contorni dei visi dipinti e ammantava ogni oggetto della romantica decadenza che accarezza le cose passate e non godute. C’erano bambole di porcellana ricoperte di pizzo da capo a piedi, con cappelli a tese larghe e scarpe lucide, ciglia folte, zigomi rossi come pomi maturi e bocche a forma di cuore che lasciavano intravedere dentini di madreperla. Alcune sfoggiavano capelli veri, inanellati lungo le spalle. Le mie preferite erano le grandi bambole di bachelite dall’incarnato luminoso come le dive dei rotocalchi, abbigliate all’ultima moda con copricapi frivoli e borsette. Potevo sostenere i loro sguardi vitrei per ore. La regola era “guardare e non toccare” e valeva anche per Lenuzza, legittima proprietaria di quel ben di Dio. Donna Lisetta le aveva donato le bambole di quando era bambina.

– Sono belle, loro. Hanno volti levigati come ciottoli di mare, nasicièdhi ammuodulàti, capelli folti e morbidi. Non dovete sciuparle.

Ci ammoniva portandosi le mani al viso e percorrendo col dito una linea immaginaria che dall’attaccatura dei capelli, radi e crespi come ciuffi di stoppie, disegnava la curva di un naso inesistente e le dune polpose di labbra sognate.

La prima volta che misi piede a palazzo Romano non feci caso all’assenza di specchi ai piani alti, dove la Signorina risiedeva abitualmente.

Elisabetta Romano era nata nel mese di novembre del 1901 in quella stessa casa, nel medesimo letto in cui si spense molti anni dopo. La famiglia discendeva niente meno che dal nobile Sedile di Napoli, ragion per cui suo padre Pasquale, primogenito del ramo calabrese, aveva lasciato il paese giovanissimo per studiare medicina nell’ormai perduta capitale del Regno, dove l’arte della cerusìa brillava tra le migliori d’Europa. Era stato lui, stimato medico chirurgo, a tirarla fuori dal ventre della giovane moglie Maria Francesca con l’aiuto di una levatrice di fiducia; sempre lui aveva tagliato il cordone che teneva legati i due amori della sua vita. Lisetta sarebbe rimasta figlia unica, una privilegiata, un’anomalia per l’epoca. Mite, dotata della stessa intelligenza del padre e della rara sensibilità che la madre le aveva impresso negli occhi color nocciola, uguali a suoi, tondi e dolci come il frutto autunnale. Oltre al palazzo sul corso i Romano di Serra San Bruno vantavano diverse proprietà, incluso un castagneto e un bel pezzo di campagna destinato all’allevamento delle papere, da cui il nome Papararo, tuttora in uso. Nel concitato universo delle papere ci avevamo razzolato tante volte anche Lenuzza ed io, convincendo sua madre a portarci con sé quando andava a prendere le uova fresche, bianche e assai più grandi di quelle di gallina. A differenza di noialtre, donna Lisetta non avrà mai giocato a rincorrere pennuti, disperdere soffioni nel vento, estrarre castagne dal riccio, bagnarsi con acqua di sorgente, andare a caccia di tane, nidi e ragnatele, raccogliere fiori, frutti, foglie o praticare qualsiasi altra attività all’aria aperta. Se mai ebbe tempo di sperimentare una sola di queste cose fu certamente prima del suo quarto compleanno.

Quando la conobbi di anni ne aveva sessantacinque. Io sei, ma non mi fece paura.

La sua storia me l’aveva raccontata mia madre e in paese la ricordavano ancora in tanti.

Era un giorno di sole. La figlia del dottor Romano giocava tranquilla sul balcone della sua camera, lo stesso dal quale più tardi avrebbe guardato sfilare la vita degli altri. Indossava una vestina nuova di sartoria e soffiava bolle di sapone sulle teste dei passanti mentre la balia, dall’interno, le canticchiava la sua filastrocca preferita: 

Soffio piano, dolcemente una bolla, finalmente.
Vola, vola, vola su
finché scoppia e non c’è più”. 

Il ritornello non appartiene al racconto di mia madre, che non poteva sapere cosa stesse accadendo quando la piccina fu travolta dalla malasorte. Lo ripeteva lei stessa, donna Lisetta, ogni volta che provava a riavvolgere il filo della memoria per tornare alla maledetta mattina dell’incidente. Era il suo unico ricordo.

La cantilena della balia si era interrotta in modo brusco sulla parola “scoppia”, storpiata in “scroscia” nel preciso istante in cui vide una cascata d’acqua bollente piovere sulla bambina direttamente dall’alto dei cieli. Per una frazione di secondo la piccola sembrò dissolversi in una nube di fumo bianco, dalla quale fuoriusciva solo qualche bolla iridescente che andava a infrangersi tra i gerani e la ringhiera.

Lisetta non aveva emesso un gemito. Neppure un lamento proveniva dal corpicino esanime, evaporato al sole per il gesto distratto di una domestica.

A quell’attimo sospeso seguì il grido straziante della balia che si precipitò a cercare aiuto, mentre i passanti si interrogavano l’un l’altro attorno alla pozza che si allargava sotto il balcone. In pochi minuti la notizia avrebbe fatto il giro del paese, attirando la curiosità morbosa di chi, per quanto addolorato, non avrebbe colto la portata del dramma che in quel momento si stava consumando.

Lisetta, tutt’uno coi vestiti, fu colta dal padre come un fiore reciso e portata di corsa nel grande salone al piano di sotto. La falcata del dottore misurava uno spazio in espansione, utile a realizzare che mai avrebbe raggiunto un luogo di cura in quelle condizioni: il Cronicario di Catanzaro, il più vicino, distava infatti un giorno di viaggio spingendo al massimo l’ultimo modello di Isotta Fraschini.

Mentre osservava il volto della figlia nel vano tentativo di scorgervi tratti familiari, tra le piaghe che deturpavano quei lineamenti bambini Pasquale riconobbe la ragione della propria esistenza. Non capita spesso, ma quando un istante sfugge al normale svolgimento dello spazio-tempo e si schiude come la valva di una conchiglia per mostrarci la sua perla, il bagliore di una visione si fa verità e tutto ci appare compiuto.

– Sgombrate il tavolo e portatemi i ferri. Presto, non c’è un minuto da perdere!

A dispetto della tragedia, la servitù riceveva disposizioni da una voce ferma e autorevole. Trascorsero ore lunghissime, durante le quali il dottore rimase barricato in quella che era divenuta a tutti gli effetti una sala operatoria di fortuna, alla quale aveva accesso solo il dottor Fazzari, lo storico farmacista del paese. Col passare del tempo la casa – sulle prime attraversata da domestici, amici e semplici curiosi – era scivolata in una dimensione surreale, che le ombre della sera contribuivano a far assomigliare al fiabesco castello caduto nel sonno per mille anni assieme alla principessa addormenta. Solo la luce che filtrava dal salone, tutt’altro che illuminato a festa, indicava una presenza di vita all’interno, il resto era nero silenzio d’attesa.

Il dottor Romano uscì dalla stanza a tarda sera, visibilmente provato. Si asciugò il sudore con un panno e strinse a sé la moglie, che nel frattempo non si era mossa dal sofà su cui lui stesso l’aveva adagiata diverse ore prima.

– Lisetta è forte, ce la farà.

Le mani esperte del chirurgo e quelle amorevoli di padre avevano spugnato il corpo per raffreddarlo, rimuovendo con delicatezza i brandelli di stoffa ancora attaccati alla pelle, pulito le piaghe, somministrato i farmaci necessari a scongiurare la setticemia e abbassare la febbre. La vera sfida era stata farla respirare di nuovo: ridarle ossigeno significava compiere un’operazione tempestiva, vitale, che non contemplava alcuna valutazione estetica. La cascata bollente le aveva portato via naso e capelli, ridotto le orecchie a piccoli grumi informi e quasi sigillato le labbra nell’atto di soffiare via l’ultima bolla. La mano che reggeva l’anello con l’acqua saponata aveva perso le dita, così come i piedi, dai quali era stato difficile staccar via scarpe e calzini.

Lisetta rimase in coma per alcuni giorni, avvolta nelle bende come una mummia d’Egitto.

Quando aprì gli occhi e tornò presente ogni cosa sembrò rianimarsi, sciolta dal sortilegio che la teneva legata.

Suo padre le aveva salvato la vita, ma la vita non l’avrebbe salvata dal proprio destino.

– Vedete bambine, questa con le pin-up che bevono Coca Cola mi è appena arrivata dall’America; quest’altra ancora, con le distese di lavanda, me l’ha spedita mia cugina Betta dalla Provenza, dove è stata in viaggio di nozze. Sembra quasi di sentirne il profumo.

Cartoline. Bei ricordi di viaggi altrui, pezzi di mondo stampati raggiungevano la solitudine di quella donna come ritagli venuti da un altrove fuori portata, facendole sognare scorci che non avrebbe mai visto, emozioni che mai avrebbe goduto. Donna Lisetta ci fantasticava sopra, le riponeva tra le pagine dei libri e infine le destinava a un’insolita forma di riciclo, alla quale partecipavamo con entusiasmo anche Lenuzza ed io. Selezionate con cura per colore e provenienza, le singole cartoline venivano cucite insieme in forme diverse a comporre oggetti di uso pratico: scatole, calendari, cornici, lampade, qualunque cosa purché smettessero di narrare luoghi irraggiungibili e acquistassero una concretezza spendibile entro le mura cui erano destinate. Chissà che fine hanno fatto tutte quelle cartoline. Saranno ancora cucite assieme in forme strampalate oppure, col tempo, sono andate disperse come le aspettative di un sogno infranto? A mesi alterni arrivava anche “la lettera”, quella color carta da zucchero col sigillo di ceralacca e la calligrafia che ometteva il mittente. Il giorno in cui il postino consegnava la busta nelle mani fidate di Nunziata, noi tutti sapevamo che la Signorina non doveva essere disturbata.

Se è vero che il destino ha tradito Lisetta, è altrettanto vero che le poche persone che lo hanno condiviso con lei le furono fedeli fino alla fine.

Nunziata era entrata in punta di piedi in quella grande casa quando era ancora una ragazzina, per governarla con assoluta dedizione nel momento in cui i coniugi Romano vennero a mancare prematuramente. Rimasta incinta del primo figlio, donna Lisetta le propose di sistemarsi a pianterreno insieme al marito, occupando la stanza che aveva ingresso indipendente dal vicolo, con la cucina e il forno in muratura, due camere e un piccolo servizio. Rocco, Lena e Gigi, arrivato a dieci anni di distanza dalla sorella, illuminarono le buie giornate della padrona di casa come stelle venute a splendere da chissà quale miracolosa galassia. Per noi tutti era semplicemente “zia Lisa”.

Bastava incrociare la dolcezza dei suoi occhi, piccoli e grinzosi come quelli di una tartaruga, per capire di trovarsi di fronte a una creatura metafisica, fiabesca. Una minuta fata delle case vuote, intrappolata in un corpo deforme, fragile e potente al tempo stesso. La bontà di quello sguardo, che senza sapere ti leggeva dentro, poneva tutto il resto in secondo piano. Donna Lisetta non era i suoi limiti, era i suoi libri, la sua creatività e più di ogni altra cosa la capacità di mettersi in ascolto e consigliare, attingendo a quella rara forma di sensibilità che distingue chi abita una dimensione tutta interiore. Non scorderò mai la sua voce nasale recitare per noi le Favole di Fedro, soffermandosi sulla morale de La volpe e l’uva per ribadire che no, “non bisogna disprezzare ciò che non si può avere!”. Leggeva, raccontava e correggeva i nostri compiti di scuola, ripercorrendo con la memoria i lontani pomeriggi d’infanzia trascorsi a studiare con un’istitutrice privata secondo la volontà del padre, che la voleva istruita e informata sui fatti del mondo.

– Mia madre avrebbe voluto che prendessi i voti al Monastero della Visitazione di Reggio Calabria. Sarebbe stato più rassicurante per lei immaginarmi in un luogo protetto in compagnia di altre giovinette ma, pur volendo, con queste dita monche non mi sarei distinta un granché nella pia arte di snocciolare rosari; e poi, detto tra noi, non c’è così tanta differenza tra la loro clausura e la mia.

Negli ultimi tempi, con l’avanzare dell’età e degli acciacchi, aveva preso l’abitudine serale di trasferirsi al piano di sotto con Nunziata e la sua famiglia. Quando il silenzio diventava insopportabile, donna Lisetta si concedeva il lusso tutto nuovo di guardare la televisione. L’arrivo della magica scatola in bianco e nero fu per me motivo ulteriore per trattenermi fino a tardi, da noi la tv sarebbe arrivata molto tempo dopo e per l’occasione mia nonna Rosaria avrebbe indossato il vestito buono al grido di “’n sia mai ca ndi vìdanu li shtrani e si fannu gabbu!”. Mia nonna era il tipo che si definisce un’odiosa “marescialla” e alla sua morte non piansi le stesse lacrime di quando se ne andò donna Lisetta.

Adesso che il palazzo è in vendita e nelle stanze spoglie aleggiano solo le ombre di ciò che fu, mi chiedo se qualcuno in paese ricordi ancora la sua storia.

*Scrittrice e archeologa, cura sul Vizzarro la rubrica La voce narrante. Questo brano è tratto dalla raccolta di racconti La scatola dei ricordi (Formebrevi Edizioni, 2019).

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