Mercoledì, 25 Aprile 2018 08:47

Di Resistenza ce n’è una sola

Scritto da Bruno Greco
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Torino libera, Federico Tallarico alla guida del corteo (archivio Icsaic) Torino libera, Federico Tallarico alla guida del corteo (archivio Icsaic)

«Penso che parlare oggi di forme di Resistenza sia un tranello per scadere nella retorica. Chi sostiene che il popolo è costretto a combattere nuove forme di Resistenza sminuisce di molto la Storia e il sacrificio condiviso da tutti coloro che hanno lottato per liberare l’Italia dal nazifascismo». Per il professor Pantaleone Sergi (storico, scrittore e presidente dell’Icsaic), ogni tentativo che possa minimamente paragonare la situazione sociale odierna con quella vissuta dai nostri partigiani non è solamente «sbagliato» ma anche «lesivo» nei confronti della Storia. Una risposta netta a chi chiede se sia giusto o meno pensare a nuove forme di “regime” – come quello dei social media, ad esempio, in un mondo che somiglia sempre più a quanto descritto da Orwell in 1984 – e soprattutto a nuove forme di Resistenza: un «errore» che imbecca spesso anche gli addetti ai lavori. Resistenza, una parola intrisa di una sacralità che non merita di essere infangata. «Penso – ha continuato Sergi – ad un organo come il Comitato di Liberazione Nazionale e non ho motivo di credere che oggi esistano nuove forme di Resistenza».

Come ogni anno, in occasione del 25 aprile, ricordiamo la ricorrenza storica cercando di soffermarci sul contributo che la Calabria ha offerto in seno alla Liberazione. A spiegarci appunto il ruolo dei calabresi è stato il professor Giuseppe Ferraro, membro del comitato scientifico e del consiglio direttivo dell'Istituto calabrese per la storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea.

La Resistenza sembrerebbe un fenomeno ascrivibile alle sole regioni del Nord. Perché invece non è così?

«Che le regioni settentrionali abbiano subìto un maggiore trauma è logico per una serie di motivazioni legate al fronte bellico, all’occupazione nazifascista fino alla primavera del 1945, a questo si aggiungeva violenza e sfruttamento economico in quei territori. Infatti, la liberazione da parte degli anglo-americani del Mezzogiorno d’Italia ha permesso che queste regioni arrivassero prima a liberarsi dal regime fascista. Ma, se guardiamo non solo alla geografia territoriale dopo il luglio del 1943, possiamo parlare di una Storia della Resistenza fatta anche da meridionali, tra cui calabresi, che per varie ragioni si sono trovati nelle regioni del Nord a combattere contro il nazifascismo. Molti calabresi nelle formazioni partigiane ricoprirono infatti ruoli di primo piano».

Sarebbero gli “sbandati”?

«Sono gli “sbandati” certamente, ma sono anche persone che si trovavano lì per questioni legate all’emigrazione, internati militari che ritornati dalla Germania dopo aver aderito alla Repubblica di Salò (a molti soldati fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 venne offerta la possibilità di ritornare in Italia solo aderendo alla Repubblica sociale italiana) decidono di fuggire per entrare nelle brigate partigiane. In alcuni casi sono intere famiglie coinvolte nella lotta partigiana. Se non si era proprio membro della brigata si offriva però aiuto logistico, informazioni, assistenza alimentare. Ci sono anche donne che hanno svolto dei ruoli ausiliari o che per certi periodi furono parte attiva all’interno delle brigate (penso ad Anna Cinanni o Nina Tallarico). La guerra e la resistenza, per quanto riguardava i rapporti di genere, permise di abbattere alcune barriere sociali, le donne conquistarono una dimensione pubblica come mai prima. Per quanto riguarda la Calabria e la partecipazione di calabresi alla Resistenza penso ai fratelli Tallarico e alla loro sorella Nina. Penso ancora ai fratelli Nicoletta dei quali Giulio è stato anche comandante della 43ª Divisione autonoma "Sergio de Vitis". Una partecipazione imponente, sia dal punto di vista quantitativo che tattico-gestionale-politico come dimostrano i ruoli ricoperti in quel periodo da alcuni calabresi nelle formazioni partigiane. Nel solo Piemonte, dal ’43 al ’45, oltre 1100 calabresi si sono impegnati nelle file della Resistenza. Possiamo affermare dunque che non si tratta di un fatto settentrionale o meridionale ma di un evento che ha coinvolto tutta l’Italia, come tutta l’Italia aveva sperimentato la durezza del regime e l’orrore della guerra».

Vi furono al Sud delle forme di Resistenza antecedenti al ’43?

«Attenzione però a non confondere. Non sono certo forme di Resistenza strutturate spesso da un punto di vista militare o della guerriglia, con una pianificazione precisa, ma sono atteggiamenti contrari a quelle che erano le decisioni del fascismo. Non accettare ad esempio alcuni vincoli imposti dalle autorità o intralciare l’operato quotidiano della macchina fascista. Oppure il rifiuto di requisire del materiale utile allo sforzo bellico poteva essere sintomo anche di un’insofferenza politica e pre-politica al fascismo. Certo quei rifiuti provenivano anche da necessità più immediate, lo sforzo bellico aveva messo in ginocchio il contesto economico. Ma all’interno di questi rifiuti, atteggiamenti ostili al fascismo, nasce anche una frattura tra popolazione e regime, una sorta di insofferenza esistenziale. Non bisogna tralasciare poi che l’Italia meridionale è stata territorio di confino che molto spesso si è trasformato in laboratorio politico, sociale e culturale nel senso che i confinati riuscirono a intrattenere, nonostante i vincoli di polizia e isolamento, dei buoni rapporti con la società civile che molto spesso ha vissuto un affiatamento con gli stessi. Molti meridionali proprio attraverso le esperienze di confino intuivano la durezza di trattamento che il regime riservava ai suoi nemici, ascoltavano discorsi di politica, capivano che spesso la realtà di cui erano a conoscenza era una costruzione propagandistica del regime».

C’è stato un partigianato attivo del Vibonese?

Certo, del Vibonese ci sono tanti nominativi. Non hanno magari ricoperto incarichi di spicco come Tallarico o i fratelli Nicoletta. Mi viene subito in mente Carmine Fusca, nome di battaglia “Zio Carmine”, originario di Limbadi, morto nel dicembre scorso all’età di 94 anni. Dopo l'8 settembre Carmine Fusca si trovava in Val di Susa ed era entrato nella 17ma “Brigata Garibaldi”. Di lui si ricorda sempre un famoso aneddoto, l’incontro con Gianni Agnelli durante i giorni della Resistenza e il caffè che bevvero insieme».

Lei si sta occupando anche di catalogazione. In che cosa consiste questo lavoro?

«L’Icsaic proprio in questi giorni ha compiuto 35 anni di vita, di ricerca scientifica e di divulgazione a fini didattici e culturali. Tra i filoni di ricerca c’è anche quello di ricostruire questi vissuti all’interno della grande galassia della Resistenza. Per questo stiamo portando avanti la ricostruzione di piccole biografie del partigianato calabrese al di là dei confini regionali. Esperienze soggettive che ci permettono di comprendere il grande fenomeno della Resistenza».

Gli istituti come l’Icsaic in Italia sono tanti ma alcuni sono costretti a fermarsi per mancanza di fondi. Quali sono le difficoltà che dovete affrontare?

«La prima difficoltà che si incontra è quella del sostegno, non solo economico ma anche spesso istituzionale. Il nostro istituto da qualche tempo ha ripreso però la propria attività con vigore, riuscendo a interfacciarsi con la rete degli istituti nazionali e soprattutto con il riferimento principale che è il Ferruccio Parri di Milano. Offrendo momenti di incontro con studiosi non solo calabresi. L’Icsaic investe inoltre le proprie energie nelle scuole, nella divulgazione, costruendo percorsi didattici affinché lo studio, la ricerca, il libro sia anche un valore civile che porti anche ad acquisire competenze di cittadinanza, che è quello che la Comunità europea e le nuove congiunture storiche e politiche mondiali ci chiedono. Con la sua rivista e i suoi volumi monografici l’Icsaic permette alla Calabria di avere la propria voce all’interno del panorama storiografico nazionale per quanto riguarda lo studio della storia contemporanea».

L’Icsaic attualmente in quali altre ricerche è impegnato?

«Tra i vari filoni di ricerca che l’istituto ha in corso in questo periodo rientrano anche le celebrazioni del centenario della Prima guerra mondiale. Celebrare il centenario però guardando anche al territorio. E grazie a una sinergia tra l’Icsaic e la Regione Calabria, si sta portando avanti un progetto di valorizzazione della conoscenza delle vicende che sono legate alla “Brigata Catanzaro”. Un reparto militare formato principalmente da meridionali e soprattutto da calabresi, che si ricoprì di gloria durante la Prima guerra mondiale, ma subì anche una dura decimazione. La storia della “Brigata Catanzaro” rappresenta un tassello che ci fa capire la gestione dell’esercito durante la Grande guerra e ci permette anche di riflettere meglio sugli anni che vanno dal 1915 al 1918».

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