Domenica, 19 Aprile 2015 10:15

In memoria di Pino Scrivo, il partigiano Aramis (Serra 1920 - Codroipo 1945)

Scritto da Salvatore Costa - Francesco Barreca
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Appena siglato l’armistizio, il Re e Badoglio abbandonano Roma lasciando il paese nelle mani dei tedeschi, divenuti di colpo, da alleati, nemici. La “fuga ingloriosa” del sovrano manda in frantumi l’esercito, la gerarchia militare si sfalda, i reparti vanno allo sbando, gli ufficiali e i soldati fuggono. L’otto settembre 1943 non è solo il giorno dello sfacelo. Diventa anche il giorno delle scelte. Il giorno dei ribelli. Nel vuoto di potere assoluto, con le istituzioni ormai dissolte, alcuni “scelgono”.

Molti lo fanno in solitudine, per la prima volta, senza la copertura rassicurante della legge, o dell’ordine di un superiore. Alcuni lo fanno per convinzione politica, altri per le vessazioni subite in un ventennio tragico e ridicolo, altri per solidarietà. Ma scelgono contro un ordine, quello fascista, che si è dissolto, e contro quello tedesco, che sta subentrando. E da Sud a Nord una società oramai sfaldata sa ricomporsi in una solidarietà spontanea nei confronti dei “ribelli”, regalando un pezzo di pane, un rifugio per la notte, un abito borghese. Tutto al di fuori di quella legge e di quelle istituzioni considerate nemiche dal popolo. La montagna è il luogo della rivolta e del rifugio, e nei monti del Nord, dove per i partigiani è forte l’esigenza di opporsi alla nascente Repubblica di Salò, si lotta per due anni e, tra azioni partigiane e rappresaglie fasciste, sono in molti a cadere.

Alle cinque del pomeriggio del 20 settembre 1944 il sole, ormai prossimo a nascondersi tra i versanti dirupati della valle del Vajont, proietta lunghe ombre sulla mulattiera che costeggia il profondo baratro scavato dal torrente per tuffarsi nel Piave. Due figure – donne, a dire dagli abiti – emergono dal buio della galleria con le gerle colme di fieno sulle spalle, incontrate e seguite con lo sguardo dal presidio di Brigate Nere pigramente accoccolate sul pendio a guardia del passaggio. Il ponte del Colomber, ricostruito dopo che gli austriaci lo avevano fatto saltare in aria nel ’18 per apparecchiarsi meglio la ritirata, non è lontano: se ne distinguono le colonne di cemento armato e il parapetto in ferro, fusi in una struttura arcuata, incastrata in mezzo a due giganteschi grumi di calcare e sospesa sull’orrido del Vajont a più di 130 metri d’altezza. Uscite alla smorta luce dell’ultimo sole, le due figure rallentano il passo, si fermano, lanciano un’occhiata al drappello di Brigate Nere, si sistemano le gerle. Poi riprendono a camminare a testa bassa. Il carico se lo portano addosso da un’ora buona, ma non sembrano accusare fatica. Procedono con calma, aspettando che il sole, finalmente, le liberi dall’incombenza della luce. Perché le due figure non sono donne, ma aitanti giovanotti; e il carico che trasportano non è fieno, ma dinamite. A Erto, da dove sono partiti, molti li conoscono coi nomi di Boris e Aramis; gli amici e i compagni più fidati sanno, invece, che i loro veri nomi sono Bruno Pagotto e Pino Scrivo.


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Pino ha 24 anni ed è nato e cresciuto a Serra San Bruno, a più di mille duecento chilometri di distanza da quella mulattiera lungo il Vajont. Le montagne di Serra, se le sai guardare, non sono poi tanto diverse da queste quassù in Carnia. È lo stesso verdeggiare di faggi e abeti del monte Pecoraro, la stessa calcarosa asperità del monte Stella; al buio del coprifuoco, la sontuosa paratura di dolomite tutt’intorno puoi figurartela a granito, e immaginarti a Ferdinandea. Quelle montagne, Pino le aveva lasciate che aveva vent’anni: in Friuli c’era arrivato da tenente, conducendo carri armati. Alla notizia dell’armistizio, il suo esercito si era disciolto in mille rivoli di disperati alla ricerca di una via di fuga. Pino aveva indossato il fazzoletto rosso al collo ed era entrato nella Brigata Garibaldi, proprio mentre i carri armati dell’operazione Achse calavano attraverso le montagne.

Lo sapeva bene come fare, Aramis, a fermare un carro armato. Il 10 agosto, i tedeschi avevano provato a far inerpicare un carro sulla strada verso Barcis; lui e altri lo avevano assalito, all’altezza del bivio della Molassa, facendolo precipitare nel burrone. Con l’elefantino, Aramis era un chirurgo. Quando la prevedibile rappresaglia si abbatté su Barcis, dilagando dai sentieri di montagna, difficile da affrontare, impossibile da trattenere, e prima che i tedeschi, giunti in serata all’interno del paese, lo dessero alle fiamme, banchettassero e bivaccassero sui suoi resti, Aramis aveva smontato l’elefantino e, aiutato dai suoi, lo aveva messo in salvo tra i boschi e poi portato fino a Erto con 78 proiettili. Sapeva, Aramis, che non potevano perderlo: quel cannoncino da 47/32 era, forse, l’ultima speranza di resistenza in Valcellina.

Nel ’45 della Repubblica partigiana della Carnia non vi sarebbe stato, forse, che il ricordo. Tedeschi, Alleati, partigiani slavi e italiani assetati di vendetta, Brigate Nere, repubblichini, sbandati, ladri e assassini si sarebbero continuati ad azzuffare nella pianura tra Pordenone e Udine. Sulla strada che taglia in due la pianura Pino ci sarebbe passato una notte di marzo, diretto a Codroipo. Chiamato da Giulio Contin, il grande Comandante Riccardo, assieme a un altro partigiano. A Codroipo, Riccardo non ci sarebbe voluto andare: un rifugio di Brigate Nere, quel paese, e lui forse già venduto da qualche collaborazionista. Sarebbero stati lì ad aspettarli, con le rivoltelle in pugno. Pino e l’altro compagno sarebbero stati freddati sul colpo; il comandante Riccardo, già ferito gravemente, immobilizzato, lo avrebbero tirato via dagli anfratti della notte e portato in cella. Torturato per avere informazioni che non sarebbero riusciti a cavargli di bocca, e che si sarebbe portato con sé all’altro mondo, sarebbe morto due giorni dopo.

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Il sole, sperso nei recessi dei monti, cede velocemente il passo al buio della sera. Boris e Aramis hanno superato il blocco di Brigate Nere e attraversato il ponte. Seduti al riparo di uno spuntone, hanno deposto le loro gerle in attesa del tramonto. Uno di loro fa capolino dalle rocce. Le Brigate Nere hanno lasciato la loro postazione. È il momento. Sgattaiolando lungo il ponte, sorvolano di nuovo il baratro già percorso un’ora prima; accompagnati dall’oscuro sfruscio del Vajont, calano la dinamite sull’arcata e dispongono altre cariche all’altezza delle colonne. Giunti dall’altra parte, accendono un pezzo di miccia a lenta combustione e si allontanano velocemente, riprendendo la strada verso Erto. Un lampo di luce biancastra quasi li assale; in un attimo, un fragore cupo, tracimante dalle gallerie come un ululo sboccato dalle viscere della montagna, li arresta. Boris e Aramis si guardano per un istante, e riprendono a correre, sorridendo.

Pino Scrivo viene ucciso il 17 marzo 1945, a Codroipo (Udine), da Renato Meneghini e Amedeo Venturi, due fascisti della banda Leschiutta. Insieme a Pino viene ferito il commissario garibaldino Giulio Quinto Contin (Richard-Riccardo), lasciato morire dissanguato alle “Casermette”. I resti di Scrivo vengono riportati  a Serra dalla famiglia assieme alla sua inseparabile sciabola. Oggi il partigiano Aramis è sepolto nella cappella della famiglia Scrivo, nel cimitero di Serra San Bruno.

(Prezioso per la ricostruzione della vicenda è stato contributo del professore Attilio Scrivo, fratello di Pino, e del professore Franco Gambino, puntuale e instancabile custode della storia e della cultura locale. I fatti riguardanti le azioni di guerriglia e gli ultimi giorni di Pino Scrivo sono stati ricostruiti attraverso documenti tratti da “La resistenza in Friuli 1943-1945” di Giampaolo Gallo – Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, 1988 – e da un articolo del Messaggero Veneto del 23 aprile 2009. Il ritratto in foto è di Giuseppe Maria Pisani).





 




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