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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
In provincia di Vibo si cominciò trent'anni fa, quando ancora non esisteva alcuna normativa sullo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose. Pionieri dell'illegalità, dunque. All'epoca capo dello Stato era Sandro Pertini, il presidente partigiano che, nonostante ne avesse viste tante, probabilmente non credette alle sue orecchie quando gli prospettarono il caso di Limbadi.
Nel piccolo Comune del Vibonese si era candidato alle elezioni un certo Ciccio Mancuso, patriarca di quello che sarebbe divenuto il più potente casato di 'ndrangheta della provincia. Mancuso era capolista e risultò il primo degli eletti, solo che nel momento in cui fu votato era anche latitante. D'altronde era un successo annunciato: la lista di cui faceva parte il fratello del boss Pantaleone (classe 1947) non tradì le aspettative. A non più di 10 giorni dal voto, però, il neoeletto consiglio comunale fu sciolto con decreto del presidente della Repubblica. Primo caso in Italia. Francesco Mancuso morì nel 1997, ma i contatti della sua famiglia con la politica, nel frattempo, sono stati coltivati con dedizione e determinazione dai suoi fratelli, i boss della “generazione degli 11”, che negli anni hanno allungato i tentacoli ben oltre i confini del Vibonese. «Loro parlano di ‘ndrangheta - diceva, intercettato dagli uomini del Ros, proprio Pantaleone “Vetrinetta” - quando la ‘ndrangheta non esiste più!… una volta, a Limbadi, a Nicotera, a Rosarno, a… c’era la ‘ndrangheta!… la ‘ndrangheta fa parte della massoneria!».
Se le parole del boss siano veritiere non è dato saperlo, ma certo la mafia calabrese il salto di qualità lo ha fatto da tempo. I pastori che, muniti di coppola e lupara, dominavano le campagne hanno da tempo messo il vestito buono, e se prima erano loro a bussare alle porte dei politici per ottenere favori e raccomandazioni, ora i rapporti di forza sono certamente mutati e i ruoli, come emerge da molte recenti inchieste giudiziarie, potrebbero in alcuni casi essersi addirittura invertiti. Nel Vibonese l'ultimo provvedimento, in ordine di tempo, che il governo ha emanato in proposito è datato 24 maggio, con la proroga del commissariamento del Comune di Briatico, sulla costa tirrenica.
Questo ente era stato già sciolto per infiltrazioni mafiose nel marzo 2003, poi nell'aprile 2011 era stata nuovamente inviata una commissione d'accesso agli atti, il cui lavoro investigativo ha portato a un nuovo scioglimento, decretato il 21 gennaio 2012. Tra le altre cose, sotto la lente della Commissione in questo caso è finita una lottizzazione sospetta di un terreno (“Brace-Anticaglia”), l'affidamento con procedura di somma urgenza della manutenzione di due edifici scolastici a un'impresa risultata in odore di mafia e il servizio di refezione scolastica che, per ben tre anni consecutivi, sarebbe stato affidato a una ditta «riconducibile alla locale consorteria» che per gli inquirenti sarebbe capeggiata da Antonio Accorinti.
Le temutissime triadi inviate dalla Prefettura hanno fatto visita nei mesi scorsi anche ad altri tre Comuni non molto distanti: Joppolo, Ricadi e Limbadi. In questo caso ad indurre l'Ufficio territoriale del governo a disporre, nel giro di appena 20 giorni, i tre mandati ispettivi, è stata l'operazione “Black Money” condotta dalla Dda di Catanzaro contro la cosca Mancuso. Nell'ambito del blitz del Ros era finito in manette anche Giovanni Paparatto, tecnico del Comune di Ricadi, poi scarcerato dal Tribunale del Riesame di Catanzaro. Secondo i magistrati, il dipendente comunale avrebbe fornito supporto al clan Mancuso e ad Agostino Papaianni, altro arrestato, avvalendosi del suo ruolo istituzionale e tutelando gli interessi delle imprese riferibili al gruppo, mantenendo «contatti con professionisti e funzionari al fine di ottenere vantaggi per le aziende mafiose».
Un caso destinato a fare giurisprudenza è invece quello di Nardodipace, comune dell'entroterra montano al confine con la provincia di Reggio. Qui l'amministrazione di centrodestra guidata da Romano Loielo, eletto nel 2007, si è vista arrivare la commissione d'accesso, una prima volta, nel settembre 2008. L'allora Prefetto di Vibo, Luisa Latella, chiese al Viminale lo scioglimento, ma il governo Berlusconi – ministro dell'Interno era il leghista Maroni – decise di archiviare la pratica. La notizia fu accolta ovviamente con gioia dagli amministratori dell'epoca, e l'ex senatore del Pdl Franco Bevilacqua, in proposito, affermò pubblicamente che «la 'ndrangheta a Nardodipace non esiste, perché qui non ci sono soldi».
Nell'aprile 2011 però scattò la maxioperazione “Crimine” che svelò l'esistenza di un presunto locale di 'ndrangheta proprio in quello che per anni era stato bollato come “il paese più povero d'Italia”, e capo indiscusso della cosca secondo i magistrati reggini sarebbe stato Rocco Tassone, il cui figlio, Romolo, era vicesindaco nella giunta Loielo. L'epilogo arrivò a dicembre 2011 con lo scioglimento dell'ente, decretato dal governo Monti. Un finale analogo vissuto, nel luglio 2012, dagli ex amministratori di centrodestra della vicina Mongiana, che nel 2009 avevano vinto le elezioni per soli 18 voti. Segno politico opposto, ma stessa sorte, per Vincenzo Varone a Mileto, che si è visto respingere anche il ricorso al Tar del Lazio con motivazioni che ribadiscono come non sia necessaria la commissione di reati per accertare forme di condizionamento o contiguità. In più per Varone e diversi esponenti della maggioranza è stata decretata anche l'incandidabilità.
Nonostante la normativa sia divenuta abbastanza stringente, anche l'ex sindaco di San Calogero, Nicola Brosio, sta provando a percorrere la strada del suo omologo miletese: è di pochi giorni fa il suo ricorso contro il decreto di scioglimento che, tra le altre cose, aveva rivelato la presunta vicinanza di due consiglieri (uno di maggioranza e uno di opposizione) a Vincenzo Barbieri, broker internazionale della cocaina legato ai Mancuso e ucciso il 12 marzo 2011 proprio a San Calogero, la cui moglie sarebbe legata da rapporti amicali proprio con l'ex sindaco.
Si tratta di sospetti messi nero su bianco dagli investigatori e che verranno affrontati nelle sedi giudiziarie, ma a volte basta il giusto tempismo ad evitare sorprese: a Gerocarne, paese delle Preserre al centro dell'operazione “Luce nei boschi”, l'ex sindaco Sebastiano Rocco Catania si dimise a marzo 2012 «per motivi di salute», ma meno di sei mesi dopo ci fu comunque l'accesso antimafia che, questa volta, si è concluso con l'archiviazione per insussistenza. Ancora più svelti sono stati a Parghelia: appena è stato reso noto che qualche esponente dell'amministrazione comunale poteva essere sfiorato dall'inchiesta “Peter Pan” contro il clan La Rosa di Tropea, il sindaco Maria Brosio ha rassegnato le dimissioni insieme alla maggioranza di centrodestra, evitando così il possibile arrivo della commissione d'accesso e agguantando anche la riconferma nelle recenti amministrative.
Una strategia, questa, per nulla presa in considerazione dal sindaco di Serra San Bruno, il pidiellino Bruno Rosi, che ha minacciato in conferenza stampa di tagliarsi un dito in caso il governo decidesse di commissariare per mafia il “suo” Comune. La grottesca minaccia, però, non deve aver avuto grande risonanza né nelle stanze del Viminale né in quelle della Prefettura: per l'amministrazione del comune montano, il cui dominus politico è l'assessore regionale Nazzareno Salerno, il coinvolgimento dell'ex assessore Bruno Zaffino – arrestato e poi scarcerato – nell'operazione “Saggezza” non rappresenta certamente l'unica circostanza che ha spinto l'Utg vibonese a chiedere lo scioglimento.
E infine c'è il comune capoluogo, su cui, pare, gli inquirenti abbiano messo insieme un fascicolo piuttosto corposo. La grana più scottante – e più recente – riguarda, come riportato dalla stampa locale, un consigliere comunale di maggioranza, Giancarlo Giannini (Pdl), individuato, ma non ancora formalmente indagato, nell'inchiesta “Libra” come «soggetto in rapporti di cointeressenza con appartenenti al clan Tripodi-Mantino».
Inoltre, non sono passati inosservati alcuni affidamenti di lavori, consulenze e gare d'appalto che avrebbero favorito imprese vicine ad assessori in carica, in alcuni casi di proprietà di parenti.
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L'attuale presidente del Senato Piero Grasso, quando era Procuratore nazionale antimafia, ha più volte affrontato la questione con una battuta molto amara: «Ci sono zone del Paese dov'è lo Stato che deve infiltrarsi e fa fatica a farlo». Il dato geografico, in effetti, è abbastanza impietoso per il meridione: negli ultimi 5 anni (dall'aprile 2008 al dicembre 2012) sono stati sciolti 49 consigli comunali, di cui 24 in Calabria, 12 in Campania, 9 in Sicilia, 2 in Liguria e 2 in Piemonte. Se si considera invece il periodo compreso tra il 1991 e il dicembre 2012, dei 227 Comuni commissariati per mafia – a cui vanno aggiunte anche 4 aziende sanitarie – 91 si trovano in Campania, 64 in Calabria, 58 in Sicilia, 7 in Puglia, 3 in Piemonte, 2 in Liguria, 1 in Basilicata e 1 nel Lazio. 36 di questi sono stati sciolti due volte.
Il 2012, con 25 provvedimenti di scioglimento, è stato un anno record. Ma, oltre all'impennata in termini numerici, la significativa inversione di tendenza impressa dal governo Monti riguarda proprio la mappa geografica delle infiltrazioni criminali nelle amministrazioni pubbliche. Negli ultimi due anni sono stati sciolti per mafia ben 4 Comuni del Nord: non sono pochi, specie se si pensa che nei vent'anni precedenti c'era stato un unico caso, quello di Bardonecchia (Torino) commissariato nel 1995. Piemonte e Liguria sono le regioni a più alto rischio: a marzo 2011 è toccato a Bordighera (Imperia), mentre tra febbraio e maggio 2012 è stata la volta di Leinì e Rivarolo Canavese (Torino) e di Ventimiglia (Imperia). Senza precedenti, infine, è stato lo scioglimento del Comune di Reggio Calabria, il primo capoluogo di provincia commissariato per mafia.
Il colore delle amministrazioni sciolte è prevalentemente di centrodestra, anche se c'è da considerare che nel marasma delle liste civiche molto spesso è difficile distinguere la connotazione politica di maggioranze che non di rado sono frutto di accordi trasversali legati più al territorio e alle singole persone che alle dinamiche dei partiti nazionali.
Per la 'ndrangheta, però, il “gancio” per infiltrarsi nella gestione della cosa pubblica non è sempre e solo politico. Da diverse inchieste giudiziarie, infatti, è emerso che spesso sono le attività dell'apparato burocratico degli enti ad essere pesantemente condizionate. Proprio per questo tali situazioni sono state regolamentate sia dalla legge 221 del 22 luglio 1991, sia, in maniera ancora più stringente, dal testo unico degli enti locali (decreto legislativo 267/2000, articoli 143 e seguenti).
Infine è utile ricordare che, nonostante si sia molto diffusa, tra gli amministratori colpiti dai provvedimenti di scioglimento, la tendenza ad impugnare i decreti di fronte al Tar, il Consiglio di Stato ha più volte sentenziato che il commissariamento per infiltrazioni mafiose è da ritenersi un istituto di natura preventiva e cautelare: in sostanza, per arrivare allo scioglimento basta che gli elementi raccolti siano anche solo “indicativi” di un condizionamento dell’attività degli organi amministrativi da parte della criminalità organizzata.
(servizio pubblicato sul numero 105 del Corriere della Calabria)
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