Lunedì, 10 Ottobre 2016 13:33

Oro nero

Scritto da Salvatore Albanese
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Quanti anni sono passati da quando il Meridione dei borghi e delle campagne narrava di una povertà estrema che camminava a braccetto con la prolificità delle famiglie? In piccole case si viveva in tanti e con poco da mangiare. Era il Sud, cronicamente regredito, ma con un tasso di fecondità congiunturale di gran lunga superiore a quello delle altre zone d’Italia. Oggi il divario economico con il resto del Belpaese, in termini di tecnologia, offerta dei servizi e mercato del lavoro, resta ancora ampio, ma la regressione del numero di nascite è profonda, in perfetta controtendenza rispetto al passato. Allora il Sud si guarda attorno e si scopre in balia di un inesorabile processo di desertificazione che – prevedono gli esperti del settore – porterà ad un accentuato spopolamento.

A risentirne di più saranno ovviamente le aree interne, i piccoli centri di montagna, le periferie estreme che in regioni come la Calabria hanno rappresentato storicamente l’ossatura sociale di una terra ricca di culture e conoscenze, arti, mestieri, memorie, bellezze naturali incastonate nei luoghi di un popolo che si ritrovava però quotidianamente impegnato a misurarsi con le avversità della vita. Quel mondo è sparito, perché l’esodo verso le zone più industrializzate e verso più dignitose occasioni di vita e lavoro, dopo un periodo di quiete, è ricominciato. Insomma, lo spopolamento fa già paura. E guardando agli indicatori della disoccupazione, della produzione e della crescita, è diventato assai difficile continuare a credere alla solita favoletta di un massiccio intervento pubblico, dello Stato o dell’Unione europea, che arriverà, prima o poi, a trarci tutti in salvo.

Ed è proprio a questo capo di una matassa sempre più ingarbugliata che si annoda quello della questione migranti, la gestione dei sistemi di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che arrivano in Italia fuggendo da guerre e dittature e che fa capo al Ministero dell’Interno, ma che trova pratica nell’accoglienza integrata posta in essere da enti locali e soggetti privati. L’accoglienza, un campo in cui si scatena uno scontro dialettico ormai esasperato ed esasperante e che traccia un solco profondo tra due distinte “scuole di pensiero”. Da una parte della contesa i buonisti sempliciotti e sdolcinati dell’«accogliamoli ad ogni costo, senza se e senza ma», che pare abbiano una concezione dell’immigrato assai vicina a quella del pesce rosso comprato alla fiera, dell’animale domestico da compagnia, perché «anche se non siamo organizzati a gestire l’emergenza, una sistemazione si troverà»; dall’altra i «prima gli italiani», infarciti di rozzo egoismo, che fino a ieri invocavano la secessione e magari non hanno mai neanche attraversato quelle terre deserte e sconfitte che stanno sotto Napoli, da cui i ragazzi migliori sono già andati via. Gli italiani, quelli giovani, non ci sono e non ci saranno più. Ci sono rimasti i nonni che non hanno più niente da chiedere al futuro, impegnati ad invecchiare nel miglior modo possibile.

Due eccessi interpretativi che non offrono la giusta chiave di lettura rispetto ad una questione che appare preoccupante e ormai quasi inarrestabile, quella dello spopolamento, e che potrebbe, con le giuste proporzioni e con adeguate pianificazioni, trovare sollievo in un’altra questione scottante, l’immigrazione. Scottante perché gestita oggi in maniera scellerata, non rivolta a spiragli di crescita reciproca, per chi accoglie e per chi è accolto.

In Calabria (se non per pochi casi isolati, come la Riace di Mimmo Lucano, già più volte trattata, ma anche Acquaformosa, Badolato, Caulonia) l’opportunità assai spesso diventa business, affarismo orchestrato dagli attori di un sistema che trasforma la solidarietà e l’integrazione sostenibile (che risulterebbe utile in particolare, appunto, per la rifondazione dei luoghi), in mera occasione di lucro. Nove volte su dieci, ad avere campo libero sono gli speculatori del mondo della cooperazione: ex politici e imprenditori, spesso vicini alle diocesi, che quasi mai giocano a favore di un’apertura verso l’esigenza per gli immigrati di ricrearsi una nuova esistenza e, allo stesso tempo, di crearla ai luoghi che li accolgono, rivitalizzare borghi in declino, abbandonati, già soggetti a rapido spopolamento. Basti pensare che, in questa regione, il numero maggiore di rifugiati viene destinato ai cinque comuni capoluogo di provincia, mentre lo spopolamento, come detto, mette in ginocchio centri piccolissimi, perfetti per ospitare intere famiglie. Quando avviene, invece, che proprio i piccoli paesi divengono luoghi individuati per l’accoglienza, il tutto si trasforma in una misura asettica, finalizzata agli introiti di pochi e per, soprattutto, nessun beneficio diretto a vantaggio della comunità. Figuriamoci per gli ospiti.

È questo il caso di Brognaturo che – apprendiamo dall’albo comunale – si prepara a ricevere altri cento ragazzi, questa volta tutti «minori non accompagnati al momento dello sbarco» che dopo una prima identificazione e foto-segnalazione, la Questura di Vibo Valentia sta destinando a strutture protette autorizzate per l’accoglienza. In definitiva, i ragazzi in questione, su richiesta di una società cooperativa, “Stella del Sud”, verranno sistemati in una struttura privata di Brognaturo, l’ex Hotel Lacina, già adibita ad accogliere richiedenti asilo, situata in località “Castagnarella” a quasi 10 chilometri di distanza dal centro abitato. Un percorso tra i boschi disagevole terrà distanti questi adolescenti dalla civiltà, dall’integrazione. Insomma, un residence turistico andato a male trasformato in scarabattola da collezione. Ed è chiaro che se l’idea dell’accoglienza resta quella di ghettizzare gli extracomunitari – mentre decine di immobili dei centri storici crollano abbandonati – la solidarietà si tradurrà sempre più in emarginazione, isolamento e prosperosa opportunità imprenditoriale. Gli ingredienti migliori per continuare a gonfiare, fino alla prevedibile esplosione, una bomba sociale tra persone, etnie, culture che semplicemente si odiano perché non si conoscono.

Intanto i centri sono già paesi fantasma, con le strade vuote, le terre incolte, un grandissimo patrimonio immobiliare in rovina, istituti scolastici sull’orlo della chiusura, l’artigianato tradizionale estinto. Allora, ai tempi dell’austerity e dei tagli sistematici alla finanza locale, perché non ricostruire la vita degli immigrati e la vita dei nostri paesi, la nostra vita? A Riace la moneta locale complementare – tanto per dirne una – non lascia il tanto chiacchierato “pocket money” in mano al singolo immigrato. Gli immigrati devono spendere nei negozi e nelle botteghe del paese per le esigenze giornaliere. Finiscono nel commercio locale, lo alimentano, hanno effetto moltiplicatore sul territorio. I consistenti fondi pubblici, invece, creano posti di lavoro per gli italiani che, attraverso associazioni no profit, gestiscono realmente le attività amministrative e logistiche, il vitto, la formazione, i corsi di lingua e di educazione civica. Una soluzione occupazionale che, quindi, potrebbe contribuire anche ad arrestare la fuga dei nostri giovani. Vi sembra poco?

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