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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Gli “evitabili” decessi sul lavoro continuano a rivelarsi inevitabili. L'Italia, anche questa volta, si è meritata la maglia nera delle morti bianche. Un amaro primato sancito dalle circa mille vite perse dal gennaio al dicembre 2014: il record europeo. Un bilancio drammatico che non si dovrebbe raccontare in un mondo civile, ma che puntualmente accresce l’elenco di un bollettino ormai lungo quanto quello di una guerra cruenta. Storie di italiani e di migranti, di donne e di uomini d’ogni età. Storie troppo presto dimenticate, rimosse dalla mente, almeno finché – come in questi giorni – la cronaca nera non le rende di nuovo attuali.
Adrian Miholca a Laino Borgo, in provincia di Cosenza, c’era andato solo per lavorare. La ditta nella quale era impiegato, già da qualche tempo, aveva allestito i cantieri sul Viadotto "Italia" dell’A3. E così, per cinque giorni a settimana, dal lunedì al venerdì, il giovane di origine rumena arrivava in Calabria partendo dalla provincia di Salerno, dove aveva affittato un appartamento assieme ai due fratelli e al padre. «Una dinastia di professionisti – raccontano i colleghi –, sul lavoro i Miholca sono considerati degli esperti: minatori capaci di abbattere un palazzo senza neanche muovere una foglia a poche decine di metri di distanza». Ma, esattamente una settimana fa, lo scorso 2 marzo, mentre Adrian lavora sul ciglio del viadotto per preparare il vecchio tratto sottostante alle attività di demolizione, la campata di cemento, asfalto e ferro, gli si frantuma sotto le ruote della ruspa su cui è a bordo. Forse meno di un secondo e tra la scavatrice e il cielo non c’è più nulla. Solo ottantacinque metri di vuoto. Le macerie del viadotto trascinano il mezzo, e dentro al mezzo Adrian, in un volo libero diretto alla morte. Si schianta a terra sepolto da una grossa nuvola di polvere.
Eppure, in tutto questo, non c’è nulla di fatale né di inevitabile. Nei mesi scorsi erano stati i sindacati a segnalare l’alto livello di rischio nei lavori di ammodernamento del macrolotto dell’A3 tra gli svincoli di Laino e Mormanno. Timori manifestati soprattutto in riferimento ai flussi di manodopera, agli orari e ai turni di lavoro, il tutto nonostante Prefettura, Anas e il contraente generale Italsarc, avessero puntualmente stipulato un “protocollo di legalità”. L’opera – un gigantesco appalto di circa cinquecento milioni di euro –, grazie alla Legge Obiettivo, si era trasformata in una serie infinita di scatole cinesi. La stessa Italsarc aveva, infatti, potuto ripartire i lavori ad una sessantina di imprese, che a loro volta avevano sub-affidato le attività ad altre ditte minori. La maniera giusta, dicono i sindacati, «per alimentare – dati i tempi stretti di realizzazione – un allentamento nei controlli e nella vigilanza dei protocolli di legalità sui contratti, sull’organizzazione e sugli orari di lavoro».
Il resto è una storia già vista. Dopo qualche ora di sdegno collettivo, la tragedia viene relegata all’oblio che meritano in genere le questioni troppo scomode, spinose e indigeste per essere discusse con dovuta misura. Il viadotto è chiuso al traffico e posto sotto sequestro. L’Anas ha individuato percorsi alternativi per la circolazione pesante e per quella leggera. I tempi di riapertura «non sono prevedibili» e a Potenza, giovedì, si è riunito in Prefettura il Comitato operativo per la viabilità. La chiusura prolungata allarma l'economia, perché il trasporto su gomma rimane il mezzo principale per muovere le merci, in particolare per l’ortofrutta, settore strategico per Calabria e Sicilia. «L’ottanta per cento del trasporto su gomma è dedicato all’ortofrutta, un comparto che impone una regola semplice e secca: in 22 ore la merce appena raccolta deve stare nei mercati del Centro e del Nord. Altrimenti la puoi buttare. A stento ci riuscivamo prima con gli eterni rallentamenti sull’A3; ora, con le deviazioni dei percorsi alternativi, ci vogliono 30 ore» spiegano i trasportatori.
Insomma, la frenesia di una “Repubblica fondata sul lavoro” ingoia ogni cosa. Macina i morti, brucia i tempi, non distingue la fisionomia di migliaia di persone schiave di un impiego che fa vivere o morire. È spietata ed egoista. Dimentica in fretta le tragedie, ed altrettanto in fretta riparte verso nuovi obiettivi, nuove fabbricazioni, nuove fatture, nuove consegne dei cantieri o delle merci, nuove scadenze da rincorrere. Un effetto maligno che sembra profondamente innervato dalle leggi del mercato o magari è semplicemente figlio della perversa dedizione all'indifferenza? La salma di Adrian Miholca è già sottoterra in Romania.
Foto Tele Cosenza
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