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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
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Molti ricorderanno la scena iniziale di Nosferatu, il capolavoro di Werner Herzog del 1979 ispirato al grande classico espressionista del 1922 Nosferatu il vampiro di Friedrich W. Murnau, con il volo notturno di un gigantesco pipistrello che appare in sogno a una terrorizzata Isabelle Adjani dopo la sequenza di una lunga teoria di scheletri e mummie sotterrati dentro una cripta. Storicamente, il pipistrello non ha mai cessato di popolare gli incubi degli uomini: pipistrello-vampiro, pipistrello-demonio e oggi, nell’ultima terribile incarnazione di cui siamo passivi protagonisti, pipistrello-untore, deposito del coronavirus all’origine dei tempi sospesi e tristi della pandemia che stiamo vivendo, forse scatenata per il tramite di un “animale ponte”, che ha reso possibile il salto di specie. Come segnalava nel 1608 Francesco M. Guaccio nel suo magnum opus demonologico Compendium Maleficarum, il pipistrello costituisce una delle molte inquietanti manifestazioni delle capacità metamorfiche del diavolo, che non rinuncia né a incarnazioni in forme umane né a mascheramenti animaleschi: «Il diavolo si muta [...] con piacere in animali dalle qualità poco encomiabili, il più antico dei quali è il becco – si legge nel Compendium –. Quando stringe un patto con qualcuno, egli suole mostrarsi in aspetto umano, ma poi quando pretende d’esser venerato, si mostra sempre in forma di caprone, puzzolente, brutto, ripugnante [...]. Se vuol mostrarsi modello di fedeltà e amicizia si muta in cane o gatto; se deve portar via qualcuno assume forma di cavallo; se mira a intrufolarsi in qualche buco, schivando i guardiani si cambia in topo, donnola, pipistrello». Non è soltanto l’immaginazione colta di un religioso come Guaccio ad associare al pipistrello una connotazione malefica, poiché anche nei dialetti italiani è rimasta una traccia precisa di tale carattere che lo assimila nel nome a esseri demoniaci: «Oltre a maranóttula (prov. Ancona), malanottu, maramótula (prov. Macerata), e ai tipi uccello del malaugurio nel Trentino, uccello della malanotte in Calabria o uccello della morte, vedi folletto nel Leccese, e spiritello in Toscana, spertello in Garfagnana, spiritillu a Fermo e Pesaro, spirdillo nel Maceratese, nelle Marche spiritícolo; Bitonto e Trani uccello del demonio, diaulicchiu o tiáulë a Brindisi [...]», scrive il linguista Gian Luigi Beccaria in un’opera importante dedicata ai linguaggi scomparsi (I nomi del mondo. Santi, demoni, folletti e le parole perdute, Einaudi, 1995). Il pipistrello è inscindibile da una stretta associazione con figure diaboliche, che ha una sua storia precisa, non soltanto europea, raccontata da J. Baltrušaitis in Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica (Adelphi, 1993) e che non è possibile qui richiamare.
Di tale storia un piccolo frammento, quasi una nota al margine scaturita dal culto e dall’iconografia di San Bruno di Colonia, si trova depositato nel territorio di Serra e merita di essere ricordato. Siamo agli inizi del XVII secolo, la medesima epoca della pubblicazione del trattato sui demoni di Francesco M. Guaccio, quando Bruno di Colonia viene riconosciuto in maniera abbastanza diffusa e precisa come il santo che guarisce dagli “spiriti maligni”. Ne rende esplicita testimonianza, nella sua opera postuma Della Calabria illustrata, Padre Giovanni Fiore laddove scrive: «Questo santissimo patriarca [...] volatosene al Cielo l’anno 1101, a 6 di ottobre, lasciò in terra il suo prezioso Corpo, che risplende con molti, e continui miracoli, quali maggiormente si ammirano nel giorno, in cui celebrasi la sua festività, ch’è il primo Lunedì di Pentecoste, nel quale la statua con dentro la testa del Santo si porta processionalmente nella Chiesa di S. Maria, e nel seguente giorno si restituisce al pristino Santuario, concedendo in tali occasioni molte grazie a coloro, che implorano il di lui patrocinio. L’istesse grazie miracolose ancora dispensa un’altra Statua di pietra del medesimo Santo, posta più addentro del bosco in mezzo ad un laghetto di acqua vicino a quel luogo, dove l’istesso Santo fu scoverto dal Conte Rogiero, che menava sua vita in beata solitudine, e penitenza; alla quale vi concorrono gl’Infermi di ogni genere per conseguir la salute, e specialmente gli ossessi da’ spiriti maligni, contro de’ quali ha una virtù maravigliosa per metterli subito in fuga».
«Specialmente gli ossessi da’ spiriti maligni», scrive Fiore: San Bruno è il taumaturgo della possessione diabolica, colui che guarisce gli spirdàti, uomini e donne posseduti dal diavolo e dagli spiriti non pacificati dei morti di morte violenta. Le parole del Fiore trovano un importante riscontro in una fonte iconografica collocata attualmente nella Chiesa Matrice di Serra San Bruno nella parte destra del Coro, ma appartenuta alla Certosa di S. Stefano, forse ispiratrice anche degli elementi compositivi dell’opera. Si tratta del quadro SS. Trinità con Santi Certosini dipinto da Francesco Caivano, secondo quanto attesta la firma in basso a destra, nel 1633. La tela è suddivisa in due metà: nella parte alta stanno la Trinità, circondata dal coro degli angeli, la Madonna (alla destra del Figlio), San Giovanni Battista (alla sinistra del Padre); nella parte bassa San Bruno e sei certosini, probabile allusione ai sei compagni che furono con Bruno nel cammino verso la prima Certosa. Bruno, in piedi, occupa il centro della scena, ha il capo circonfuso da un’aureola e rivolge lo sguardo estatico verso il cielo. Poggiato sulla mano sinistra tiene aperto un libro, nella destra un ramoscello d’ulivo. Alla destra e alla sinistra di Bruno stanno due gruppi, ciascuno di tre persone. Due “santi” per parte sono in piedi, indossano la mitria e sorreggono il pastorale; inginocchiati vediamo, invece, due monaci certosini: uno viene colto nell’atto di scrivere qualcosa sopra un libro, l’altro, le mani giunte sopra il petto, in atteggiamento di assorta preghiera. Completano la scena un cigno (probabilmente collegato al primo vescovo alla destra di San Bruno, identificabile con quel S. Ugo di Lincoln che aveva appunto un cigno come proprio simbolo), che si affaccia dal margine sinistro del quadro, e un piccolo demonio con le ali di pipistrello, posto ai piedi del patriarca certosino. Il contesto e la committenza “locale” dell’opera, soprattutto se inserite nelle specifiche modalità dell’agiografia di “ispirazione” calabrese, fanno decisamente propendere per il collegamento del pipistrello-demonio con San Bruno: la presenza del maligno con ali di pipistrello sembra attendibilmente da interpretare come un’allusione a San Bruno guaritore degli ossessi, che, grazie alle sue virtù taumaturgiche, realizza la sconfitta delle potenze demoniache. Pochi anni dopo, nel 1645, sotto il priorato di Dom Tommaso Cantina, sarebbe stato costruito il laghetto di S. Maria del Bosco, che tanta parte avrebbe avuto – lo ricordava già Padre Giovanni Fiore – nelle guarigioni di indemoniati, immersi nelle sue acque, a imitazione dei duri esercizi ascetici del santo, perché il contatto con l’elemento miracoloso favorisse l’espulsione degli spiriti.
F. Caivano, SS. Trinità con Santi certosini, 1633, Serra San Bruno, Chiesa Matrice
Laghetto di Santa Maria del Bosco (inizi del XX secolo)
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