Domenica, 11 Marzo 2018 13:22

L’INEDITO | Le lotte operaie nella Serra dell’800

Scritto da Tonino Ceravolo
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Le stesse cose, si potrebbe dire, ritornano, se non fosse che non ritornano nello stesso modo e mutando, ovviamente, non sono nemmeno le stesse. Un caso ottocentesco, rimasto sinora pressoché sconosciuto (se si eccettua un breve riferimento di Gianfranco Gritella) e di cui si darà più diffusamente conto in un’ulteriore sede, illustra non soltanto aspetti importanti della condizione operaia nella Serra della fine del XIX secolo, ma offre qualche motivo di riflessione anche nella prospettiva dell’attualità, attraversata dal problema del lavoro e dalla propaganda politica sugli extra-comunitari che quel lavoro “ruberebbero” agli italiani, almeno secondo una certa vulgata affermatasi come sentimento abbastanza diffuso.

Nel microcosmo delle Serre calabre degli anni terminali dell’Ottocento a “rubare” il lavoro ai serresi erano i forestieri, rispetto ai quali i ceti operai e artigiani cittadini rivendicavano un diritto alla primogenitura fondato non soltanto su una sorta di ius soli, bensì pure sulla loro riconosciuta perizia e abilità manuale (“mastranza di la Serra”, recitava, non a caso, un ben noto strambotto popolare). Un fascicolo, rinvenuto dallo scrivente nell’archivio della Certosa nell’ambito dell’attività di ricerca per la collana “Collectanea Cartusiae Sanctorum Stephani et Brunonis”, edita da Analecta Cartusiana, consente di ricostruire gli snodi essenziali delle proteste che videro gli operai serresi avere come interlocutori, oltre alla Certosa medesima, la Grande Chartreuse di Grenoble, l’architetto François Pichat (progettista della ricostruzione ottocentesca del monastero), la ditta appaltatrice dei lavori di ricostruzione.

Tutto era cominciato, infatti, quando la casa madre francese dell’ordine certosino aveva, appunto, dato il via ai lavori di riedificazione della Certosa calabrese dopo il terremoto del 1783 in vista della successiva riapertura. A breve distanza temporale dall’inizio di tali lavori, il 27 marzo del 1895 i “capi d’arte ed operai” del comune di Serra si rivolgevano al rettore della Certosa “con la parola sincera, schietta, leale, per metterla in chiaro di molti equivoci che fin’ora si sono verificati, e specie per la conculcata entità dell’operaio serrese”. L’equivoco principale, come si scopre leggendo ancora il testo della missiva, consisteva nella circostanza che “non faceva d’uopo, dimenticando i sottoscritti, far venire, da un altro paese, il sedicente capo d’arte Francesco Tripodi al quale noi abbiamo il coraggio di starci a fronte”. Tanto era il desiderio di dimostrare le qualità delle maestranze serresi da far aggiungere, in conclusione, come “non ostante la miseria, relativamente alla mancanza del lavoro, noi ci contentiamo prestare la nostra opera gratis, per far toccare con mano all’impresa assuntrice dei lavori e all’Ordine Religioso che la Rev.ma S. V. qui degnamente rappresenta, che Serra paese di forte ingegno non fu mai seconda a nessuno per lo sviluppo dell’arte e del mestiere”.

Il giorno dopo, 28 marzo 1895, era la “Società Operaia di Mutuo Soccorso di Serra S. Bruno”, per mano del suo presidente Giuseppe Maria Pisani, a rivolgere un formale reclamo “contro l’Ammessione al lavoro di operai non Serresi”, indirizzato ancora al rettore della Certosa, ma dal quale si capisce che l’obiettivo polemico, pur non citato, doveva essere con ogni probabilità la ditta incaricata dell’esecuzione dei lavori, poiché si riconosceva apertamente che tutto stava avvenendo “ad onta di quanto il Rev.do Padre Generale dell’Ordine si benignò stabilire, a pro dei naturali di quella Serra”. La polemica e la protesta operaia contro tale “invasione” forestiera non si erano, tuttavia, assopite con la presa di posizione ufficiale della Società Operaia di Mutuo Soccorso, se numerosi documenti degli anni seguenti, sui quali non è qui possibile soffermarsi, attestano le ripetute lagnanze delle maestranze serresi, tra le quali particolarmente convinte e articolate quelle dei muratori e degli scalpellini, ma un documento del 14 novembre del 1897, sottoscritto da quasi cento lavoratori e indirizzato al Procuratore Generale dei certosini, fa ben capire come, alla fine, si fosse pervenuti a un risultato positivo, pur nel timore di trovarsi di fronte a una soluzione non definitiva: “I sottoscritti cittadini serresi, perennemente memori del grande beneficio avuto mediante il lavoro in cotesta ragguardevole Casa, sentono il dovere di rivolgere alla Paternità Vostra Rev.ma, infinite azioni di grazie, per aver da loro allontanato il disagio, che, in questi tempi calamitosi, batte, quasi, alla porta di ognuno”, ricordando ancora come si fosse dato “sollievo ai bisognosi, dispensando pane e lavoro”. Tuttavia, non era la sola manodopera operaia a segnalare le proprie rimostranze, poiché la presenza dei forestieri entrava in rotta di collisione anche con le aspettative dell’aristocrazia degli artisti serresi. Ne fanno fede tre lettere del pittore di scuola morelliana Giuseppe Maria Pisani (1851-1923), che abbiamo già incontrato nel ruolo di presidente della Società di Mutuo Soccorso, nelle quali il malumore verso le scelte operate riguardo alle decorazioni della chiesa conventuale della Certosa, affidate a Carmelo Zimatore (1850-1933), non viene taciuto né al rettore della casa religiosa né all’architetto François Pichat: “La classe dei decoratori di qui […] aspettava tranquilla il suo turno – scrive Pisani in una lettera a Pichat, di cui, come delle altre, daremo integrale ragguaglio in un prossimo contributo – Ma si vide arrivare in Certosa il Prof. Zimmatore da Pizzo, per assumere il lavoro di decorare la Chiesa, e ne restò delusa ed umiliata”, anche perché, aggiunge ancora Pisani, tale scelta era stata determinata dall’intervento di una persona (della quale tace il nome) – “maligna, infame, bugiarda e strisciante, per quanto è inetta, presuntuosa e gelosa in Arte” – che aveva dato “recise assicurazioni, di non esservi in Serra chi poteva occuparsi dei lavori di che trattasi”.

Appartiene a questa serie documentaria anche una lettera di “lagnanze”, certamente non autografa, rivolte da Bruno Pelaggi all’architetto Pichat nel novembre 1896 (per la quale rinviamo a un ulteriore contributo sul Vizzarro), in cui il poeta serrese rivendica con orgoglio il proprio duplice ruolo nel lavoro manuale e intellettuale, “si, anche intellettuale perché devo continuamente pensare a tutto ciò che debbono fare gli operai, tagliare le sagome e quanto altro richiede la direzione di un lavoro abbastanza difficile e complicato”. Un Bruno Pelaggi, come apprendiamo da un altro documento inedito, che già il 3 giugno 1888 aveva firmato con la Certosa un contratto per la realizzazione dei sei finestroni e della facciata del refettorio, ponendosi, anche dal punto di vista della sua attività professionale, come figura di rilievo della storia della comunità a cavallo tra Otto e Novecento.

Tonino Ceravolo

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