Tra il 2000 e il 2007 a San Calogero arrivavano in media 60 tonnellate di rifiuti al giorno. In teoria si trattava di rifiuti «non pericolosi», prodotti per lo più dalla centrale termoelettrica a carbone Enel di Brindisi. I camion, provenienti dalla Puglia, si recavano sul monte Poro in una località che, per uno scherzo del destino, è conosciuta come “Tranquilla” – un aggettivo che oggi suona parecchio beffardo –, che ha dato il nome anche alla fabbrica di laterizi finita al centro dell'operazione “Poison”.
Secondo la Procura di Vibo, in un'area di 150mila metri quadrati, sarebbero state stoccate illegalmente circa 135mila tonnellate di rifiuti che, in realtà, sarebbero stati molto pericolosi e che, sulla carta, dovevano essere trattati e reimpiegati nel ciclo produttivo della “Fornace Tranquilla”. Per gli inquirenti, invece, tutto questo materiale – fanghi e ceneri derivanti dai processi industriali – sarebbe stato smaltito illegalmente. Interrato. In mezzo agli agrumeti.
LA STORIA
Il 5 novembre 2009 una pattuglia della guardia di finanza di Vibo sta monitorando un sito industriale apparentemente abbandonato. Gli uomini delle Fiamme gialle però si accorgono dell'arrivo di una persona, che apre il lucchetto del cancello ed entra con la sua auto all'interno della recinzione. Si tratta di Giuseppe Romeo, socio e dipendente della “Fornace Tranquilla S.r.l.”. Ispezionando l'area, tra cumuli di scarti provenienti dalla lavorazione dei mattoni, macchinari in disuso, lamiere, carcasse di veicoli industriali e fusti contenenti olii in parte riversati a terra, i finanzieri si accorgono di una stranezza: il piazzale antistante il capannone, in terra battuta, in realtà è la sommità di un terrapieno, alto oltre 10 metri, costituito da più strati di terreno con colorazioni diverse. L'odore che ne proviene è quello acre e pungente degli idrocarburi. Inoltre, lungo le pareti del terrapieno, ci sono alcune aree molto ben definite in cui manca completamente qualsiasi forma di vegetazione. Ultimo elemento: tracce chiare e recenti – all'epoca – di pneumatici di mezzi pesanti, ben impresse sul terreno. Appare chiaro a quel punto che il sito potrebbe essere stato utilizzato come discarica di rifiuti di ogni genere. L'area viene quindi sequestrata, e Romeo viene arrestato. Dai documenti acquisiti in seguito, gli investigatori cominciano a ricostruire l'intero ciclo che quei rifiuti hanno seguito prima di arrivare a San Calogero.
L'azienda di laterizi era autorizzata a ricevere esclusivamente rifiuti non pericolosi da destinare direttamente al riciclo, senza la possibilità di metterli in riserva o di accumularli. Dai documenti sequestrati emerge che dal 17 maggio 2000 al 20 settembre 2007 ci sono stati 4512 conferimenti, per un totale di oltre 134mila tonnellate di rifiuti. In media, dunque, venivano effettuati due viaggi al giorno per 60 tonnellate scaricate, una quantità che la fornace, secondo la Procura, non era assolutamente in grado di smaltire. Dopo circa un anno, vengono emessi 18 avvisi di conclusione indagini, destinati ad alcuni responsabili e tecnici della centrale termoelettrica a carbone Enel “Federico II” di Brindisi, ai titolari della “Tranquilla” e di altre aziende incaricate del trasporto dei rifiuti dalla Puglia alla Calabria, e a due dipendenti dell'amministrazione provinciale vibonese, che però vengono ben presto scagionati dalle accuse. L'impianto accusatorio parla di presunte responsabilità di Enel, delle ditte di trasporto e di “Fornace Tranquilla S.r.l.”, i cui responsabili sono accusati di associazione a delinquere finalizzata al traffico e all’illecito smaltimento di rifiuti pericolosi, disastro ambientale con conseguente pericolo per l’incolumità pubblica, avvelenamento di acque e di sostanze alimentari, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale, falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, e gestione non autorizzata dei rifiuti. La prima udienza del processo doveva tenersi lo scorso 24 giugno ma, a causa di un difetto di notifica, è stata rinviata al 25 novembre.
LE RESPONSABILITÀ
Il gup ha disposto il rinvio a giudizio per dodici persone. Si tratta di Giuseppe Romeo, 67 anni di Taurianova (incaricato della gestione dei rifiuti che arrivavano all'impianto), Stefano Romeo, 34 anni di Taurianova, Umberto Acquistapace, 80 anni di Rosarno (legale rappresentante della S.r.l. “Fornace tranquilla”) e Angelo Vangeli (dipendente e ragioniere della società). Poi ci sono i responsabili delle società detentrici dei rifiuti e incaricate del trasporto: Vito Sabatelli, 56 anni di Cisternino (titolare dell'omonima impresa individuale), Antonio Roma, 70 anni di Carovigno (aministratore unico della “Società lavori ecologici S.r.l.”), Angelo Ippolito, 39 anni di Monopoli (rappresentante legale della “Sotram S.r.l.”), Giuseppe Antonio Marraffa, 49 anni di Carovigno (rappresentante legale, dal 2003 al 2006, della “Ecoservizi S.r.l.”), Vito Antonio Sacco, 53 anni di Carovigno (amministratore unico, fino al 2003 e dal 2006, della stessa azienda). Infine gli uomini Enel: Luciano Mirko Pistillo, 54 anni di Rovigo (responsabile dell'unità di business della centrale di Brindisi dal 2003 al 2006), Carlo Aiello, 49 anni di Brindisi (responsabile della liena movimentazione materiali, compresi i rifiuti della “Federico II”), Diego Baio, 55 anni di Roma (dal 2001 al 2006 responsabile “Esercizio Ambiente e Sicurezza” della centrale a carbone).
L'IMBROGLIO
Il nodo della questione – l'imbroglio, secondo gli inquirenti – starebbe tutto nella certificazione del materiale mandato a San Calogero. Il codice C.e.r. (Catalogo europeo dei rifiuti) è composto da sei cifre e serve ad identificare i rifiuti in base al processo produttivo da cui sono generati. Quelli che arrivano ai piedi del monte Poro sono contrassegnati con il codice 100121 (“fanghi prodotti dal trattamento in loco degli effluenti”), diversi dai rifiuti pericolosi che dovrebbero essere identificati con il 100120. Il fatto che quei rifiuti fossero invece pericolosi emerge – inconfutabilmente, secondo la Procura – dalla consulenza effettuata dall'Arpacal di Cosenza. Nel sito sarebbero stati stoccati metalli pesanti, solfuri, cloruri, fluoruri, nichel, selenio, stagno e vanadio. Si tratta di elementi che in determinate combinazioni possono generare composti altamente tossici e cancerogeni, e il consulente tecnico dell'accusa non esclude «la concreta e reale possibilità che i componenti pericolosi presenti in abbondanza nel sito potessero essere diffusi nell'ambiente circostante». In seguito all'operazione, infatti, il prefetto di Vibo ha disposto la distruzione di tutti i prodotti agricoli coltivati nell'area interessata. Dalle indagini è emerso inoltre che la quasi totalità dei rifiuti (il 93% circa) fosse riconducibile all'impianto Enel di Brindisi, dove il materiale, secondo gli inquirenti, veniva «falsamente certificato» come non pericoloso. Dopo il trasporto, dunque, i rifiuti dovevano essere inseriti nel ciclo produttivo, dovevano essere riciclati nella fornace che ne avrebbe dovuto ricavare materiale per l'edilizia. Invece, una volta arrivati a San Calogero, fanghi e ceneri industriali venivano interrati come se si trattasse di una discarica adeguata a quello scopo. Mandare quei rifiuti in discarica, operando a norma di legge, sarebbe costato molto di più che destinarli al riutilizzo come doveva essere fatto alla “Fornace Tranquilla”. La “terza via” che sarebbe stata praticata dagli imputati – il presunto smaltimento illecito dei rifiuti che avrebbe provocato un disastro ambientale – avrebbe fruttato alla presunta associazione un risparmio di oltre 18 milioni di euro.
IL PROCESSO “GEMELLO”
Il 12 maggio 2009 scatta l'operazione “Leucopetra”. Nel territorio di Motta San Giovanni, paese non molto distante da Reggio Calabria, il Corpo forestale dello Stato scopre e sequestra una cava abusiva di rifiuti: 10 persone vengono arrestate e sono posti sotto sequestro beni per oltre 7 milioni di euro. La Procura della città dello Stretto, che stava lavorando all'indagine già da 4 anni, scopre un presunto traffico di rifiuti pericolosi tra Puglia e Calabria. Si parla di circa 100mila tonnellate di materiale proveniente dalla centrale Enel di Brindisi interrato in località “Leucopetra”, vicino alla spiaggia di San Lazzaro, a meno di mezzo chilometro dal mare, in un'area sottoposta a vincoli idrogeologici e paesaggistici. Le accuse sono disastro ambientale e associazione finalizzata all'attività organizzata di traffico illecito di rifiuti pericolosi. Stesso copione, luoghi diversi, stessi protagonisti: quattro degli imputati del processo di Reggio – Marraffa, Sabatelli e, per Enel, Aiello e Baio – sono accusati degli stessi reati nel processo di Vibo. In entrambi i procedimenti si è costituito parte civile il Wwf Calabria. A Motta San Giovanni le indagini sono cominciate grazie alle segnalazioni di alcuni cittadini, a San Calogero invece, prima della scoperta delle Fiamme gialle, la fornace sembrava “solo” una delle tante fabbriche abbandonate in mezzo al nulla che però, si è scoperto, aveva ben poco di “tranquillo”.
Pubblicato sul numero 108 de 'Il Corriere della Calabria'