Lunedì, 13 Maggio 2013 13:05

Mattanza senza fine. Le faide del Vibonese e la regia occulta dei clan più potenti

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mini omicidio_ciconte_sorianello_25_settembre_2012VIBO VALENTIA - Salvatore Lazzaro pensava di essere al sicuro. Nella casa della sua famiglia, nelle Preserre Vibonesi, seduto sul divano al pian terreno, non poteva sapere di essere nel mirino dei killer appostati sotto la sua finestra. Il 23enne di Savini, frazione di Sorianello, era agli arresti domiciliari perchè coinvolto in un’operazione antidroga della Procura di Torino. Aveva dei precedenti, era legato da amicizie e parentele a un gruppo di giovani che adesso qualcuno vuole sterminare. Storie sbagliate, storie di ragazzi uccisi a colpi di lupara, forse da coetanei, in una striscia di terra, tra Ariola di Gerocarne e Savini, insanguinata dal ritorno di una vecchia, feroce, faida di ‘ndrangheta. Che potrebbe non essere circoscritta alle Preserre, ma essere frutto di manovre occulte, di una guerra fredda tra cosche ben più potenti, se non addirittura tra mandamenti.

La faida. Lo scontro in atto nel territorio compreso tra Soriano, Sorianello e Gerocarne, vede contrapposte le cosche Loielo ed Emanuele. Lazzaro – come il cugino Nicola Rimedio, anche lui precedenti per droga, ucciso a 26 anni il 2 giugno 2012, e come Antonino Zupo, ucciso a 31 anni sull’uscio di casa mentre era ai domiciliari per droga, il 22 settembre 2012 – secondo gli inquirenti farebbe parte del gruppo Emanuele. In mezzo c’è anche l’omicidio di Domenico Ciconte (foto), imprenditore 63enne, ucciso il 25 settembre 2012, fratello di Fausto, ucciso negli anni ’80 nell’ambito della prima faida dei boschi, allora a capo della “famiglia” che, alleata con gli Emanuele-Nardo e sostenuta dagli Jerinò di Gioiosa Jonica, risultò perdente nella guerra contro i Vallelunga di Serra San Bruno, allora alleati ai Turrà di Guardavalle.

A riaccendere la faida è stato il tentato omicidio di un altro ragazzo, Giovanni Emanuele, 23 anni, ferito gravemente ma sopravvissuto ad un agguato tesogli il primo aprile 2012. Giovanni è cugino di Bruno Emanuele, 41enne boss indiscusso dell’omonima cosca. Nell'ottobre del 2012, invece, a morire innocentemente è stato Filippo Ceravolo, ucciso mentre si trovata in compagnia di Domenico Tassone sulla strada che da Pizzoni porta a Soriano. Il vero obiettivo dell’agguato in cui ha perso la vita il povero Filippo, 19enne estraneo alla faida, colpito alla testa da un colpo di fucile, era proprio Tassone. 

La scalata di Bruno Emanuele ai vertici della ‘ndrangheta locale raggiunse il suo apice il 22 aprile 2002. Il giovane Bruno aveva fatto strada e aveva stretto amicizie importanti. Di recente è stato condannato all’ergastolo per due omicidi commessi nella Sibaritide tra il 2003 e il 2004: da quelle parti aveva fatto dei “favori” al suo amico Antonio Forastefano, “Tonino il diavolo”, boss incontrastato di Cassano, oggi collaboratore di giustizia. Pare che i due boss, non fidandosi di altri al di fuori di se stessi, e avendo anche ottima mira, si scambiassero spesso favori del genere. Erano “come fratelli”. E Forastefano ha raccontato ai magistrati della Dda di Catanzaro di essere stato lui, proprio insieme ad Emanuele, quel 22 aprile 2002, ad uccidere i fratelli Vincenzo e Giuseppe Loielo, allora ai vertici dell’omonima cosca. Con questo duplice omicidio il giovane boss avrebbe imposto il suo comando su tutte le Preserre, fino a quel momento dominate dai Loielo.

L’ascesa di Bruno fu rapida e sanguinaria: il suo modo di esercitare il controllo del territorio – dal traffico di droga alle estorsioni – lo aveva già portato ad avere contrasti striscianti addirittura con i Mancuso, potente casato di Limbadi che estende i suoi tentacoli su gran parte della provincia vibonese. Gerocarne era diventato un centro nevralgico dello smistamento di cocaina (operazione “Ghost”) e, quando andavano a lavorare da quelle parti, anche le imprese vicine ai Mancuso dovevano chinare la testa di fronte agli Emanuele. Il giovane boss ha stravolto i vecchi equilibri, scalzato i Loielo e assunto un ruolo di primo piano all’interno della cosiddetta “società dell’Ariola”, l’organismo ‘ndranghetista che doveva garantire gli equilibri nella zona, capeggiato da Antonio Altamura, detto “u sindacu”, 66 anni, coinvolto nell’operazione “Crimine” e accusato di recente, tra le altre cose, dell’omicidio di Placido Scaramozzino, un parrucchiere di Acquaro preso a colpi di zappa e sepolto ancora vivo. Il corpo di Scaramozzino, che avrebbe pagato con la vita la vicinanza ad una cosca avversaria, non è mai stato ritrovato.

Adesso Bruno Emanuele è in carcere: condannato per gli omicidi di Nicola Abruzzese e Antonio Bevilacqua e, tra le altre cose, accusato dal suo ex amico fraterno di essere il responsabile del duplice omicidio dei fratelli Loielo. Da una parte l’operazione “Luce nei boschi” – che ha sgominato la società dell’Ariola – e dall’altra l’assenza forzata del boss dal “suo” territorio, potrebbero aver convinto le nuove leve della cosca avversaria a riaprire la faida, a cercare vendetta e a tentare di sterminare il gruppo Emanuele. Anche se i vecchi capi sono caduti, le famiglie sono rimaste e i giovani, cresciuti a pane e ‘ndrangheta, vogliono riprendersi il territorio, vogliono la restaurazione dei vecchi equilibri.

La regia occulta. E’ l’ipotesi su cui stanno lavorando gli inquirenti, sulla scia di quanto successo di recente a Vibo, dove sull’asse Stefanaconi-Piscopio si è consumata una faida che è risultata essere ben più articolata di quanto potesse sembrare dai territori di riferimento delle famiglie in guerra. Qui tra il gruppo dei Patania, storicamente legato ai Mancuso, e il “locale” emergente dei “Piscopisani” si è scatenato uno scontro feroce che ha portato ad innumerevoli fatti di sangue particolarmente efferati. Su tutti, l’omicidio di Davide Fortuna, 31enne legato al gruppo di Piscopio ucciso in spiaggia, davanti a moglie e figli, il 6 luglio scorso a Vibo Marina.

Dalle inchieste “Gringia” e “Dietro le quinte” è emerso che a muovere le fila della guerra contro gli “autonomisti” di Piscopio, giovani spregiudicati che non sottostavano più al dominio dei boss di Limbadi, fosse proprio Pantaleone Mancuso, 52 anni, detto “Luni scarpuni”, a capo di una delle articolazioni della cosca più potenti dal punto di vista militare. I killer assoldati per decimare il gruppo di Piscopio arrivavano dall’est e, in alcuni casi, sorvegliavano le potenziali vittime tramite un software che avevano installato sui propri telefoni cellulari. Un ultimo tassello completa la geografia delle guerre di ‘ndrangheta che stanno insanguinando il Vibonese: se i Patania sono fedeli ai Mancuso, i piscopisani godono del sostegno di alcune cosche della Locride. In particolare, dall’operazione “Crimine” sono saltati fuori “stretti legami” tra il gruppo emergente di Piscopio e i Commisso di Siderno, gli Aquino di Gioiosa Jonica e i Pelle “gambazza” di San Luca. Famiglie temute e potenti, che costituiscono l’architrave del Crimine di Polsi. In sostanza i Piscopisani appoggiavano un altro gruppo emergente a Vibo, capeggiato da Andrea Mantella: un’alleanza, questa, che aveva messo in discussione il controllo della cosca di Limbadi su Vibo città, e che perseguiva un progetto autonomista che potrebbe essere stato caldeggiato anche da altre potenti famiglie del Vibonese ostili ai Mancuso, come i Bonavota di Sant’Onofrio, gli Anello di Filadelfia, i Vallelunga di Serra San Bruno e, infine, gli Emanuele. Inoltre, non è certo un dettaglio il fatto che “u sindacu” Antonio Altamura, capo e garante degli equilibri della società di Ariola, aveva ricevuto “la Santa” proprio dal Crimine di Polsi, da don Mico Oppedisano. Tutto ciò, incrociato con i risvolti della faida dei piscopisani, conferma che alcuni storici casati di ‘ndrangheta del “mandamento jonico” stanno stringendo alleanze e facendo proseliti nel Vibonese, nel feudo dei Mancuso, famiglia altrettanto potente e parte integrante del “mandamento tirrenico”. Il risultato è una mattanza senza fine.

(articolo pubblicato su Il Corriere della Calabria n. 97)

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