Domenica, 30 Aprile 2017 09:33

La “gita a Chiasso” della politica culturale. Serra, la pinacoteca e il museo delle cose perdute

Scritto da Tonino Ceravolo
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La struttura dell'ex carcere, che dovrebbe ospitare la pinacoteca comunale La struttura dell'ex carcere, che dovrebbe ospitare la pinacoteca comunale

Si potrebbe cominciare da un tempo lontano, quando, siamo nel giugno del 1984, Cesare Brandi, autorevolissimo storico dell’arte e sommo esperto di teoria del restauro, scrive su Serra e sulla Certosa nella terza pagina del “Corriere della Sera” non nascondendo il proprio sfavorevole giudizio sugli ambienti architettonici del monastero: “Con un gentile padre certosino giravo per questi ambienti squallidi, e squallidi perché quelli antichi sono in rovina e quello moderno è dei primi del Novecento, in un ‘gothic revival’ legnoso e insulso con vetri colorati e falsi mosaici: e il refettorio, anch’esso finto gotico; ognuno con il suo boccalino calabrese”.

Nel medesimo articolo, Brandi, giustamente immune da qualsiasi preoccupazione di lesa maestà, osservava ancora che a Serra ci sarebbero anche delle discrete chiese barocche, ma che nessuno le guarda perché tutti si fanno calamitare dalla presenza della Certosa. La Certosa, le chiese e la costituenda pinacoteca (alla quale ha già dedicato un penetrante articolo Il Vizzarro: Serra, quale futuro per la pinacoteca comunale?): il punto di partenza per un primo approccio al problema dei beni culturali di Serra non può essere che questo. E da questo si può muovere per proporre un’osservazione iniziale (sulla quale ritorneremo per riannodare i fili del discorso): che chi voglia conoscere le vicende artistiche della Certosa (e ammirare le opere superstiti che ne hanno reso importante la storia) deve “guardare” fuori dal monastero. Tranne poche eccezioni, ciò che in Certosa era da ascrivere alla storia dell’arte tra XVII e XVIII secolo non si trova più nel suo luogo d’origine e quanto è venuto dopo, a partire dalla ricostruzione post-terremoto, quasi sempre è espressione di una cultura provinciale, incapace di affacciarsi al di là dei confini locali. Uno dei problemi principali è qui: come costruire una politica dei beni culturali e una politica culturale tout court che sappia liberarsi dai pregiudizi delle “idee ricevute” e dalla contemplazione autoreferenziale degli enfants du pays, dei quali, però, appena fuori dall’angusto limes del borgo natio, nessuno parla. Piuttosto che un discorso “circolare”, in cui ce la raccontiamo tra di noi e ciascuno conferma l’altro nelle proprie convinzioni, servirebbe, allora, per usare un’espressione ormai proverbiale impiegata nel 1963 da Alberto Arbasino nel tentativo di scuotere la cultura italiana dal suo provincialismo, una “gita a Chiasso”, se non altro per osservare il “gran libro del mondo” e vedere anche come vanno le cose altrove. Dove capita, per limitarci a pochissimi esempi, che dall’idea semplice e geniale di un giornalista, il compianto Saverio Tutino, nasca l’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano e che questo si trasformi, nel giro di un certo numero di anni, in “Fondazione Archivio Diaristico Nazionale”, con tutto quel che consegue pure in termini di visibilità e di notorietà per la piccola Pieve (un comune di poco più di tremila abitanti). Oppure (capostipite un’iniziativa torinese promossa in occasione dei 150 anni dell’unificazione nazionale) che si affermi il cosiddetto “museo diffuso”, un museo, reale e virtuale, che di una città mette insieme, connette e stringe in rete i luoghi più significativi: musei, piazze, chiese, spazi naturali. Cominciamo, a questo punto, a riannodare i fili del discorso, con alcune conclusioni e proposte. Intanto, la Certosa - peraltro da diverso tempo non più visitabile e, quindi, non disponibile per il circuito del turismo - non “conta” per i suoi attuali beni artistici (molto pochi quelli di sicuro valore), ma per i suoi “beni” spirituali e immateriali: su questi occorrerebbe “investire”, nel rispetto della regola di clausura che sovrintende alla vita dei monaci, se solo si capisse che, con Camaldoli e con Bose, rappresenta sicuramente uno dei “luoghi dell’infinito” di maggiore densità spirituale presenti in Italia. Conta, invece, (e molto) l’eredità culturale che la Certosa ha lasciato a Serra dopo il terremoto del 1783, splendidamente visibile nelle chiese del paese e che costituisce una delle più elevate concentrazioni di beni artistici della regione, nonostante molte dispersioni siano state all’origine di un rilevante depauperamento del patrimonio di questo territorio (si pensi, per esempio, ai vasi dell’antica farmacia del monastero, dei quali non uno solo è rimasto in loco). Terzo problema è quello di come “riempire” le sale dell’ex carcere ristrutturato nei pressi di San Rocco, senza dimenticare la circostanza essenziale che non basta avere un luogo vuoto e alcune sale per farne un museo (e che per fare una pinacoteca bisogna avere i quadri e solo quelli, altrimenti è un’altra cosa). Né basta collocarvi alcuni manufatti, più o meno artistici, perché il museo sia realizzato. Si tratta, invece, di ragionare sulla “musealizzabilità” di uno spazio, sulle risorse umane ed economiche per poterlo costituire, sulle reali e concrete modalità di gestione (anche per evitare di chiuderlo tristemente nel giro di pochi giorni o settimane). E si tratta di capire cosa metterci dentro, quale “idea” di museo si voglia realizzare e per rivolgersi a chi (qual è il pubblico che si ha in mente? Le gite scolastiche? Quello delle “vacanze intelligenti”? I turisti mordi e fuggi ferragostani?). Da ultimo, si vuole una proposta “forte” o basta accontentarsi di ciò che si ha a disposizione e che, probabilmente, non è in grado di produrre alcun “valore aggiunto” (né culturale né economico)? Insomma, si vuole una struttura museale che valga la pena di un viaggio a Serra (da fuori provincia, da fuori regione) o uno spazio che non meriti il prezzo del biglietto, il costo della benzina, i minuti spesi per visitarlo? Due sole proposte, lasciando in sospeso, per ora, la questione dei beni immateriali della Certosa e premettendo che la seconda delle due ci sembra l’uovo di Colombo, solo a pensarci:

1. Spazio ex  carcere: perché non lanciare, tramite bando pubblico, un concorso di idee, ampio, che guardi anche lontano da Serra e che possa coinvolgere associazioni, gruppi, singoli, studiosi e operatori dei beni culturali, da soli o associati, in grado di far entrare in competizione i diversi progetti e che li sottoponga al giudizio (competente, ma “severo”, senza indulgenze) di una giuria concorsuale qualificata? Un concorso che guardi a questo luogo in maniera sistemica, invitando i partecipanti a presentare proposte per tutto lo spazio (gli interni e gli esterni, il giardino e le sale), a progettare seguendo criteri museologici, a programmare guardando anche all’economia dei beni artistici e culturali, a offrire un “prodotto”, si potrebbe dire  con un’espressione abusata, “chiavi in mano”. Senza legarsi a idee precostituite, lasciandosi attrarre anche dalle idee inconsuete, dalle proposte insolite, magari dall’ancora non detto o non visto.    
2. Museo diffuso: lo dicevamo prima, chiese, piazze e musei, un museo reale e virtuale, la Certosa fuori della Certosa (ossia nelle chiese di Serra: i Müller, i Poccetti, i De Matteis, i Fanzago). Basta connettere il già connesso, lungo l’asse viario che da San Rocco conduce a Santa Maria e inserirvi anche il Museo San Biagio, i piccoli musei delle confraternite già esistenti, i luoghi della memoria come il monumento ai Caduti e piazza San Giovanni, anche qui secondo un progetto e una logica sistemica. Le identità plurali di ciascun singolo bene culturale mantenute distinte in quanto tali e, al tempo stesso, strutturate in rete per proporre un’identità condivisa, che racconta la storia plurisecolare di una comunità. Ben sapendo che connettere vuol dire programmare orari, modalità d’apertura e di fruizione, predisporre strumenti di lettura del museo territoriale, costruire percorsi digitali di consultazione degli “ambienti” del museo, delle sue opere, degli artisti, catalogare i manufatti artistici che lo “allestiscono”, predisporre audio-guide, app, portali web, ma evitando, per carità, l’impresentabile cartellonistica post IX centenario di San Bruno, non riproponendo gli orrori e gli errori della sintassi italiana, dei riferimenti artistici, dei cenni storici. E con il rammarico per i beni culturali forse irrimediabilmente perduti (dice qualcosa a qualcuno la “serra dei Monaci”?) e per quelli che, se non si fa in fretta, stanno per perdersi (si veda la piccola gemma di San Rocco). Ecco, un altro bel museo sarebbe quello delle cose perdute. Nel caso di Serra non ci sarebbero sale sufficienti per ospitarlo. 

Tonino Ceravolo

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